29 Dicembre 2009

Parla Romani, l’economista triestino che studia il global warming: conseguenze “devastanti” per l’economia e il nostro stile di vita

Dal Liceo Galilei del Preside Giovanni Forni alla London School of Economics, passando per le consulenze al governo britannico sui cambiamenti globali del clima. E’ il curriculum in short di Mattia Romani, triestino, classe 1974, che abbiamo intervistato per Bora.La per avere un’opinione eccellente su come economia, energia e ambiente si annodino attorno al destino della nostra comunità e di quello di tutta l’umanità. Che ritiene il dialogo tra stati e aziende un « balletto» su una «fune sospesa su un baratro» di catastrofi inimmaginabili e, allo stesso tempo, ritiene fondamentale il ruolo delle comunità locali in questa epica planetaria che stiamo vivendo.

«Sono partito dal Galilei», racconta Mattia, «da cui sono venuto via per andare al collegio del mondo unito, a Duino. Una volte finito il collegio sono andato a studiare economia al Sant’Anna di Pisa, per poi fare un master in sviluppo alla London School of Economics. Quindi in Banca Mondiale tra Washington e l’Africa lavorando sulla povertà e sviluppo per un paio d’anni e poi un dottorato in economia di nuovo in Inghilterra, a Oxford. Poi sono andato a lavorare nel reparto strategie di Shell tra Londra e l’Olanda, dove ho incominciato ad occuparmi di politiche economiche sul cambiamento climatico, per spostarmi poi al governo Inglese, dove ho lavorato per Lord Nicholas Stern, l’advisor di Gordon Brown sull’economia e il cambiamento climatico. Ora sono rientrato all’università, alla London School of Economics, come research fellow e faccio l’advisor per McKinsey, la ditta di consulenza strategica americana che forse più di qualunque altro attore del settore privato si sta occupando delle conseguenze del cambiamento climatico per il grande business».

– La tua esperienza professionale ti ha permesso di conoscere l’ambiente di multinazionali e di Governi. Nella tua esperienza chi tra questi due ambienti ha più potere nel decidere le sorti del clima globale?

«E’ un balletto, che si sta svolgendo su una fune sospesa su un baratro. I governi e le multinazionali devono ballare in maniera perfettamente sincrona: ad ogni passo del governo (una tassa sulle emissioni, un incentivo per le rinnovabili, un cambio delle imposte sugli import, eccetera) deve seguire un passo delle multinazionali (cambiare le technologies di produzione, investire in nuove tecnologie, entrare o uscire da un mercato). Se si sbagli si cade, e i danni per l’ambiente e l’economia sono enormi e,  spesso, irreversibili. Quindi hanno molto potere tutte e due, ma possono esercitarlo correttamente solo insieme».

– Qual è invece il potere di comunità locali come quelle dei triestini, dei capodistriani o dei friulani nell’affrontare questi problemi?

«Fondamentale. Il mondo è fatto proprio di comunità locali e di comportamenti legati agli interessi di comunità locali come quelle vicino a noi. I comportamenti volti ad una strategia di sostenibilità di lungo periodo nascono dall’avere l’accortezza e la lungimiranza di creare incentivi locali che portino ad una soluzione globale. La buona notizia è che i vantaggi a livello locale di politiche volte a ridurre le emissioni sono sostanziali. Cambiare i processi produttivi, usare risorse energetiche rinnovabili, cambiare le modalità di trasporto hanno importanti co-vantaggi oltre a ridurre le pericolose emissioni di gas ad effetto serra: minor inquinamento locale (quindi aria e acqua più pulite, mano malattie respiratorie, meno rifiuti tossici), strade meno rumorose (pensate ad un centro città in cui l’unico rumore è il sibilo di auto elettriche), migliori trasporti pubblici, per poi arrivare a vantaggi strategici, quali minor dipendenza energetica, minor spesa per l’import di energie fossili e via dicendo».

– Quali sono i costi che una comunità statale-nazionale e una locale (come quelle di cui sopra) dovranno affrontare se non risolvono i problemi dell’ambiente?

« Parlo di due cose soltanto, sulle quali c’è abbastanza certezza nelle previsioni. Primo nella zona nord mediterranea tutti i modelli di cambiamento climatico indicano una forte probabilità che queste sono diventino semi-aride, un passo prima, quindi, di diventare desertiche. Finiremmo quindi ad assomigliare sempre più al nord-africa in termini di clima, con conseguenti enormi problemi di approvvigionamento dell’acqua o di sopravvivenza di determinate coltivazioni. Le conseguenze sarebbero devastanti, per l’economia e il nostro stile di vita. Improbabile, per esempio, che colture come la vite possano sopravvivere. Ve lo immaginate?»

– Cosa suggerisci ai sindaci ma anche all’opinione pubblica triestina su questi temi?

«Anche qui, due semplici consigli – umilmente visto che non posso certo dire di essere ormai un esperto delle nostre zone e delle politiche locali. Primo: non perdere mai d’occhio i grandi trend globali e di capire come trasformarli in opportunità per la città. Il clean-tech è un buon esempio. Che ruolo possono giocare Trieste e le zone limitrofe, in termini di skills e di conoscenze, nella rivoluzione tecnologica che, io credo inevitabilmente, avrà luogo nel corso dei prossimi decenni.Cosa possiamo fare per creare tali skills e conoscenze? Quali elementi della ricerca che si svolge in queste zone potrebbero essere elementi importanti di questa rivoluzione? Che modelli possiamo prendere, per esempio da realtà simili in Cina o in California (entrambi luoghi chiave nella rivoluzione low-carbon), per ispirare la nostra città?
Secondo: una forte campagna di conoscenza e istruzione pubblica della popolazione. La gente deve capire i rischi associati al cambiamento climatico e le conseguenze dei loro comportamenti nella realtà locale e della loro vita di tutti i giorni. Non è facile capire cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, per cambiare le cose e quali sono i comportamenti più importanti da adottare. Consiglio vivamente un recente breve libro di David McKay (Global warming without the hot air, disponibile gratis sul sito www.withouthotair.com ). David con grande semplicità e con pochi calcoli banali, indica quali sono le cose più importanti da fare e quali quelle inutili, cioè quelle che producono più aria calda per raccontarle a cena con gli amici di quella che riducono in termini di emissioni. David è diventato chief scientist del governo Inglese è sarà a capo delle politiche di informazione pubblica per il paese. Sarebbe bello usare fare qualcosa di simile a Trieste!».

– Ma tu riesci a vivere “carbon-free” cioè in maniera sostenibile per l’ambiente? E se sì, come?

«Male. Volo troppo per lavoro. Cerco di ridurre le emissioni acquistando certificati di riduzione pari alle emissioni che causo con i miei voli. Ma come tutti sono vittima della mancanza di segnali forti sul mercato che permettano ad i beni che consumiamo di riflettere accuratamente le emissioni che causano. Senza un accurato prezzo del CO2 è davvero difficile».

– Ultima domanda in salsa super-nostrana: ti sei fatto un’opinione favorevole o contraria al rigassificatore a Trieste (e perchè)?

«No, ne ho letto troppo poco per farmi una opinione sufficientemente accurata. Mi pare di capire ci sia un po’ di – comprensibile – effetto nimby (not-in-my-back-yard) nelle comunità locali. Niente di nuovo: simili problemi ci sono stai nel sud della California, ai confini con il Messico. C’è da capire se i vantaggi per Trieste sarebbero tali da giustificare gli impatti negativi, e se questi possano essere ridotti al minimo. Certo la domanda di gas, anche in scenari ricchi di energie rinnovabili, rimane fondamentale vista la necessità di associare a fonti rinnovabili (che sono per natura non costanti – sole, vento eccetera) fonti di energia costanti ) per il baseload – la domanda energetica constante fondamentale ad alimentare le nostre industrie. E il gas, al momento, è considerata una delle fonti miglior in termini di costi ed emissioni. Quindi, in linea generale, investimenti nel gas e quindi nella rigassificazione sono lungimiranti. Quanto, forse, la scelta combattuta di costruire l’oleodotto transalpino Trieste-Inglostad 50 anni fà».

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11 commenti a Parla Romani, l’economista triestino che studia il global warming: conseguenze “devastanti” per l’economia e il nostro stile di vita

  1. Diego Kuzmin ha detto:

    Tante banalità le ho sentite anche dalla venderigola, che però non cerca di ridurre le sue emissioni di Co2 acquistando certificati di riduzione pari alle emissioni che causa.
    Sono sconcertato dalla pochezza che appare da questo articolo, pochezza che può far capo solo a due persone: intervistato o intervistatore.

  2. enrico maria milic ha detto:

    bene. grazie diego per il tuo contributo costruttivo.

  3. arlon ha detto:

    Onestamente, anche mi trovo – più ne le risposte che le domande – la intervista un poco superficiale.
    Unico punto che salvassi e che, anche se xe una frase semplicissima, fazesi tesoro xe “non perdere mai d’occhio i grandi trend globali e di capire come trasformarli in opportunità per la città”.

    Semo in una era de cambiamenti de la percezion de la comunicazion incredibili; le comunità locali abili POL zogar un ruolo.

    L’importante xe partir sia dal alto (governanti) che dal basso (citadini).
    Se no se agissi in tute e 2 le direzioni, no polo funzionar.
    Anche in questo, no rivo a capir perchè parti dela zona industrial no vegni destinade a nove industrie (spin off, etc) de alta tecnologia e tecnologie pulite!
    Partir da Area, SISSA e simili per crear una industria stabile me par el futuro più logico.

  4. lanfur ha detto:

    Io non ho letto l’intervista perchè alla frase “Ora sono rientrato all’università, alla London School of Economics..” ho realizzato che ha una carbon footprint più grande lui di tutta l’Africa messa insieme.

  5. enrico maria milic ha detto:

    credo che la mia intervista sia un po’ generica, è vero. ma non ero convinto che scendere nei particolari avesse molto senso.
    magari se qualcuno avesse delle domande specifiche per mattia, lui forse potrebbe rispondere.

  6. Luca ha detto:

    Beh.. io una ne avrei, ma non sono sicuro che Mattia sia la persona giusta, da economista. Però, forse..
    Insomma, se è in atto un cambiamento climatico che può portare alla semi-aridità del Mediterraneo, le politiche per le basse emissioni ancorchè adottate a livello planetario, possono invertire la tendenza? Ci sono modelli di cambiamento climatico anche su questo?

  7. Al Custerlina ha detto:

    Due cose diverse.
    Primo, vorrei far notare che il nord-africa ha subito la desertificazione in tempi non sospetti, prima che l’uomo cominciasse a usare combustibili fossili, e per cause naturali. Inoltre, non dimentichiamo le glaciazioni, avvenute sempre per cause naturali, e le conseguenti deglaciazioni (riscaldamento), ancora per cause naturali. Tutti fenomeni periodici che non abbiamo ancora capito come funzionino. E’ indubbio, comunque, che le emissioni vadano ridotte, se non altro per la nostra salute (e non è poco). Infine, io credo che il problema climatico si risolverà da solo una volta che l’umanità avrà utilizzato tutti i combustibili fossili presenti sul pianeta. Se non sbaglio ciò dovrebbe accadere entro 60/100 anni, un arco di tempo microscopico rispetto ai grandi cicli geologici, climatici e solari che veramente regolano l’attività atmosferica. (il discorso è molto vasto e complesso, mi limito a buttare suggestioni)
    Seconda cosa: l’effetto nimby ha rotto le scatole. Inutile paragonare Trieste alla vastità dei territori e degli ambienti oceanici californiani o messicani. O di Tokio. Noi siamo nel cul de sac più allungato dell’intero mediterraneo, con una batimetria media del golfo di Trieste che lo fa assomigliare di più a una vasca da bagno che a un mare, quindi ci sono problemi oggettivi di carattere tecnico-scientifico da affrontare con estrema serietà. Non è il momento di fare boutade alla moda.

  8. marco ha detto:

    Io invece più che le risposte ho trovato le domande “superficiali”, sebbene sia comprensibile.

    Commenti come quelli di Lanfur invece denotano una preoccupante chiusura mentale e, forse, un complessino di inferiorità. Visto il cv dell’intervistato.

    Problema rigassificatore: l’effetto nimby (vogliamo dire che non esiste, specie a Trieste?) non è centrale, ma è uno degli aspetti. Difatti Romani dice correttamente: “C’è da capire se i vantaggi per Trieste sarebbero tali da giustificare gli impatti negativi, e se questi possano essere ridotti al minimo”.

    Ringraziamo infine Al per la lezione di biologia. Ma il punto non è come il nord Africa sia arrivato in queste condizioni, ma se anche noi corriamo questo rischio, sebbene la causa sia diversa.

    Dire poi che “il problema si risolverà da solo (…) entro 60-100 anni” è nascondere volutamente la testa sotto la sabbia affidandosi al caso.
    È necessaria una consapevolezza di lungo periodo verso il problema delle emissioni e dunque del riscaldamento globale. Essa deve fare a capo ai governi e alle comunità, ma bisogna superare degli ostacoli. Nel primo caso interessi lobbistici e non solo; nel secondo caso la mancanza di informazione e -talvolta- la scarsa volontà di spendersi e sacrificarsi per una causa che non gioverà di certo alla nostra generazione.

  9. Mattia Romani ha detto:

    Grazie a tutti per i commenti – positivi e negativi – di cui faccio tesoro. Due brevi risposte. Luca: non sono uno scienziato, quindi hai ragione a dubitare che possa essere di grande aiuto sul lato scientifico del problema. Ma ho letto un po’: mantenere la concentrazione di gas a effetto serra sotto determinati limiti riduce le probabilita’ di vedere le temperature aumentare. In altre parole, se globalmente ci mettiamo d’accordo per ridurre le emissioni fino a stabilizzarne la concentrazione, abbiamo una buona probabilita’ di limitare l’aumento medio delle temperature e quindi i potenziali danni anche nelle nostre zone. Se riuscissimo, come auspicato a Copenhagen, a limitare l’aumento delle temperature a 2C, anche la probabilita’ di danni nelle zone mediterranee sarebbe minore, con un rischio limitato di vederle trasformate in zone climatiche semi-aride.

    Se ti interessa leggere qualcosa di piu’ preciso a tal proposito, il recente progetto ADAM, della Commissione, ha risposto esattamente alla tua domanda nel modo piu’ esauriente possibile. Trovi la documentazione sul sito: http://www.adamproject.eu/ (in particolare guarda le belle mappe del documento D-A 21°)

    Marco: sono d’accordo con te, non possiamo lasciare al caso eventi potenzialmente molto pericolosi. Non e’ razionale: seguendo un ragionamento prettamente economico meglio comprare un’assicurazione (in questo caso il ‘premio’ dell’assicurazione e’ il costo di ridurre le emissioni) invece di ignorare il problema e sperare che se ne vada da solo. Questo senza tener conto che bruciare tutti i combustibili fossili attualmente disponibili porterebbe ad un aumento delle concentrazioni di gas ad effetto serra di gran lunga superiore a livelli considerati sicuri e quindi a serie conseguenze per l’equilibrio climatico.

    2010/1/4 Mattia Romani

    Grazie a tutti per i commenti – positivi e negativi – di cui faccio tesoro. Due brevi risposte. Luca: non sono uno scienziato, quindi hai ragione a dubitare che possa essere di grande aiuto sul lato scientifico del problema. Ma ho letto un po’: mantenere la concentrazione di gas a effetto serra sotto determinati limiti riduce le probabilita’ di vedere le temperature aumentare. In altre parole, se globalmente ci mettiamo d’accordo per ridurre le emissioni fino a stabilizzare la concentrazione di gas a effetto serra, abbiamo una buona probabilita’ di limitare l’aumento medio delle temperature, e quindi i potenziali danni anche nelle nostre zone. Se riuscissimo, come auspicato a Copenhagen, a limitare l’aumento delle temperature a 2C, anche i danni nelle zone mediterranee sarebbero minori, con un rischio limitato di vedere le zone mediterranee trasformate in zone climatiche semi-aride.

    Se ti interessa leggere qualcosa di piu’ a tal proposito il recente progetto ADAM, della Commissione, ha risposto nel modo piu’ esauriente possibile, esattamente alla tua domanda. Trovi la documentazione sul sito: http://www.adamproject.eu/ (in particolare guarda le belle mappe del documento D-A 21a

    Marco: sono d’accordo con te, non possiamo lasciare al caso del processo di esaurimento dei combustibili fossili degli eventi potenzialmente molto pericolosi. E’ un ragionamento prettamente economico: se possiamo, meglio comprare un’assicurazione invece di ignorare il problema e sperare che non succeda. (Senza tener conto che bruciare tutti i combustibili fossili disponibili al giorno d’oggi porterebbe ad un aumento delle concentrazioni di gas ad effetto serra di gran lunga superiore a livelli considerati sicuri e quindi a conseguenze molto gravi per l’equilibrio climatico).

  10. enrico maria milic ha detto:

    grazie mattia e a tutti per il dibattito

  11. alpino ha detto:

    cocnordo pienamente con Al Custerlina, cioè l’intervista è un po’sopra le righe l’ho letta ma non mi ha lasciato nulla, stiamo parlando di emissioni e c02..e global warming, legare all’economia un fattore che divide la comunità scientifica letteralmente in due mi sembra prematuro innanzitutto perchè i climatologi stanno analizzando le medie climatiche dei vari paesi per definire se cè vero riscaldamento, il NOAA monitora i ghiacci e lo scioglimento è sotto osservazione perchè vi sono dati in controtendenza in merito (rallentamento dello sciogliemento dei ghiacci).
    Ci si basa siu medie climatiche in un lasso di tempo ampio, ad oggi le medie subiscono una frenata per il periodo freddo che viviamo e vivremo su scala europea, con ciò intendo dire: andiamoci piano con la Co2 ed il global warming, in primis perchè la comunità scientifica non l’ha ancora ufficializzato, secondo non si è ancora stabilito se l’aumento registrato dell temperature sia un fattore antropico, ci sono fattori come il ciclo delle macchie solari, l’attività solare per il momento quasi ferma che hanno mess tutti sul chi va là..quindi pian e ben..
    Un’ altra cosa, la tesi della desertificazione è quella più sentita e la più popolare perchè essendo facile tutti la ricordano: più caldo = più secco = più aridità ecc ecc…
    Invece c’è dell’altro: poniamo che il riscaldamento delle acque comporti lo scioglimento di ampie porzioni di ghiacci perenni artici ed antartici, l’acqua dolce modificherebbe il grado di salinità dell’acqua temperata della corrente del Golfo, corrente che mitiga ed influisce il nostro clima,m la sua azione temperata se questa si inabissasse verrebbe inibita, portando paesi come l’Inghilterra, il nord della Francia l’Irlanda raffreddarsi mutando il loro clima temperato, soprattutto in sede nord atlantica…da ciò una reazione a catena…insomma l’ho detto in soldoni perfar capire che forse bisogna addentrarsi un attimino di più nella cosa e non parlare di “desertificazione” e via…

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