Circa un anno fa, Barack Obama, ancora da candidato alla Casa Bianca, aveva scelto Berlino per tenere il discorso principale durante il suo viaggio in Europa, e aveva usato uno slogan forte ed evocativo, “Mai più muri!”, attraverso il quale, toccando la memoria e il cuore dei berlinesi, davanti a migliaia di persone, aveva lanciato un accorato e convinto appello affinché si abbattessero i muri che dividono i
popoli, «quelli fra Paesi ricchi e poveri, fra razze e tribù, fra
cristiani, ebrei e musulmani». Eppure, nella stessa Europa dai confini
mobili non tutti i confini cadono: alcuni si spostano, altri mutano,
altri si trasformano, altri addirittura nascono. Non è fatta solo da
success stories l’epoca dei muri che cadono, ma molti territori, interni all’Europa o a noi vicini, ci raccontano storie di nuovi
confini, a volte materiali e rigidi, a volte immateriali ma forse
ancora più difficili da superare.
Nei racconti, nelle narrazioni delle storie personali, a volte
piccole, intime e familiari, emergono le contraddizioni della storia,
i paradossi della nostra epoca. Fuori e dentro ai confini, cittadini o
stranieri, inclusi o esclusi, a seconda del momento o del posto.
Il paradosso principale di questi venti anni è che i confini invece di diminuire sono aumentati e, come sottolineato anche dal grande sociologo americano Peter Marcuse, i conflitti più incandescenti
riguardano proprio lo spazio, il suo utilizzo e la sua delimitazione.
E proprio le città, alcune città in particolare, stanno diventando i
campi di battaglia, anche simbolica, delle nuove divisioni e delle
nuove appartenenze contrapposte.
L’elemento etnico ha assunto una funzione determinante nei conflitti e
nelle lotte per lo spazio fisico, per l’appartenenza ad una città o ad
un territorio, come ad esempio è avvenuto e sta avvenendo in zone di
crisi anche vicine a noi, a partire dall’area balcanica. Se lo sguardo
all’Europa parte dai Balcani, allora queste storie diventano numerose
e significative, utili sia per capire la direzione verso la quale
stiamo andando sia per valutare se davvero ancora resiste il mito
dell’Europa “unita e senza confini”.
La frammentazione nazionale, la politica delle piccola patrie, la
nazione etnicamente omogenea, stanno spingendo parti dell’Europa,
occidentale e orientale, a deviare da un percorso che la
caratterizzava. Guardando vicino a noi, la questione balcanica è
divenuta simbolo di una società contemporanea che fa fatica a trovare
soluzioni nella gestione della complessità, specchio del sogno a volte
tradito del superamento del mondo dei blocchi della guerra fredda. In
questo senso possiamo, senza correre il rischio di esagerare, parlare
di una nuova epoca di muri.
Così, in Europa, può capitare che da cittadini si passa ad essere
“cancellati”, come un gruppo numeroso di “jugoslavi” in Slovenia, o
“alieni”, come molti russi nelle repubbliche baltiche. O assistiamo ad
una grande crisi politico-istituzionale proprio intorno alla capitale
d’Europa, Bruxelles, per i contrasti tra Valloni e Fiamminghi. O
accettiamo che nell’Europa unita esista una città divisa come Nicosia,
con il muro che divide la parte turca da quella greca sull’isola di
Cipro.
La credenza in un’origine comune diventa perciò un rifugio, una
sicurezza illusoria. In questo modo non esistono più gli “abitanti”, i
“cittadini” di una regione particolare, ma esistono, da sempre e una
volta per tutte i Serbi, i Bosniaci, i Croati, i Kosovari; come anche
i Curdi, o i Palestinesi. Quello che conta è il sangue, l’origine
comune.
E se lo sguardo passa ancora dai Balcani e va alla realtà attuale
della Bosnia Erzegovina ci accorgiamo quanto tutto può essere confine,
le chiese e i luoghi di culto, le bandiere, le memorie, i monumenti, i
cartelli stradali, i percorsi degli autobus.
Anche i ponti possono dividere, ribaltando lo stesso significato
simbolico tra ponti e muri, come avviene ad esempio a Mostar, ma anche a Mitrovica in Kosovo.
I confini sono le scuole, divise fisicamente, per cui è divenuta diffusa la definizione di due scuole sotto lo stesso tetto (two schools under one roof), ma divise anche nei contenuti, dove la narrazione della storia prende forma diversa a seconda dell’appartenenza, che determina vincitori e vinti, vittime e carnefici.
I nuovi muri però non sono una prerogativa balcanica, ma fanno parte della società e del presente del mondo cosiddetto democratico e dell’Europa stessa. Il muro è tornato drammaticamente di moda come figura simbolica perché il concetto in sé indica separazione che
equivale a sicurezza. Passato alla storia quello di Berlino, ad esempio Belfast è ancora tagliata da una ventina di cosiddette “Peace Line”, volute dagli stessi abitanti che così si sentono sicuri, dove
però non mancano tensioni e atti violenti e dove è ancora difficile
individuare percorsi condivisi di costruzione del dialogo.
Non dobbiamo però pensare che sia solo il tema dell’impatto delle
migrazioni sulle nostre città che deve essere trattato, ma sono tutte
le relazioni sociali ad essere in crisi, dove i conflitti sociali e relazionali si vivono fin dentro ai nostri condomini.
Individualizzazione, paura e insicurezza fanno parte di uno stato di malessere del nostro modello di vita, che però trova nello straniero
un generale capro espiatorio.
A questo proposito, qualche anno fa Zygmunt Bauman, citato quasi esclusivamente per le sue riflessioni sulla «società liquida», ha scritto un interessantissimo contributo sulla «fiducia e la paura nella città», soffermandosi sulle difficoltà del vivere quotidianamente con gli stranieri. Città intese come luoghi della paura, quindi. Città diventate una sorta di «discarica» dei problemi causati dalla globalizzazione, che costringono chi riveste responsabilità politiche e amministrative a individuare risposte sempre più locali in un mondo strutturato da processi sempre più globali. In definitiva, secondo Bauman, città come campi di battaglia e al contempo laboratori.
In questo quadro la reazione tipica appare quella della chiusura. Il sociologo spagnolo Manuel Castells sostiene che nelle città globali
esiste in effetti una produzione di senso e di identità, ma che spesso questa significa chiusura. In una simile prospettiva possiamo allora concludere che davvero le città sono diventate dei laboratori, perché
nella quotidianità lo scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington si trasforma in un incontro tra vicini: gente reale, uomini e donne con le quali abbiamo a che fare involontariamente e che prima o poi incontriamo. Lo spirito delle città è alimentato da minuscole interazioni quotidiane ed è nei luoghi che l’esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa e il suo senso viene assimilato, elaborato e negoziato.
Ancora Bauman sostiene che la città induce contemporaneamente alla mixofilia e alla mixofobia. In questo senso gli stessi aspetti della vita urbana possono attrarre persone e respingerne altre, in un inarrestabile processo ambivalente. Dentro e fuori i confini. La varietà promette molte e differenti opportunità. Solo attraverso una “fusione di orizzonti”, secondo la locuzione usata da Hans Gadamer, si può ottenere la comprensione reciproca: orizzonti cognitivi, che vengono tracciati e allargati accumulando esperienze di vita.
È opportuno quindi riflettere su come non rendere gli spazi urbani una sorta di baluardo, di barriera difensiva. Non bisogna
abbandonare lo sforzo di riflettere su come costruire una convivenza e una nuova fiducia civica, senza negare il conflitto esistente ma nel tentativo esplicito di abbattere i muri, fisici e immateriali, costruiti secondo
una logica fondata sulla vigilanza e sulla distanza. Costruire una cittadinanza oltre i nuovi muri è la grande sfida contemporanea negli
spazi della pluralità.
ottimo scritto, da condividere assolutamente.
l’analisi sulle città è quantomai reale. pensiamo a Trieste, in tal senso.
una sola cosa mi lascia un po’ perplesso:
siamo sicuri che sia proprio “l’elemento etnico” a generare paura, scontro, chiusura, nelle nostre città, e non invece l’immagine, la proiezione, lo stereotipo che si è generato, e che ci vogliono inculcare, di esso?
“Il paradosso principale di questi venti anni è che i confini invece di diminuire sono aumentati”
Ho il sopetto che frasi del genere siano il frutto del fatto che le nuove generazioni poco conoscono dei muri che un tempo esistevano.
tendono ad immaginare, i giovani, che tutto si risolveva in quel “folkloristico” kilometrino di muro che attraversava la ridente cittadina di berlino.
i muri che i giovani credono siano muri di oggi (“Serbi, i Bosniaci, i Croati, i Kosovari,come anche i Curdi, i Palestinesi…”) …pensiamo che prima non esistevano ? (prima del muro…)
è una brutta tendenza questa, quella di affermare che caduto un muro (quello vero) ne sono sorti “molti” altri…
i “molti” altri muri già esistevano e ognuno “di qua” e “di la” del muro principale se li “gestiva” (anche nel silenzio delle più truci repressioni)
vogliamo forse dire che quando c’era il MURO tutto il resto funzionava ? tutti andavano d’amore e daccordo ? all’interno dei due rispettivi blocchi era tutto un profumo di violette e incensi ?
E’ evidente che oggi, chi non ha provato il peso di quel muro non lo percepisca per quella che era tutta la sua “odiosità” e immagini che oggi tutto sia “di più”… più muri …più odio…
fioi… l’omo xe sempre el stesso ! vedemo de esser contenti che almeno da 60 anni in europa no se gavemo da legnade (almeno in buonaparte de quella europa che fin al ’45 se ga sempre , regolarmente legnado e masacrado)
salve!!!
interessante la discussione!!! se vi va date un’occhiata anche a questa discussione!!! diventerete parte attiva!!!
grazie in anticipo!!!
http://gorizia.bora.la/2009/11/17/tesi-sul-confine-universitario-due-studenti-dello-iuav-propongono-un-questionario-ai-lettori-di-bora-la/
L’Unione Europea fondata nel 1957 da Germania,Francia,Olanda,Italia,Lussemburgo e Belgio oramai ha perso totalmente la sua funzione originaria ed avendo 52 anni è già abbastanza oltre la metà della sua vita.
Interessante contributo e scritto comunque con cognizione di causa, anche se propendo anch’io dalla parte di effebi.
Condivido in buona parte l’analisi, diciamo che prima di vent’anni fa il muro constava principalmente di due grandi blocchi, ed era guerra fredda, poi ci illudemmo di averla superata e che ci sarebbe stata un’Europa libera, forte, omogenea, ci siamo trovati una serie di piccoli muri, di parcellizzazione, che potremmo chiamare forse anche balcanizzazione, che da un’antica origine balcanica sembra aver raggiunto l’Europa occidentale, con una diffidenza, alimentata indubbiamente da gravi episodi di terrorismo internazionale, nei confronti di chi non è proprio il vicino della porta accanto; lo vediamo anche qua, su Bora.la. Ci andrei più piano con la citazionde dello Scontro di civiltà di Huntington, che lessi all’uscita ed ho riletto pochi mesi fa: a volte mi sembra che lo si citi per il titolo o per qualche sintesi: il libro non è che preconizzi l’homo homini lupus ( Hobbes?), ma analizza i movimenti mondiali e osserva che guarda caso, i conflitti si trovano sempre sulle zone di attrizione, come ci fossero due placche , Islam e non-Islam.
Forse, parafrasando qualcuno, abbiamo fatto l’Europa ma non abbiamo fatto ( anzi, abbiamo disfatto) gli Europei.