4 Agosto 2023

Il segreto di Nicola

el sunto Tredicesimo appuntamento con la rubrica dedicata a dei brevi racconti horror ambientati a Trieste. La rubrica ha cadenza mensile

Nicola Petronio si scostò brusco dal materasso sul quale si era posato. Rimase immobile, in piedi, come inebetito. Le persiane della camera da letto erano socchiuse a tre quarti, perciò una penombra soffusa abbracciava la sua figura e, in quegli attimi, sembrava premere su ogni centimetro del suo corpo teso. Guardava la sagoma che si delineava tra le lenzuola, davanti a sé.

Nessun movimento. Nessun respiro.

Nella penombra il volto di sua madre non si distingueva, era una chiazza tondeggiante e indefinita. Uccellini invisibili cinguettavano allegri nel cortile sottostante l’abitazione. I loro schiamazzi, provenienti dalla finestra aperta, echeggiavano nella camera conferendo al momento un che di surreale.

Nicola aveva trentasei anni e non era per niente pronto a vivere quel momento. Fece un passo in avanti, si protese verso l’altezza della bocca di sua madre, una macchia nera. Vi accostò l’orecchio per percepirne il respiro. Niente.

Allora allungò una mano e tastò con un dito la vena carotidea, nella speranza di sentire pulsarle il cuore. Niente.

Si alzò di nuovo, di scatto, e fece alcuni passi su e giù per la stanza. La realtà della faccenda si stava facendo largo nella sua mente, come un fiume di melma. Per un attimo, temette di svenire. Ma riuscì a mantenere la calma. Inspirò ed espirò a fondo, cercando di ordinare le idee.

Sua madre se n’era appena andata, e a lui ora non restava più molto da fare.

Nadia Ferluga aveva sessantadue anni e il cancro al pancreas l’era stato diagnosticato troppo tardi. In un fil di voce, aveva dichiarato a Nicola di voler trascorrere i suoi ultimi giorni in casa, la sua adorata casa, stando ben lontana da ogni genere di ospedale. Nicola non aveva obiettato. Fin da quei primi giorni, l’era stato accanto, cercando di accudirla in ogni modo mentre Daniele, il fratello maggiore, doveva continuare a lavorare per le economie della famiglia.

In quei momenti, come un’ondata di marea, a Nicola tornò in mente tutto l’ultimo periodo trascorso con quella donna che aveva tanto amato: di quando le preparava da mangiare, di quando l’aiutava a farlo, di quando le leggeva un romanzo del suo mito Wilbur Smith, di quando trascorrevano ore a ricordare le gite in famiglia, quando lui e Daniele erano piccoli, le scorribande nei boschi, le vacanze al mare, il ricordo sempre presente del loro cane meticcio, Otto, che sembrava non aver mai abbandonato quelle pareti; il ricordo di suo padre, marito di Nadia, venuto a mancare cinque anni prima a causa di un infarto fulminante. Valanghe di ricordi che si sommarono l’uno sopra l’altro e, che per un attimo, gli tolsero il respiro.

Uscì dalla camera da letto, percorse il piccolo corridoio fino a raggiungere un mobiletto. Sollevò il cordless e compose il numero del soccorso medico. Non attese molto. Disse alla centralinista che sua madre aveva smesso di respirare, le diede generalità e indirizzo. Quando abbassò il telefono, si sentì cogliere da un intenso vuoto interiore. Respirò a fondo, rimanendo immobile nel corridoio, in attesa dell’arrivo dei soccorsi. Posò il dorso contro la parete, mentre lacrime amare iniziarono a bruciargli gli occhi.

In quel mentre, la porta di ingresso si aprì e apparve Daniele. Indossava una t-shirt verde, pantaloni resistenti e grosse scarpe anti-infortunistiche. Svolgeva il lavoro di giardiniere presso una piccola ditta privata della città. Sembrava esausto, indice che la giornata era stata pesante.

Vedendo il fratello minore in quella posa inusuale, Daniele si affrettò a chiedergli cosa fosse successo. Solo allora, Nicola trovò la forza per parlare, anche se dalle sue labbra uscì una sorta di brontolio roco:

“Mamma… non c’è più.”

Daniele lasciò cadere lo zaino nero che reggeva in spalla e si lanciò nella camera da letto. Nicola poté sentire i suoi passi pesanti sul parquet. Attese, paziente. Dalla stanza non si alzò nessun rumore, nessun grido, nessun pianto. Gli uccellini continuavano a cantare.

Dopo qualche minuto, Daniele riemerse dalla penombra della stanza. Si passò una mano sugli occhi lucidi e gli si fece incontro posandogli una mano sulla spalla.

“Noi… abbiamo fatto il possibile. Possa riposare in pace”, mormorò.

Poi raccolse lo zaino e svanì in salotto.

Nicola rimase in corridoio, abbassò il capo. Sentiva, dentro di sé, che assieme a sua madre si spegneva anche una parte di lui. Si diede dell’idiota. Non si era mai preparato per quel momento, ben sapendo che sarebbe presto arrivato. Ma, in sua discolpa, per quanto ci si possa preparare prima, psicologicamente, spiritualmente, non si è mai abbastanza pronti per affrontare lutti del genere.

Quando arrivarono i soccorsi medici, non poterono fare altro se non dichiarare la donna deceduta. Fu Daniele a spiegare loro il decorso della malattia, di quel maledetto cancro al pancreas, e a sostenere con la propria presenza l’animo ridotto a brandelli di Nicola, mentre vedevano la loro madre venir portata via su una lettiga, coperta da un lenzuolo bianco.

Quella sera stessa, con la casa avvolta da un silenzio assordante, non cenarono nulla, né parlarono l’uno con l’altro. I due fratelli si ritirarono a letto presto, chiudendosi ognuno nella propria camera.

Fu Daniele a occuparsi e a sbrigare tutte le pratiche per il funerale. Nicola sembrava essere caduto in una sorta di stato catatonico. Le mattine seguenti al giorno del decesso, egli si svegliava sempre più tardi, si trascinava in cucina e si preparava a malapena la colazione. Mentre Daniele si gestiva il tempo tra lavoro e preparazione del funerale, Nicola vegetava in casa. I due fratelli si incrociavano solo verso sera, riunendosi al tavolo in salotto per la cena. Nicola aveva smesso di cucinare, parlava poco con suo fratello, si esprimeva più a cenni che a parole; a malapena telefonava ai ristoranti della zona per ordinare da mangiare. Ordinavano una pizza, oppure qualcosa di cinese, una sera mangiarono sushi. E quando Nicola abbassava il telefono, si lasciava cadere sul divano, come se il solo ordinare la cena avesse costituito uno sforzo sovrumano.

La sera prima del funerale, Daniele gli aveva posato una mano sulla spalla, l’aveva guardato negli occhi in modo comprensivo e gli aveva detto:

“Lo so, non sarà facile d’ora in avanti. Ma dobbiamo reagire. Tu, devi reagire. E questo non significa dimenticarci di mamma, di papà o del piccolo Otto, ma devi capire che la tua vita non finisce qui. Tu e io dobbiamo andare avanti, come meglio riusciamo. Intesi?”

In tutta risposta, Nicola si era limitato ad annuire piano.

Fu Daniele a occuparsi anche del trafiletto apparso sul giornale locale in cui si dava la notizia della scomparsa di Nadia e del suo necrologio. Poi pensò a contattare tutte le sue amiche e conoscenti, in modo da darle una degna sepoltura.

Il rito si svolse in presenza di diverse persone, riunite tutte al cimitero cattolico di Sant’Anna. Si trattava del cimitero monumentale di Trieste, inaugurato il primo agosto del 1825. Il cimitero sorgeva su un’area che apparteneva alla famiglia patrizia dei Burlo che, oltre a una casa, possedeva proprio su questo terreno una cappella dedicata a Sant’Anna. Il bellissimo cimitero venne realizzato dall’architetto neoclassico Matteo Persch, che suddivise la necropoli da due grandi viali in quattro riquadri con al centro la famosa cappella neoclassica. Attraversando uno di questi viali non si poteva non meravigliarsi dello splendore delle statue, delle cappelle di antiche famiglie, che fondevano una certa suggestione in chi le guardava e che sembravano rappresentare più inni alla vita che alla morte stessa. Ma Nicola era ben lontano da considerazioni del genere. Tutto il mondo sembrava essere sfocato in una nebulosa. Specie quando la bara contenente sua madre venne depositata con cura nel terreno. Con un gesto quasi automatico, lasciò cadere una rosa rossa nel buco, poi affiancò il fratello tenendo il capo abbassato.

Quella sera non cenarono. Nicola andò a chiudersi in camera sua. Si lasciò crollare sul letto, ancora vestito, e così rimase finché un sonno profondo non lo colse.

Si destò nel cuore della notte. Respirava male. Sentiva il cuore sobbalzargli nel petto. Aveva la gola riarsa e provava dei brividi freddi. Si alzò, arrancò nel vicino bagno. Aprì l’acqua del rubinetto, bevve dei lunghi sorsi, poi vi immerse le mani e se la passò sul volto. Specchiandosi, faticò a riconoscersi: i capelli scompigliati, gli occhi arrossati, gonfi, una carnagione pallida. Sembrava essere divenuto l’ombra di sé stesso. Cercò di tornare a letto, iniziò a respirare piano, ma quel tumulto dell’anima sembrava non lasciarlo. Non chiuse più occhio.

Quando un’alba tenue si insinuò nella sua stanza, sentì trillare la sveglia del fratello nella camera vicina. Di lì a poco sentì dei movimenti, segno ch’egli si stava alzando dal letto. Lo ascoltò ripetere la stessa routine di ogni giorno: prima il bagno, con una lunga pisciata; poi la cucina dove si preparava il caffè, il borbottio insistente della moka, il volume basso della televisione, fissata su un programma locale. Nicola ascoltava, restando immobile a letto. Ascoltò ogni singolo movimento di suo fratello: la TV che veniva spenta, la moka che veniva risciacquata e smontata, gli sbuffi in camera per indossare i pantaloni pesanti, poi quelli più profondi per indossare le grosse scarpe. E infine i suoi passi pesanti lungo il corridoio, la porta di ingresso che si apriva e subito dopo si richiudeva. Il silenzio. Un silenzio denso, carico di ricordi.

Si alzò piano, barcollando nella camera. Si tolse gli abiti scuri che aveva indosso, prese i primi pantaloni su una sedia, una t-shirt bianca e un gilet di tuta. Si recò in cucina, bevve un lungo sorso d’acqua. Non aveva voglia di prepararsi il caffè. Sembrava non avere voglia più di nulla.

Scivolò sul divano in salotto, abbassò il capo, portandosi le mani al volto. Alcuni passerotti iniziarono a cinguettare fuori dalla finestra. Ma lui sembrava non sentirli.

Sentiva piuttosto una sorta di maremoto interiore, lo stesso che l’aveva strappato dal sonno quella notte e che non gli aveva più permesso di rilassarsi. Era un misto tra ansia pulsante e una non meglio identificata paura. In quel momento, cercò di focalizzarla per capirla. Paura del presente? Paura del futuro? Paura della morte? Paura della vita?

E più cercava di metterla a fuoco, di conoscerla, più questa paura si ritraeva, si nascondeva nei recessi più profondi del suo essere. Si alzò, quasi di scatto. Iniziò a camminare avanti e indietro nel salotto, preda del suo pensare, del suo volersi sondare per bene. Non tenne il conto del tempo, perciò a un certo punto, indifferente dell’ora, decise di uscire almeno per prendere una boccata d’aria.

Si era agli inizi della primavera. Il cielo era un tappeto azzurro, privo d’ogni traccia di nuvola. I raggi di un sole vivido si rincorrevano tra i rami degli alberi del Viale XX Settembre. Le rondini svolazzavano tra i tetti, lanciando le loro grida echeggianti. L’aria sembrava leggera, come certi pensieri che si sfilacciano al calar della luce. La città intera sembrava ammantarsi di una quiete quasi ultraterrena. Ma Nicola non se la godeva, non la percepiva neppure. Avanzava lento nel gioco di chiaro scuri del viale, incrociando diversi passanti che nemmeno scorgeva. Camminava senza una meta precisa, tenendo lo sguardo basso, ciondolando le spalle. Nonostante il clima che lo avvolgeva, un’ombra pesante sembrava essere scesa su di lui, dentro di lui. La sentiva prendere forma e ingigantirsi a ogni respiro. Iniziò presto a sudare freddo. Era giunto a circa metà viale, all’altezza del cinema Ambasciatori e la scuola media divisione Julia. Qui si fermò, di colpo, mentre avvertiva il braccio sinistro indurirsi e il cuore accellerare i battiti. Le gambe iniziarono a tremargli. Si trascinò verso un albero, vi si posò sopra. Venne colto da un senso di vertigine. Per un attimo, cielo e palazzi, viale e pedoni sembrarono confondersi in una macchia indefinita. Chiuse gli occhi. Inspirò ed espirò con calma, portandosi una mano al petto. Si trovò a boccheggiare. Si allontanò dall’albero, si chinò alla vicina fontanella, premette il pulsante e cacciò la nuca sotto l’acqua corrente. Poi bevve avidamente. Quando si alzò, con l’acqua che gli scorreva lungo il collo, si sentì un pò meglio. Decise di tornarsene subito a casa.

Chiuse la porta, andò in camera sua e crollò sul letto. Scivolò subito in un dormiveglia confuso, in cui i raggi del sole si confondevano con la stanza, e in quei raggi di sole rivide, per un attimo, il volto di sua madre, com’era negli ultimi istanti di vita, il volto sciupato, gli occhi stretti a fessura, la pelle che sembrava carta vetrata, e quel volto si trasformò presto in una macchia scura e indefinita. Alzò il busto di soprassalto, trasse un respiro profondo. Stava impazzendo. Questa consapevolezza lo folgorò come una potente scarica elettrica. Doveva fare qualcosa. Doveva trovare un modo per uscire da quella sua condizione, da tutte quelle sensazioni che lo stavano trascinando nell’oblio.

E, in quel momento, comprese di avere un’unica via d’uscita.

Meditò per bene cosa avrebbe fatto, come si sarebbe espresso. E solo allora trasse un altro respiro profondo e riuscì a calmarsi un poco. Attese il calare della sera. Lo attese restandosene disteso a letto, con indosso la giacca e i pantaloni grigi. Per comodità si era levato le scarpe, che ora giacevano ai piedi del letto. Nella sua mente non aleggiava più un solo pensiero. Si ritrovò a contare i minuti, a scandire lo scendere del sole con lo sguardo. Finché non sentì la porta di ingresso aprirsi e i passi pesanti di Daniele nel corridoio.

Solo allora si alzò piano dal letto. Aprì la porta della camera e chiamò suo fratello.

Questi si girò sulla soglia del salotto, lo sguardo interrogativo.

“Devo parlarti”, mormorò Nicola.

Daniele lo anticipò in salotto, fece scivolare lo zaino dalla spalla, accostandolo al tavolo. Si sedette. Nicola prese posto davanti a lui, in modo che potessero guardarsi negli occhi.

“Ti devo confessare una cosa.”

“Ti ascolto.”

“Si tratta di mamma. Vedi? A volte, le cose non sono come sembrano.”

“Cosa intendi dirmi?”

Nicola trasse un respiro profondo. Cercò di mantenersi calmo.

“Sono stato io, Daniele. Insomma, lei non si è spenta da sola. Le avevo appena portato da bere, un semplice bicchiere d’acqua, e lei ha esalato un lamento che mi è arrivato dritto al cuore. Sapevo che aveva, ormai, i giorni contati, forse persino qualche ora. E quel lamento, quel suono lacerante, mi ha straziato l’anima. Così ho posato il bicchiere, ho preso un cuscino e glielo posato sul volto. Non ho dovuto premere molto. Lei non ha opposto resistenza. Forse perché era già debole, o forse perché anche lei non vedeva l’ora di porre fine alle sue sofferenze. Solo qualche secondo, ma è stato sufficiente. Allora ho ritratto il cuscino, l’ho posato lì accanto e sono rimasto a guardarla. Non ce la facevo più Daniele, non sopportavo più tutta quella sua sofferenza.”

Gli occhi gli si inumidirono, le labbra vennero percorse da un tremito. Daniele lo ascoltava, lo sguardo perplesso, gli occhi che trasmettevano una profonda sorpresa.

“E la cosa peggiore, è che non riuscivo a dirtelo. Non so perché, forse per paura. Paura sì, della tua reazione. Paura di una tua possibile denuncia, non so, alle autorità. Solo che questo mio segreto mi stava logorando, Daniele. E già ora, mentre ti racconto questo, mi sento già più leggero; come se un peso enorme si stesse alzando dal mio spirito. Ora, tu sai la verità. Vedi tu cosa pensi di fare, adesso.”

Daniele sembrava paralizzato. Riuscì a malapena a sbattere le palpebre. Nicola abbassò il capo, in attesa della sua reazione.

“Va bene Nicola, va bene”, mormorò Daniele, dopo un tempo che sembrò eterno: “Ti capisco. Sai? Anche io non sopportavo più di vederla soffrire a quel modo. Mi chiedi cosa penso di fare adesso. E la risposta che ti dico è niente. Non penso di fare niente, Nicola. Come già ti dissi, noi abbiamo fatto tutto il possibile. E questo, Nicola, resterà il nostro segreto.”

Allora Nicola alzò lo sguardo sul fratello. Daniele lo guardava in modo deciso. Nicola si alzò dalla sedia, aggirò il tavolo e gli si piantò davanti.

“Potrai mai perdonarmi per questo?”

Daniele allargò un braccio, invitandolo a unirsi a lui. Nicola accolse l’invito. Si premette contro il corpo robusto di Daniele, affondò il volto nell’incavo del suo collo. E scoppiò a piangere.

Un pianto lungo, liberatorio, alternato a profondi singhiozzi. Con quel pianto, represso per troppo tempo, Nicola sembrò depurarsi l’anima stessa. Avvinghiato a suo fratello, pianse come mai aveva fatto prima. E Daniele lo tenne stretto a sé, assorbendo tutta la sua sofferenza.

I fratelli Petronio restarono in quella posizione per svariati minuti, finché Nicola terminò tutte le sue lacrime e la sera scivolò sulla città, sul mondo intero, soffocando gli ultimi raggi del sole.

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1 commenti a Il segreto di Nicola

  1. Novella ha detto:

    Congratulazioni! Scritto benissimo! Sembra di vedere i due fratelli, la loro casa, le strade della nostra Trieste! E sembra di toccare, con due dita, i sentimenti descritti…… Bellissimo!

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