4 Novembre 2022

Il sentiero: orrore in Val Rosandra

el sunto Quarto appuntamento con la rubrica dedicata a dei brevi racconti horror ambientati a Trieste. La rubrica ha cadenza mensile

In tutto il Carso esiste una sola valle, in fondo alla quale scorre un fiume. Questo fiume si chiama Rosandra. Tra tutti i luoghi vicini a Trieste, questo era di gran lunga il mio favorito. Trascorrevo le ore, a bordo fiume, godendo della serenità di quel posto, stendendo poesie su di un taccuino.
Dico era, perché, dopo quanto accadutomi un giorno, il solo pensiero di ritornare nella mia amata valle, mi crea un brivido gelido nelle ossa, che mi paralizza persino la mente.
Si era a metà giugno. Il sole filtrava tra gli arbusti lungo il letto del torrente, creando un gioco di luci e ombre soffuse nel sottobosco. Il gorgoglio continuo del Rosandra allietava il mio spirito. Mi guardavo intorno in cerca dell’ispirazione per stendere nuovi versi, godendo del paesaggio che mi si poneva davanti: pareti di roccia che giungevano fino alla verticalità, le creste dentate, i pinnacoli arditi, i ghiaioni ripidi e in continuo scivolamento. Gli orli dei versanti che mi sovrastavano per centinaia di metri sembravano creste aguzze di catene montuose. La valle, dall’alto, doveva apparire come una profonda ferita inferta dalle acque all’altopiano, un grosso intaglio, paragonabile a un canyon.
Fu quando le tenebre iniziarono a infittirsi, che decisi di tornarmene a casa, imboccando uno stretto sentiero tra le rocce. Non lo avevo mai preso prima, ma di certo, come tutti i sentieri, mi avrebbe ricondotto al rifugio Premuda e al mio veicolo lì parcheggiato.
Ricordo di aver compiuto pochi passi, quando mi fermai di colpo.
Avevo avvertito qualcosa. Qualcosa di indefinito, di impalpabile, come se qualcuno mi stesse osservando. Sembrava inspiegabile, dato che non vedevo anima viva, lì intorno. Eppure, quella strana sensazione non solo non mi abbandonava, ma diveniva via via più forte, fino a trasformare il sospetto in certezza.
Mi voltai di scatto. Dietro di me, il sentiero era deserto. E il sottobosco? Scrutai fra gli alberi, col cuore sulla punta della lingua, nel segreto timore di individuare la traccia di qualche misteriosa presenza. Eppure non si muoveva una foglia.
Poi qualcosa mi travolse sulla destra, prendendomi alla sprovvista. Fu un colpo così violento da impedirmi quasi di respirare. Sopraffatto dal dolore, mi ritrovai supino, frastornato per il traumatico impatto con la terra.
L’aggressore troneggiava su di me. Stordito, non mi riuscii di capire la sua natura, né le fattezze del suo volto, celato dal cappuccio di una pesante tuta nera.
Ricordo di aver provato a colpirlo con una ginocchiata, ma questi la schivò con agilità sorprendente.
E mi fu di nuovo addosso. Doveva essere dotato di molta forza, quasi disumana, perché mi inchiodò al suolo. La sua fetida bocca mi sfiorava la giugulare. Stava… stava cercando di mordermi!
Raccolsi a me le poche energie che avevo, gli assestai una ginocchiata sul fianco. Ma questi non si scompose. Con la coda dell’occhio, notai una grossa pietra. La raccolsi e, con un lamento, gliela sbattei sulla tempia con quanta forza avevo. Allora, l’aggressore emise una sorta di ringhio gutturale e crollò di lato.
Doveva aver perduto i sensi, perché smise di muoversi. Ora, era una sagoma scura distesa lungo il sentiero.
Col cuore in tumulto, venni colto da una strana curiosità. Volevo, a questo punto, svelare la sua identità. Non l’avessi mai fatto…
Ricordo di essermi abbassato su di lui e, con mano tremante, abbassai il cappuccio che copriva il suo volto.
Fu allora che l’orrore mi paralizzò.
Era un uomo, o meglio, aveva sembianze vagamente umane. Un tempo doveva essere stato uomo, tanto, tanto tempo prima. Ora era ridotto a uno scheletro ambulante, sottile come un filo d’erba, quasi trasparente. Sulla testa, poco più che un cranio, si intravedevano ciuffi di capelli scuri, arruffati, senza vita. I suoi occhi, iniettati di sangue, brillavano di luce sinistra. La pelle era solcata da rughe profonde e pallida, terribilmente pallida. Come quella di un morto.
Ma la cosa più terrificante era la bocca.
Aveva labbra sottili, violacee, contratte in un ghigno malefico e raccapricciante, che lasciava intravedere una fila di denti gialli, luridi, marci. I canini erano di una straordinaria lunghezza, simili a zanne sottili, a lame acuminate, con qualche piccolo foro alle estremità.
Fui colto da un orrore senza fine.
Ricordo di aver lanciato un grido, che echeggiò lungo le pareti della valle. Poi, una scarica di adrenalina mi fluì nelle vene. Iniziai a correre lungo il sentiero, diretto verso il rifugio, senza guardarmi indietro.
Non credo di aver inferto, a quella cosa, un colpo mortale. Anzi, penso che si sia ripresa di lì a poco, e abbia continuato a vagare nella valle alla ricerca di qualche altra preda.
Per questo, il solo pensiero di tornare in Val Rosandra mi inquieta e terrorizza.
E prego, prego tanto, che nessun altro, mai, incroci la strada di quella cosa senza nome e senza tempo.

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