8 Ottobre 2022

La fossa – Un mostro a Trieste

el sunto Terzo appuntamento con la rubrica dedicata a dei brevi racconti horror ambientati a Trieste. La rubrica ha cadenza mensile

L’allarme della banca squarciava il silenzio della notte; sembrava il grido acuto di un mostro ferito a morte.
Due pattuglie della polizia, dalle sirene urlanti, conversero davanti al portone d’ingresso. Gli agenti si lanciarono fuori dai veicoli, pistole in mano. Entrarono nella banca con cautela, mirando alla cieca davanti a loro. L’ingresso era stato forzato dall’esterno, ma nel piccolo atrio non trovarono anima viva.
La banca era sita in una zona remota della periferia di Trieste. Una rete metallica la separava da un intricato boschetto di piccoli alberi dai tronchi contorti. Nel buio della notte, era impossibile intravedere il buco circolare e seghettato.
Il sentiero, stretto, divorato dall’erba alta, si snodava tra i tronchi e sembrava condurre nel nulla.
Beatrice correva. La torcia elettrica sobbalzava nella sua mano destra, rischiarando a tratti parti della stradina che le si dipanava davanti. Nella mano sinistra reggeva un sacchetto di juta, rigonfio.
Aveva udito, poco prima, le sirene delle volanti della polizia, e, mentre correva nella boscaglia, pregò che gli agenti non si accorgessero del buco nella rete, che non si lanciassero al suo inseguimento. Dalla parte opposta alla boscaglia, si trovava infatti la sua vettura, parcheggiata in uno spiazzo sterrato, lontano da occhi indiscreti. Aveva preparato il colpo con cura. E ora, mentre era lanciata in una corsa sfrenata, aveva la netta sensazione di avercela fatta, di essere ormai a un passo dalla vittoria.
Nella foga del momento, cieca dall’eccitazione, la ragazza non riuscì a vedere una buca che si spalancava poco più avanti; era un’apertura circolare, grossa quanto il corpo di un uomo; tempo fa, doveva essere stata coperta da un tombino, che ora giaceva divelto in un intrico di cespugli.
Nemmeno i raggi concitati della torcia la illuminarono.
Di colpo, il terreno erboso venne a mancarle da sotto le scarpe. Scalciò nel vuoto. Riuscì a emettere solo uno stridio, un gemito, e si trovò avvolta dalla tenebra. Ebbe la spiacevole sensazione di sentirsi cadere da una certa altezza. Gambe, fianchi, schiena, pancia e braccia cozzarono sulle pareti di cemento, procurandole fitte di dolore intenso nel corpo.
Piombò, dopo pochi secondi, in una pozza d’acqua mefitica. S’immerse in profondità. Scalciò, agitò le braccia, cercando di non perdere la presa sulla torcia. Nuotò verso la superficie. Sbracciò, mentre strani residui verdastri le scorrevano davanti agli occhi. Emerse prendendo una capiente boccata d’aria, lanciò un grido di rabbia e frustrazione. Nell’impatto con l’acqua, aveva perduto il sacchetto. Prese un respiro profondo, cacciò la testa sotto il pelo della pozza. Con la torcia provò a illuminare il fondo, ma non si vedeva nulla, solo crosticine verdi e marroni che scorrevano in tutte le direzioni. Si ritrasse disgustata, colpì l’acqua con un pugno, bestemmiò.
Puntò la torcia lungo le pareti di cemento, nella speranza di trovarvi una scala. Ma queste risultarono lisce, inscalabili e trasudanti umidità. Lanciò un timido grido di aiuto, ben sapendo che in quella zona di periferia, in quella boscaglia ben poco frequentata e a quell’ora della notte, nessuno sarebbe riuscito a sentirla e a chiamare soccorsi. Decise di risparmiare il fiato. Per fortuna, non aveva riportato traumi alle gambe o alle braccia. Nonostante la caduta, si sentiva ancora in forze. Roteò la torcia in giro, scovando, alla sua destra, una sporgenza in cemento, simile a una piccola piattaforma. Sguazzò nell’acqua melmosa e, con una serie di bracciate, le si fece incontro. Vi posò sopra la torcia, si aggrappò al bordo e, scalciando, riuscì a sollevarsi fuori dalla pozza. Rotolò sul fianco, tossì. Un rivolo d’acqua putrida le guizzò fuori dalle labbra, la sputò.
La piattaforma era lunga poco più di due metri e larga un metro e mezzo. Non capì a cosa potesse servire, ma ringraziò chiunque l’avesse costruita.
Si guardò attorno, indecisa sul da farsi. Un silenzio tombale sembrava inghiottire il mondo, spezzato solo a tratti dal suo respiro. Dopo qualche minuto, udì uno sciabordio flebile alzarsi dalla pozza. Girò il volto, puntò la torcia in quella direzione. E si sentì venire meno.
Vide una sagoma scura fendere l’acqua, a circa quattro metri dalla sua posizione. Nel cono elettrico della torcia, poté distinguere una grossa coda a punta; un corpo solido, nero, con scaglie cornee e placche ossee; due piccoli occhi scuri, come biglie di una bambola malvagia, e un muso largo e corto. L’animale aveva una lunghezza compresa tra i tre e i quattro metri.
Si avvicinò alla piattaforma, fluttuando nell’acqua. Girò la testa robusta, fissando la ragazza irrigiditasi dal terrore, e dischiuse le fauci in un ghigno tremendo, rivelando zanne di varie dimensioni.
Beatrice riconobbe subito l’animale. E altrettanto subito si chiese cosa mai ci facesse lì. Non era una specie autoctona, non s’era mai visto nulla del genere in una città come Trieste. Ma i suoi occhi la fecero ricredere. Quel mostro era effettivamente lì, davanti a lei, e di certo stava già pregustando la sua carne.
Dopo un attimo di puro smarrimento, misto di sorpresa e terrore, cercò di reagire. Agitò la torcia puntandola dritta negli occhi del rettile, gli gridò in muso con fare aggressivo.
L’animale scosse la testa, come disturbato, e si tuffò nella pozza, svanendo alla sua vista.
La ragazza imprecò. Si mise a sedere sul cemento: la schiena schiacciata alla parete, quanto più lontano possibile dallo specchio d’acqua.
Fece vagare il raggio della torcia tutto intorno a sé. E, proprio dall’altra parte della pozza, vide un condotto fognario, abbastanza largo da permettere il passaggio di un uomo a carponi.
Doveva assolutamente cercare di raggiungerlo. Magari, quel condotto l’avrebbe riportata all’esterno, da qualche parte. Ma tra lei e quella possibile via di salvezza, c’era l’acqua stagnante e quel mostro che vi sguazzava dentro.
Fece un respiro profondo. Era impossibile batterlo in velocità. Allora le venne un’idea. Si frugò nella tasca del giubbino. E trovò ciò che stava cercando. Era un piccolo coltello a serramanico, che soleva portarsi appresso in caso di estrema necessità. Ringraziò sé stessa per averlo preso anche quella notte. Con l’arma in una mano e la torcia nell’altra, si avvicinò piano all’acqua. Ne illuminò la superficie: calma, immota.
Chiuse una mano a pugno, la batté con forza sollevando schizzi melmosi. Poi la ritrasse. Non dovette attendere molto. Aveva appena ritratto la mano, quando l’acqua le esplose davanti agli occhi e quel muso piatto e largo emerse con le fauci aperte. Sembrava un drago medioevale.
Allungò la mano armata, ma la lama incontrò la parte superiore del collo e rimbalzò indietro dalla corazza spessa. L’animale piegò la testa, chiuse le fauci di scatto, sfiorando la sua mano.
Beatrice emise un grido di spavento. Si ritrasse, in piedi, appiattendosi contro la parete.
Il rettile iniziò a nuotare avanti e indietro, come se stesse cercando un modo per salire sulla piattaforma.
Appena le passò a tiro, la ragazza gli sferrò un calcio sul dorso. La scarpa slittò sulle placche ossee e per poco non perse l’equilibrio. Sobbalzò sull’altra gamba, stringendo i denti dalla tensione. L’animale si ritrasse. Per un attimo, svanì dalla sua vista.
Beatrice lo cercò con lo sguardo. Ma non lo vide più. Trascorse qualche minuto di silenzio abissale. Poi uno sciabordio si alzò dalle tenebre, davanti a lei. Puntò la torcia.
La superficie dell’acqua, nel punto più lontano, era spezzata in due dal corpo del rettile. Questo si stava avvicinando con foga crescente: era lanciato in una sorta di rincorsa.
La ragazza lo guardò sgomenta dal terrore. In quel breve momento, capì di non avere scelta. Uno scontro frontale era inevitabile.
Si piegò in due, posando la torcia sul pavimento. Allungò la mano armata. L’animale si immerse per qualche secondo, svanendo tra i flutti.
Beatrice rimase in attesa. I muscoli delle gambe le dolevano, ma sapeva di dover essere pronta all’attacco.
Una colonna d’acqua si alzò davanti a lei. Tra gli spruzzi, vide il muso del rettile: le fauci spalancate, farsi sempre più grandi.
Balzò di lato, evitando l’impatto. Poi si gettò sul suo corpo coriaceo e scivoloso. Lo abbracciò, trovandosi sul suo dorso.
L’animale scosse la testa, nel tentativo di scrollarsela di dosso. Beatrice non mollò la presa.
Sollevò la mano col coltello, fece uno scatto in avanti. La lama incontrò l’occhio del rettile, penetrò in profondità.
Un basso ringhio gutturale scaturì dalla sua grossa gola.
Beatrice, gridando di rabbia, rigirò la lama.
Il corpo dell’animale vibrò sotto di lei; fu come attraversato da una scarica elettrica.
Estrasse la lama, prese una boccata d’aria. Si staccò da esso, lo spinse via con un calcio. Si trovò quasi al centro della pozza d’acqua. Allora si girò. Rapida, con bracciate decise, si avviò in direzione del condotto fognario. Doveva essere lì, davanti a lei, da qualche parte nel buio.
Alle sue spalle, sentiva i gorgoglii di dolore dell’animale; frustava l’acqua con la coda, si girava e rigirava su sé stesso; sembrava impazzito.
Beatrice cozzò contro la parete di fondo. Allungò le braccia, tastando la parete liscia e di cemento. Poi, le sue mani trovarono il vuoto. Allora afferrò il bordo del condotto e, gridando dallo sforzo, si issò fuori dall’acqua. Scivolò su un rivolo di melma. Cadde. Ma aveva raggiunto il condotto fognario. Era al sicuro, almeno finché manteneva una certa distanza dal predatore.
Si girò a guardarlo.
Era sparito. L’acqua, nel punto in cui si trovava poco fa, spumeggiava. Doveva essersi immerso di nuovo.
Beatrice si ritirò lungo il condotto fognario. Avanzava a carponi, mani e ginocchia immerse nella melma e in liquami maleodoranti. Non vi prestò attenzione. Tutta la sua concentrazione era fissata sull’andarsene da lì il prima possibile.
Dopo diversi metri, il condotto si ampliava. Lei poté seguire quel tratto alzandosi in piedi, ma restando piegata in due. Arrancò svelta, finché non vide dei pioli di ferro arrugginito sbucare dalla parete. Emise un gridolino di gioia.
Afferrò il primo piolo, testandone la resistenza. Questo non cedette. Lo afferrò con entrambe le mani e iniziò ad arrampicarsi. Un getto di adrenalina le guizzò nel sangue, diffondendosi ai muscoli. Salì e salì, svelta, con quel ringhio gutturale ancora fisso nelle orecchie.
Quando impattò con la testa contro la dura superficie di un tombino, si fermò. Reggendosi con le gambe, si allungò in avanti, lo spinse prima verso l’alto, poi di lato. Il tombino cedette. Un getto d’aria fresca le colpì il volto.
Beatrice si issò oltre il buco, rimise il tombino al suo posto e crollò esausta tra l’erba.
Oltre le fronde della boscaglia, vide le stelle scintillare nella volta notturna. Le contemplò per qualche secondo, mentre si riempiva i polmoni d’aria.
Solo allora, lacrime di gioia le salirono agli occhi e non riuscì a tenerle a freno. Le lasciò scorrere sul volto. Era viva.
E sentire le proprie lacrime scorrere sulla pelle, era una cosa bellissima.
Di colpo, Beatrice si sentì un tutt’uno con l’erba, con quegli alberi che la circondavano, con quell’aria fresca che le alitava sul volto; provò un senso di pace ultraterrena.
E in quel momento di estasi, di totale abbandono, formulò l’idea di non commettere più né furti né tentate rapine. Era come se la vita le avesse concesso una seconda possibilità. E lei decise di coglierla al volo, senza alcuna traccia di ripensamento.

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