14 Aprile 2012

I triestini e il co-housing a confronto: pro e contro

Co housing è un neologismo ma la formula, con le stesse premesse teoriche, è già stata sperimentata in passato. Vero è anche che, al giorno d’oggi, le declinazioni pratiche sono diverse. Si è tenuto ieri pomeriggio, al Circolo della stampa, l’incontro “Co-housing: un buon abitare per giovani e meno giovani?”, 3° appuntamento della rassegna “Ts7+”, che ha visto l’intervento di Elena Marchigiani, assessore comunale alle Politiche della casa e Raul Pantaleo, architetto di Tamassociati.

Il co-housing contemporaneo vuole essere un vivere sociale, spesso parte da una spinta molto forte, da un bisogno di creare comunità che nasce dal basso.  Certo è che questo tipo di soluzione abitativa non è da tutti: <A  muoversi è la parte attiva della società –  ha spiegato Pantaleo – è il tipo di mondo che negli anni ’90 ha prodotto il terzo settore in Italia>. Questo spiega il motivo per cui in tutto il Paese le vere inziative di co-housing “moderno” si contino sulle dita di una mano. Anche se, ha commentato il membro di Tamassociati <Esperienze del genere esistevano già negli anni ’70, ora gli si è messo solo il marchio. Resta il fatto che attualmente sia un modello da espandere. E, per poter esportare il modello, occorre che la contrapposizione forte tra privato per il profitto e pubblico per il bene pubblico venga meno>.

Da sradicare, tanto per l’assessore quanto per l’architetto, è la convinzione che il co housing sia una soluzione “pret a porter”: il creare spazi comuni abbatte i costi per quanto riguarda i servizi che si vuole condividere ma i prezzi di realizzazione del progetto possono anche essere quelli di mercato. E qui è necessario fare un importante distinguo. <Quando sono i gruppi di cittadini con delle possibilità economiche a costruire il proprio micromondo, dando spazio anche alle pulsioni ecologiche, si può realizzare anche con minimi incentivi da parte dell’amministrazione, perchè si parte dal desiderio proprio del privato. – ha aggiunto Marchigiani – Mentre, in un caso di abitare sociale, si può avere le facilitazioni a diversi livell. In qesto caso, però, l’amministrazione deve chiedere un “apertura dei cancelli”. Non ci serve una logica di esclusione>.

Il dibattito è stato anche occasione per dare voce al “sottobosco” delle iniziative sociali triestine in questo campo. Se, infatti, si è identificato il co-housing come “buon vivere” per chi una certa disponibilità economica, sul territorio esistono altre realtà sociali che cercano di superare queste difficoltà. Come, ad esempio, l’associazione Rime, che offre delle soluzioni particolari di locazione per i ragazzi in disagio economico. O ancora, le Mag, ovvero le cooperative finanziarie che non puntano al vivere alto, ma al vivere comune e che offrono a livello locale, alle imprese (e alle cooperative) che seguono criteri etici, un finanziamento diverso rispetto a quello bancario.
Queste iniziative, però, tanto a Trieste quanto nel resto d’Italia, rischiano di avere vita breve, perchè spesso l’entusiasmo iniziale trova un ostacolo insormontabile nell’elemento economico e quello che emerge è la necessità di un maggiore coinvolgimento dell’amministrazione  in queste problematiche.

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3 commenti a I triestini e il co-housing a confronto: pro e contro

  1. Monica Campana ha detto:

    Questo è l’abitare adatto a famiglie come la mia: sono separata con due bambini e la più piccola è una bambina con la sindrome di Down, una realtà dove potrei avere gli aiuti oggi ma potrei lavorare per la sua autonomia un domani, certamente aiutando altre persone, potrebbe essere la soluzione sociale del futuro un ritorno al vicinato, all’autoaiuto alla cooperazione, non è possibile che il famoso 3° settore non ci abbia ancora fatto un pensierino, io oggi semino che dite c’è possibilità di raccogliere, buon lavoro

  2. Fiora ha detto:

    “spesso l’entusiasmo iniziale trova un ostacolo insormontabile nell’elemento economico..” e non soltanto in quello.
    Siamo individualisti, poco inclini alla vita comunitaria e al rispetto delle regole che presuppongano il prosieguo di esperienze di comunità, pertanto transitorie. La società è “solitaria” e si va secondo me verso un’ulteriore chiusura con i rapporti virtuali che danno una buona mano a questo processo d’isolamento…
    L’esigenza di recuperare rapporti di vicinato connotati dalla solidarietà e dall’autoaiuto è paradossalmente avvertita e questo modello auspicato…salvo poi rimanere teorico.
    E lo dico con amarezza,non priva di speranza in una realizzazione quantomeno parziale.

  3. Denis Furlan ha detto:

    Spesso con il termine cohousing spesso si celano operazioni immobiliari che di comune hanno solo il giardino condominiale, con appartamenti da 3.000 €/mq.

    Se così anche Melara è un esempio di cohousing (o cockhousing)

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