5 Marzo 2015

“Dancing with Maria? Un regalo per mia moglie”

el sunto Appassionato lettore di Bora.la, il regista Ivan Gergolet racconta ciò che non è ancora stato detto sul suo film d'esordio, Dancing with Maria.

Da una parte l’amore di un uomo per il cinema, dall’altra quello di una donna per la danza. L’amore fra i due ha fatto il resto. Romanticismi a parte, è partito tutto da qui.

Senza questi presupposti non sarebbe mai nato “Dancing with Maria”, il documentario del regista goriziano Ivan Gergolet, nelle sale italiane dal 27 febbraio. Né avrebbe decretato il successo dello scorso settembre a Venezia, quando – per la prima volta in 29 edizioni – la Settimana internazionale della Critica ha selezionato un documentario al posto di un film. «Il mondo mio e di mia moglie (Martina Serban) si sono uniti in questo lavoro», annuisce il regista, neri capelli ricci raccolti in una coda. «Sapevo che era appassionata di danza, ma soltanto attraverso questa esperienza ho scoperto cosa fa realmente».

Per amore e per caso
Finiti gli studi di Psicologia, lei frequenta a Milano una scuola di danza basata sul metodo di Maria Fux, ballerina argentina ormai 93enne, diventata una “guru” internazionale della danzaterapia. «Mia moglie mi chiese di accompagnarla a Buenos Aires, dove avrebbe potuto seguire un suo seminario. Io Maria Fux sapevo a malapena chi fosse. Martina mi chiese di portare la telecamera, così avrebbe potuto trovare un pretesto per passare un’ora con lei, portandosi a casa un ricordo del viaggio. Per farci concedere l’intervista, le dicemmo che era per la Rai, ovviamente non era vero… (Sorride). A quel tempo, siamo nel 2010, l’idea del film non mi era nemmeno balenata: una volta tornati a casa, fu il produttore Igor Princic (Transmedia, Italia) a dirmi che c’erano i presupposti per un documentario, e fu sempre lui a rispedirmi subito dopo in Argentina».

Dall’idea al docufilm
Quattro anni di lavoro, su e giù Trieste – Buenos Aires, zaino in spalla e attrezzatura leggera. Gergolet racconta: «All’inizio fu un investimento soltanto nostro, della mia famiglia e di Princic. Avevamo di fronte un’artista di 88 anni, i tempi per ottenere finanziamenti sono lunghi, e non ce la sentivamo di aspettare. Facevo due viaggi all’anno, il più lungo di quattro mesi. Ero entusiasta, ma sentivo il peso della responsabilità e pure quello della solitudine».

«Dall’altra parte del mondo dovevo iniziare da zero. Convincere Maria Fux a mettersi a disposizione del film (non ci sono mai riuscito, lei sa essere anche molto sfuggente), e poi dovevo costruire una rete di relazioni professionali.

Incontrai il regista David Rubio, che poi divenne il secondo co-produttore (solo successivamente si aggiungono la terza produzione, slovena, e il sostegno del Fondo audiovisivo Fvg, nda).  A Buenos Aires Rubio stava girando un film ambientato in un carcere di massima sicurezza e aveva bisogno di qualcuno che facesse le riprese, così io ho cominciato a girare per lui e lui per me.

Era strano: passavamo da un ambiente iper maschile (il carcere) a uno iper femminile (lo studio di Maria). Mentre lui girava, io scrivevo la sceneggiatura e facevo ricerche sulla vita di Maria Fux».

La svolta
Poco a poco, il lavoro di Gergolet si fa importante, parallelamente alla crescita delle aspettative nella cerchia, sempre più ampia, di figure professionali via via coinvolte.

Ma la svolta arriva a maggio 2014. Il docufilm c’è, mancano solo gli ultimi ritocchi. Gergolet lo guarda con i suoi al Kinemax di Gorizia: «Per la prima volta  dissi: “Vada come vada, questo è il film che volevo per questa storia”. Una sensazione che non avevo mai provato prima».

Il premio
Il regista sceglie di raccontare solo marginalmente la storia di sua moglie. Probabilmente deriva anche da qui l’assegnazione, alla Mostra di Venezia, del premio “Civitas Vitae – Rendere la longevità risorsa di coesione sociale. Benché sua moglie sia una delle voci narranti, il regista accenna soltanto ai motivi che la spingono a cercare se stessa nella danzaterapia. Nell’occhio della cinepresa, vi sono le storie di Maria Fux e di altre sue allieve.

Maria Fux
Copia_di_Maria_blu_2 (1)Figlia di ebrei russi scampati ai Pogrom antisemiti all’inizio del Novecento, dall‘Argentina la giovane Maria Fux conquista la celebrità rompendo i canoni della danza classica: nella sua concezione, per poter danzare basta saper ascoltare il ritmo interiore che è in ognuno di noi.

Separatasi dal marito con un figlio di 10 anni, deve guadagnarsi da vivere con l’unico mestiere che ha in mano: la danza.

Anche per riscattare l’handicap della madre («Mia madre era zoppa; io sono la gamba di mia madre che balla»), Maria Fux fonda lo studio di Buenos Aires. La sua missione è far danzare tutti coloro che ne hanno la volontà, indipendentemente dalla loro estrazione sociale e, di più, dalle loro condizioni fisiche.

Sordi, ciechi, invalidi: da Fux tutti possono danzare e ricevere gli effetti benefici che questa attività comporta.

Dalla vita di Maria alle storie vere delle sue allieve
Oltre a testimoniare (con spezzoni di filmati d’epoca) la vita di Maria Fux, Gergolet recupera, fra le altre, la storia della sordomuta Maria Garrido: aveva quattro anni quando, negli anni Settanta, venne trovata in una grotta, ridotta a uno stato selvaggio, incapace di comunicare col mondo. Pur non potendo sentire la musica, l’incontro con la danzaterapia di Fux le permette di entrare in relazione con gli altri. Secondo Maria Fux, d’altronde, la danza altro non è che «l’incontro di un essere con gli altri».

Musica e colore Solo quando è la sordomuta Maria Garrido a danzare, per un attimo la musica si spegne. La colonna sonora è invece stata composta da Luca Ciut, non a montaggio ultimato ma in fase di lavorazione. Gergolet definisce il suo rapporto con il compositore  «una partita di ping-pong». Il fine? «Creare musiche coerenti con quelle sulle quali le allieve avevano danzato durante le riprese».

Per quanto riguarda il colore, il regista sceglie che a dominare sulla scena sia sempre quello del vestito di volta in volta indossato da Fux.

Flash mob di lancio
Il risultato sono 75 minuti che incantano, pur scorrendo all’inizio forse troppo lentamente. Lo dimostrano le 40 sale italiane che stanno ospitando Dancing with Maria in questi giorni. Un successo per nulla scontato, raggiunto grazie anche ai flash mob animati dalle allieve di Fux in concomitanza con l’uscita del docufilm nelle diverse città. Spiega Gergolet: «Questo film ha un popolo che lo sente suo e che vuole partecipare. L’approdo ai cinema non è solo merito dei bravi distributori o perché è stato accolto bene a Venezia: le allieve di Fux hanno fatto molto affinché il documentario uscisse nelle loro città».

Il prossimo film
Per un anno e mezzo Gergolet presenterà Dancing with Maria in diversi Paesi, ma è già alle prese con un altro lavoro: un film di finzione ambientato ai giorni nostri nei dintorni di Trieste, fra l’Italia e la Slovenia: «Una storia vendetta che ha per protagonisti una speleologa e un campione di nuoto… Vi farò sapere il titolo».

Il consiglio ai giovani emergenti
Originario di Doberdò del Lago , il “nostro” Gergolet vive a Trieste da diversi anni. Dal successo di Venezia la sua vita è cambiata, ma a 37 anni si sente ancora giovane e ancora emergente: «In questo Paese vieni considerato giovane fino a cinquant’anni: una questione di cultura, determinata anche da ragioni di mercato. Il contrario di emergente è arrivato, e io non mi sentirò mai arrivato. A chi vuole fare questo mestiere consiglio di cogliere tutte le opportunità che il mondo del cinema può offrire, accettando anche i ruoli che si discostano parecchio dalla regia. Io volevo fare il direttore della fotografia e ho cambiato idea solo sul campo. Ero sempre in disaccordo con le scelte dei registi per i quali lavoravo… Ma da qualche parte ho cominciato. In Italia si esordisce molto tardi, e perdere tutta una generazione di ventenni non è certo un bene. Avrebbero molto da raccontare, e lo potrebbero fare con un carico di energia di cui si è dotati solo a quell‘età».

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