10 Aprile 2010

Basket: giovani allenatori di successo, passione e conoscenza

E’ ancora vasta l’eco dello strepitoso sogno della piccola università di Butler finito sul ferro alle finali NCAA, una favola incarnata dal trentatreenne coach Stevens, capace di mettere in riga illustri “mostri sacri” della panchina e di imbrigliare i blasonati “Blue Devils” del mitico coach “K”. Un esempio di professionalità cestistica precoce che ben si allinea con un’idea maturata leggendo la biografia di Dan Peterson in “Quando ero alto due metri” : l’importanza anche per chi rincorre l’ambizioso progetto di allenare una squadra di basket oltre a chi pratica lo sport, di essere “affamato” della materia, di sacrificare tempo per assorbire insegnamenti dei maestri, di guardare dal vivo schemi tradotti nella pratica, di considerare il possibile istinto innato come l’ultimo ingrediente di un bagaglio personale precostituito.

Questo perché la realtà italiana della classe istruttrice, e triestina in particolare, troppo spesso si è impigrita dietro il minimo sindacale approfondimento, magari supportata da qualche lettura o da facili prodotti video preconfezionati. La realtà è che per eccellere c’è bisogno di fatica e lavoro, Dan Peterson che tutti ricordano alzato dai suoi giocatori nelle finali di Coppa Campioni o che si lasciava andare a drink a base di thè a bordo piscina nel Tennessee come attore consumato, altro non era che l’ultima parte di un percorso partito da molto lontano, da giovanissimo allenatore ormai conscio di non poter sfondare come giocatore nel mondo della pallacanestro.

Momenti costellati di avventurose corse e chilometri fatti per vedere qualche partita, magari di nascosto, quaderni e quaderni di appunti con schemi, zone press 1-3-1, 2-2-1, allenatori studiati ai raggi X come Burmaster, Kinert, Case, Mills, tutti inconsci maestri “a distanza” , giocatori analizzati e proiettati nel futuro per vedere possibili o reali velleità di sfondare.

Il parallelismo con la realtà nostrana è alquanto deprimente, le palestre sin dai tempi della serie A e di grandi coaches come Luca Banchi o Cesare Pancotto, e prima ancora con Boscia Tanjevic e Matteo Boniciolli sono sempre state desolatamente vuote o quasi, al limite i tifosi a far cornice, ma addetti ai lavori pochi e sporadici; hai voglia poi inculcare PAO (Programma Aggiornamento Obbligatorio ndr.) o altre soluzioni simili che assomigliano al cucchiaio costretto di un medicinale insopportabile per far piacere al bambin Gesù…

Va bene che il triestino è permeato di conoscenza cestistica, un’investitura quasi dettata da ragioni storiche, ma tutto ciò non può bastare per raggiungere l’eccellenza; avere il maggior numero di elementi su cui fondare il proprio credo cestistico è come per uno scrittore avere profonda conoscenza delle radici letterarie; è solo a quel punto che la caleidoscopica marea di informazioni deve essere veicolata secondo una concezione personalistica della pallacanestro, certamente supportata dalla giusta dose di personalità e istinto. Esattamente come Barney Oldfield, guardando la “biblioteca” di Dan Peterson, chiese a “the coach”: “Di tutta quella roba c’è qualcosa in cui credi?”, ecco il passaggio fra il nozionista e l’allenatore.

La sostanza è sempre quella, vivere con passione il mestiere dell’allenatore vuol dire avere più “fame” degli altri, studiare e seguire i grandi maestri non per emularli ma per superarli, non finire di approfondire la materia, prendere decisioni con personalità ma con l’umiltà di chi non è mai arrivato, pensando che ogni giorno ha 24 ore di opportunità, per essere un nuovo coach Stevens e raggiungere i propri sogni!

Raffaele Baldini (www.cinquealto.blogspot.com)

rafbaldo@libero.it

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