I segnali di ripresa che l’atletica sta dando a livello nazionale, il crescente interesse che sta suscitando nel mondo della scuola e i valori che può trasmettere alle nuove generazioni sono stati gli argomenti affrontati da Livio Berruti nella sua visita a Gorizia. Il campione olimpico dei 200 metri ai Giochi di Roma è stato ospite del convegno “L’atletica leggera di ieri, oggi e domani”, promosso in Provincia dal Coni insieme a Panathlon, Lions club, Rotary e Atleti azzurri d’Italia.
"Sembra che sia stata presa la strada giusta per ridare all’atletica il ruolo che le è proprio, ovvero di sport basilare, ideale per raggiungere la dovuta preparazione psicofisica”, ha esordito…
Berruti, che nella mattinata ha fatto tappa al Coni, dove è stato accolto tra gli altri dal presidente del comitato provinciale, Giorgio Brandolin, e dal patron dell’Atletica Gorizia, Bruno Leon. Il campione olimpico ha proseguito rimarcando che la scuola ha compreso l’importanza che questa disciplina, e lo sport in generale, possono avere per la formazione dei ragazzi: “In passato lo sport era considerato un momento di secondaria importanza rispetto allo studio, invece ora il mondo scolastico ne sta comprendendo l’importanza. Chi pratica qualche disciplina ha la grinta e la capacità per reagire alle difficoltà della vita, e ha le doti psicologiche e fisiche per lavorare meglio. La scuola si sta rendendo conto dell’utilità educativa dello sport, che costituisce l’unico strumento per dare ai giovani un indirizzo serio e per insegnare loro a rispettare regole e avversari. Non a caso si sta sempre più portando avanti l’attività giovanile e l’atletica negli istituti, perché se manca la base è inevitabile crollare”.
Inevitabile è stato il riferimento al doping, che ha portato Berruti a sottolineare la differenza tra lo sport pulito di un tempo e quello attuale: “Penso di parlare anche a nome dei miei colleghi dicendo che faccio fatica a riconoscermi nei campioni di oggi. Fortunatamente per la nostra disciplina non esistevano droghe, se non mangiare bene, e non c’era neanche l’humus psicologico per essere spinti a consumarle. Avevamo insomma altri interessi, che si permettevano di fare sport con maggior serietà”.
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