5 Gennaio 2024

Riflesso di una notte

el sunto L'appuntamento del mese con la rubrica dedicata ai racconti di Davide Stocovaz ambientati a Trieste.

Era uno specchio antico, dalla cornice spessa in legno scuro e dagli intagli raffinati: una geometria di motivi floreali. L’avevo acquistato in un vecchio negozio di antiquariato che si trovava nelle vie serpeggianti dietro la piazza di Cavana.
L’avevo sistemato nella camera da letto, e, una volta appeso al muro, mi scostai per ammirarlo nella sua cupa bellezza.
S’intonava perfettamente con la mobilia del resto della stanza, tutta in ebano. Naturalmente, ogni volta che vi passavo davanti, lo specchio rimandava indietro la mia immagine: la figura di un uomo solo, dai capelli arruffati, la barba incolta, lo sguardo alquanto triste. Ricordo che lo usavo spesso, specie quando mi sistemavo alla meglio per incontrare i miei sporadici amici o quando uscivo per recarmi all’ufficio in cui lavoravo.
Già, conducevo una vita in solitaria, piuttosto serena, ma anonima. Se ci penso, poche volte il mio cuore è stato preso da sussulti, nel conoscere quella o quell’altra donna. E, per quanto mi sforzassi di apparire elegante, o almeno interessante, non riuscivo proprio a fare breccia nell’altro sesso. Così, col passare degli anni, con un costante lavorio su me stesso, ero riuscito a reprimere il mio desiderio d’amore, di vita di coppia. Ero estraneo a quella dimensione, ero alieno all’amore stesso.
Solo in alcuni periodi dell’anno, la bramosia e il desiderio di avere una compagna, mi assalivano dannandomi l’anima, bruciandomi il cervello. Allora, la sua assenza era macigno pesante che mi sentivo addosso, e arrancavo durante le giornate, mi trascinavo come un morto vivente nella mia quotidianità.
E poi, arrivò una notte. Quella notte.
Era il 31 ottobre del 2019. Ricordo di essere rincasato dall’ufficio, mentre fuori dalle finestre le tenebre già si diffondevano lungo le vie. Allora non ero alterato dalla mancanza di una compagna, avevo imparato a reprimere quel desiderio, celandolo nell’anfratto più oscuro del mio cuore. Ricordo di aver lanciato un’occhiata allo specchio, solo per vedere l’immagine di un uomo stanco, trascurato nell’aspetto.
Avevo consumato una cena frugale, non ricordo cosa mangiai di preciso. Però, ricordo che mi coricai quasi subito a letto. Dovevo essere scivolato in un sonno leggero, perché mi rammento di aver sentito, dopo alcune ore, l’orologio del salotto scoccare la mezzanotte. Mi girai sull’altro fianco, deciso a cadere in un sonno più profondo, ristoratore, quando lo sguardo mi si fissò sullo specchio. La sua superficie liscia era attraversata da un barlume azzurrognolo. Sorpreso, alzai il busto dal materasso. Per un attimo, pensai fosse il riflesso della luce di un lampione stradale, ma nessuno di questi aveva una luminosità tale, né un colore del genere.
Scesi piano dal letto. Ricordo di essermi avvicinato allo specchio, per capire cosa stesse accadendo. Quel barlume si acuì, poi ci fu una specie di esplosione di luminescenza bianca, che mi ferì gli occhi assonnati. Li chiusi per un istante, e quando li riaprii rimasi di pietra.
Lo specchio, in quel momento, non stava più riflettendo la mia immagine. Ma, al suo posto, era apparsa una donna in primo piano: ne contemplai il volto, dai lineamenti soffici; quei suoi capelli corvini, lisci, che le ricadevano sulle spalle ai lati, che contrastavano col biancore perlaceo della sua pelle. Aveva labbra sottili, dischiuse di un poco, come se stesse sospirando o stesse per dire qualcosa. Ero rimasto abbagliato, confuso, dalla sua figura. Doveva indossare un abito bianco, perché delle spalline di questo colore le coprivano le spalle esili. Ciò che mi fermò dal compiere qualsiasi gesto, erano i suoi occhi, due iridi scure, profonde quanto la notte più profonda, che mi fissavano con sguardo denso. Ricordo di aver provato un brivido caldo scorrermi lungo la spina dorsale. Una marea di domande mi ronzava nella mente: chi era? Da dove veniva? Cosa diamine ci faceva racchiusa nello specchio?
Ricordo di aver provato a porle uno di questi quesiti, ma la gola secca proruppe solo un gemito confuso. Lei se ne rimaneva immobile, a fissarmi con quei suoi occhi ammalianti. Poi, dopo qualche secondo, alzò una mano esile, dalle dita sottili, come a voler toccare la superficie dello specchio. Con un gesto lento, quasi meccanico, mi venne spontaneo sollevare la mia, portandola all’altezza di quella di lei. Provai un brivido. E se le nostre mani si fossero toccate? Cosa sarebbe potuto succedere?
Mentre le avvicinavamo, però, notai la sua figura divenire opaca. Era come se si stesse dissolvendo. Ricordo di aver fatto un passo in avanti, con foga, per riuscire a toccare la sua mano. Lei, però, si era già fatta confusa, una macchia bianca indistinta. E quando toccai con la mano la superficie liscia di vetro, era scomparsa, scomparsa nel nulla.
Davanti a me, vidi il mio stesso volto: una maschera di confusione, di meraviglia, che mutò subito in un’espressione di tristezza.
Non so dire se si fosse trattato di un sogno a occhi aperti, o se tutto fosse accaduto veramente. So solo che l’immagine di quella donna mi perseguitò per i giorni successivi. Mentre avanzavo lungo le strade della città, mi giravo frenetico a guardare di ritrovare quel suo sguardo in quello di una passante. Ma no, qualsiasi sforzo facessi, ovunque guardassi, non lo ritrovai.
Per ben due anni consecutivi, la notte del 31 ottobre la trascorsi chiuso in casa, seduto davanti allo specchio, in fervente attesa di rivederla comparire. Ma lo specchio non mi ripropose più la sua immagine. C’ero solo io, che scrutavo disperato me stesso.
Sì, forse si era trattato di un sogno. Forse, un’allucinazione.
Ma quel volto, quei capelli, quegli occhi, li conserverò comunque dentro di me, da qualche parte nella mia anima, perché solo lei era riuscita a farmi tremare il cuore, come non mi accadeva da fin troppo tempo.

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