9 Giugno 2023

Le rose della follia

el sunto Undicesimo appuntamento con la rubrica dedicata a dei brevi racconti horror ambientati a Trieste. La rubrica ha cadenza mensile

Mirko Coslovich alzò lo sguardo verso il cielo terso ed esalò un respiro. Alle ore undici e trenta di quei primi giorni di giugno il caldo era già impietoso. Il venticinquenne indossava una t-shirt grigio perla solcata da lunghe strisce di sudore, pantaloni multitasca lunghi color verde oliva e scarpe anti-infortunistiche. Calzava alle mani un paio di guanti grossi. Per un attimo, volse il capo a lanciare un’occhiata al suo collega, Stefano Marini. Questi, di poco sopra la soglia dei trent’anni, se ne stava chino in un’aiuola e tranciava dei rami secchi con delle piccole cesoie.

Coslovich si passò una mano sulla fronte, a tergersi il sudore. Poi fece alcuni passi nel roseto, reggendo in una mano il suo paio di cesoie.

I due si trovavano nel roseto del Parco di San Giovanni, nell’ampia area soleggiata a terrazze, sotto l’inabitato Padiglione H, all’estremità nord-est dell’ex Ospedale Psichiatrico. Questo aveva un’estensione di circa ventidue ettari e ospitava al suo interno quaranta edifici di varie dimensioni.

Il roseto fu inaugurato il 3 ottobre del 2009. Esso, sin dall’inizio, ospitava quasi cinquemila varietà di rose e fu realizzato con la collaborazione della Cooperativa Agricola San Pantaleone, grazie al finanziamento della Regione Friuli Venezia-Giulia. Il dottor Vladimir Vremec, progettista del roseto, intese realizzare un giardino contemporaneo e non un giardino in senso tradizionale. La collezione di rose presentava quindi il meglio della produzione corrente, con rose introvabili sul mercato, rendendo quel luogo uno dei più significativi d’Italia.

Il punto in cui si trovavano Coslovich e il suo collega era la parte più grande del roseto, dedicata alle rose moderne più note: rose a mazzetti, ibridi di Tea, rose rampicanti inframmezzate a clematidi e a graminacee ornamentali, ma anche a cespugli di Cistus e Phlomis a ridosso del muro perimetrale in arenaria.

Mirko Coslovich non era un grande appassionato di natura. Ma quello era l’unico lavoro che, dopo estenuanti ricerche, era riuscito a trovare. Da lì a qualche settimana avrebbe terminato il suo periodo di prova.

Si spostò in un angolo del roseto, a est. Entrò piano in un’aiuola per tranciare i rami secchi di una rosa, quando l’occhio gli cadde su una macchia scura presente a ridosso del muro in arenaria. Si alzò, le si fece incontro. Notò trattarsi di un cespuglio di rose che non aveva mai visto. I fiori avevano petali scurissimi, di un rosso scuro intenso con ombreggiature nere. Allungò il collo ed inspirò una boccata d’aria alla ricerca di un qualche tipo di profumo, ma non lo sentì. Intanto, le rose nere sembravano guardarlo, come fossero tanti occhi di un gigantesco aracnide.

Tra il fogliame individuò una serie di rametti secchi, irti di spine acuminate. Distese il corpo in avanti, piantando bene le scarpe. Allungò la mano munita di cesoie nell’intrico verdeggiante. Tranciò di netto due rametti e, cercando di ritirare la mano, urtò senza volere un ramo spinoso. Sul momento non avvertì la puntura delle spine. Ma dopo qualche secondo, sentì un bruciore intenso avvampare lì dove il braccio era nudo. Fece un passo indietro, allontanandosi dal cespuglio. Si torse il braccio e notò alcuni graffi rossastri percorrergli la pelle. Niente di grave.

Agitò il braccio, ci soffiò sopra con foga, sperando di lenire il bruciore. Coslovich non poteva saperlo, ma in quel preciso istante una fitotossina gli era stata trasmessa dalle spine del ramo al suo sangue e si stava già diffondendo nell’organismo.

Un’ondata di calore inatteso avvolse la sua figura. Ma Coslovich non lo imputò alle spine, piuttosto al caldo torrido di quel tardo mattino. Subito dopo, venne colto da un senso di vertigine. Barcollò sul posto, ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Poi il suo cervello sembrò ottenebrarsi, come se una densa nube scura avesse soffocato le sue sinapsi. Esalò un rantolo.

Il sangue sembrò ribollirgli nelle vene, mentre quel senso di vertigine si intensificava. Un’emicrania tremenda gli esplose al centro della testa, tanto potente da costringerlo a portarsi le mani alla faccia. Iniziò a respirare in affanno. Pregò che la sofferenza fosse solo passeggera, ma col trascorrere dei minuti l’emicrania non sembrava sul punto di cessare.

Stefano Marini si alzò da un intrico di rose. Vide il suo collega immobile, in piedi, con le mani premute sulla faccia e le spalle che sussultavano a ogni respiro. Accigliato, gli si fece incontro per sincerarsi delle sue condizioni. Mentre gli si avvicinava, lo sentiva rantolare ed emettere un basso brontolio gutturale. Quando gli fu alle spalle, allungò una mano e gli toccò la spalla.

Non ebbe tempo di reagire.

Coslovich, al tocco leggero, si girò di scatto e, con occhi iniettati di sangue, gli piantò le cesoie nel petto. Stefano emise un gemito roco. Abbassò il capo sulle cesoie che gli spuntavano dal corpo, come fossero una sua estensione naturale. Sentì le gambe tremare. Le energie lo abbandonarono e crollò in ginocchio al cospetto del collega.

Allora Coslovich troneggiò su di lui, si abbassò e con un gesto rapido si riprese le cesoie. Marini emise un profondo gemito e si accasciò sul terreno, di lato.

Il venticinquenne si guardò attorno, stralunando gli occhi. L’emicrania aveva raggiunto il suo apice di dolore: pulsante, rovente, insostenibile.

Un urlo roco sgorgò dalle sue labbra. Poi, in un gesto meccanico, ch’egli stesso non riuscì a controllare, si portò le cesoie all’altezza della gola. Le sue braccia sembravano munite di vita propria. Riuscì solo a chiudere gli occhi, prima di spingersi con foga le cesoie nella gola, sfondandosi la trachea. Crollò al suolo all’istante, il volto verso il cielo terso. Il suo respiro si fece irregolare, i battiti del cuore più deboli. E, mentre una macchia di sangue si disperdeva sul terreno, avvolgendo la sua figura, riuscì a emettere un gorgoglio; si sentì leggero, come mai lo era stato. L’emicrania sembrava un ricordo lontano. Un ultimo respiro, poi la sua testa si reclinò indietro e gli occhi gli si chiusero per sempre.

I corpi di Coslovich e Marini verreno trovati poco dopo, da una coppia di ragazzi a passeggio col loro cane. Fu la ragazza a individuare i cadaveri e allertare subito la polizia, mentre il ragazzo sembrava essere stato fulminato ed era scivolato in un profondo mutismo.

Per qualche giorno, si temette la presenza di un tremendo assassino nel rione di San Giovanni, finché l’autopsia sui corpi e i rilevamenti delle forze dell’ordine non schedarono il caso come un omicidio-suicidio, dato che le impronte digitali sulle cesoie appartenevano allo stesso Coslovich.

Nessuno sa tutt’ora spiegarsi cosa fosse accaduto quel giorno di giugno nel roseto. Ma, intanto, quel cespuglio di rose nere è ancora lì, a spiare le presenze umane e animali nel parco dal suo angolo a est. E quando i raggi del sole colpiscono di traverso quei petali scuri, il cespuglio tutto sembra possedere tanti occhi beffardi.

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