Chi dimentica le colpe di quei sacerdoti zelanti al servizio di Tito

dalla rubrica ‘Tuttifrutti’ di Gian Antonio Stella, Corriere della Sera, 22 (o 23?) agosto 2007

Non sarebbe ora di smetterla di affettare la storia prendendo solo i pezzi utili alla propria tesi? E’ ciò che ti domandi leggendo l’invettiva di Valter Zupan, vescovo di Veglia (lui, da buon croato, direbbe «vescovo di Krk») contro Tito, che ha accusato di avere causato «un milione e 129 mila morti». Un po’ troppi anche per quanti hanno dedicato la vita a
studiare i crimini del comunismo e i famigerati campi di prigionia per i dissidenti come Isola Calva, ma non importa. Non è la conta che qui ci interessa. Ciò che colpisce, per chi conosce qualcosa della storia dell’Istria e della Dalmazia, è il modo in cui il prelato affronta, nell’intervista a Fausto Biloslavo del Giornale, il tema della cacciata di 350 mila italiani: «Attorno a Tito hanno creato un mito, ma la realtà era ben diversa. Ho detto che era sullo stesso percorso di sangue di Hitler. Lo sanno gli italiani che sono scappati da queste isole, a remi, spellandosi le mani. Perché lo hanno fatto se era tutto idilliaco? ».

Manca qualcosa: dov’erano i preti slavi, allora? Se lo ricorda il vescovo, ad esempio, il memoriale inviato il 10 febbraio ’46
da un gruppo di sacerdoti sloveni e croati alla Commissione alleata delegata ai confini? Diceva: «Gli italiani non sono capaci di risolvere la questione nazionale con spirito cristiano, perché sono per natura portati a un’assimilazione violenta o artificiosa. Perciò hanno perso il diritto di amministrare ancora queste terre». Quindi? «Il Litorale tutto intero va annesso alla Jugoslavia Federativa».
E le polemiche intorno al ruolo di irredentista di don Virgil Scec? Deputato a Roma nel primo dopoguerra per i cattolici sociali sloveni, si era così appassionato alla causa nazionalista, spiega tra gli altri lo storico Raoul Pupo (autore di libri come «Foibe» e «Il lungo esodo ») da diventare leader dei cristiani schierati per il passaggio di tutte le terre istro-venete alla Repubblica titina. Al punto di venir coinvolto, a ragione o a torto, in un dossier inglese frutto di molteplici testimonianze sulle foibe di Basovizza, dove qualcuno arrivò ad accusarlo di un’enormità: non aver voluto amministrare i sacramenti ad
alcune persone «perché non ne valeva la pena». Per non dire di don Bozo Milanovich, un prete nazionalista di Pisino che, raccontava Fulvio Tomizza, «aveva un profondo odio per gli italiani, un po’ motivato forse. Era uno che diceva che i camerieri italiani mettono l’olio in bocca e poi condiscono l’insalata del cliente» e «andò alla conferenza di pace portando tutta una serie di atti di battesimo per mostrare come l’Istria era piena di slavi». Un giornalista, raccontava l’autore di
«Materada», gli chiese: «Scusi, ma lei vuole davvero che l’Istria passi alla Jugoslavia, cioè a un regime comunista e ateo?». E lui: «Le ideologie passano, i confini restano».

Don Giovanni Gasperutti, l’ultimo prete italiano rimasto a Capodistria, fu costretto a realizzare di nascosto nella soffitta della sacrestia, con l’aiuto di uno scalpellino, i calchi in gesso del busto di San Nazario da far ricostruire a Trieste, perché non se ne accorgessero, come spiega il sito degli esuli Arcipelago adriatico, «i due frati mandati da Lubiana
a dirigere la parrocchia ». E insomma la spinta nazionalistica slava dentro la Chiesa è stata tale, per decenni, che non solo in un sacco di chiese venetissime come a Portole, Rozzo, Grisignana o Pinguente non resta una sola scritta in italiano, ma ancora pochi anni fa lo stesso Wojtyla, male informato dal suo clero locale, arrivò a benedire la veneta Madonna dell’Isola come «proto- santuario mariano delle terre croate» e a ospitare in Biblioteca Vaticana una mostra («Arte religiosa e fede croata») dov’erano croatizzati un busto argenteo di S. Stefano fatto a Roma, l’arca di S. Simone di Francesco da Milano (nel catalogo «Franjo iz Milana»), una statua di San Giovanni da Traù del toscano Niccolò Fiorentino, il ritratto del vescovo di Spalato di Lorenzo Lotto, una Pietà del Tintoretto, una tela del Carpaccio… Correva l’anno 2000. E Tito era morto da vent’anni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *