La mia amica mi ha detto che Napoli e più dell’India. Io l’India l’ho vista solo in aeroporto. A Napoli, ci sono stata per vedere il Cristo Velato e mangiare la sfogliatella originale, quella croccante che ti massacra il palato ripiena di ricotta e qualche scorza d’arancia.
Posso descrivere Napoli dicendo che è una città carica di eccessi, carica di volume nelle voci, di calorie, carica di varietà. A Napoli non è stato inventato il silenzio. A Napoli non si è mai soli, se non quando magari sei povero e dormi con i tuoi cani sotto una coperta lisa vicino all’entrata della chiesa di Santa Chiara quella col bel chiostro. A Napoli, pare che mettere il casco sia illegale. Senti sempre cantare qualcuno in qualche terrazza, come cantassero per la città, di solito sono donne che stendono o fanno altri lavori domestici o magari cucinano la pizza fritta come la Loren ne l’Oro di Napoli, sulle cui tette vorrei tamponare. Scene di un postumo neorealismo italiano in diretta. I cliché, i luoghi comuni su Napoli paiono, di primo acchito, tutti reali, soprattutto per chi, come me, viene da Nord, da Trieste. Tuttavia, quel che non immaginavo è il sentimento che questa città trasmette: un fragoroso entusiasmo per la vita. Oltre a gente che fuma e si ritrova nelle corti interne dei palazzi, anche per guardare il cellulare ma farlo insieme, a ragazzini che giocano e saltano in piazza, a ragazzine che ballano e cantano, vestite con le pelliccia della madre e truccate con fard e rossetto, due scene mi rapiscono; una procace signora che attraversa la strada per mettere direttamente dalla pentola della pasta nel piatto della vicina, uno scooter guidato da un ragazzo senza casco, passa fra loro. Sugli scooter stanno anche famiglie intere. Gli scooter mi ricordano i motorini di Mary per sempre.
L’altra scena è il passaggio dei panni o del pranzo o di quel che serve, tramite un secchio legato a una corda, che arriva, da un piano all’altro e fin giù in strada.
Napoli non è città pulita, eppur le sue strade odorano di sapone dei panni stesi. È un modo di condurre la vita senza tempo in cui tutti sono inebriati dall’essere napoletani. C’è un orgoglio che invidio benevolmente. L’appartenenza fa sentire al sicuro, nonostante abbia sentito parlare di gomorra, visto uomini litigare a distanza di un bacio e abbia camminato fra i rifiuti.
Dopo essere stata al cinema girando per strada, riuscendo a non essere investita, con almeno tremila calorie fra sfogliatelle, zeppole con crema e amarena, babà, approdo finalmente alla Cappella di Sansevero, dove mi aspetta Il Cristo velato, capolavoro di Giuseppe Sanmartino voluto dal massone Raimondo Sangro. Una meraviglia intoccabile eppur tattile, roba da voler sollevare un velo che sembra leggero come un tulle, ma col peso specifico del marmo. Per quello, non trovo parole, ma un’emozione privata da innamoramento, da estasi compassionevole.
E poi, dopo tante chiese, innumerevoli capitelli, anche dedicati a giovani ragazzi che hanno perso la vita, fiumi di persone, sempre più calorie, una media di 18 chilometri al giorno per vedere vita, sempre più vita, pizzerie e baracchini che vendono il cuoppo, mi rendo contro che il fenomeno più incredibile di questa città è Maradona. Diego Armando c’è ovunque, a livelli per cui mi chiedo se Napoli sarebbe Napoli senza Maradona. È lui Dio. E non è un dio comune. Lui è Dio Maradona. Mentre accanto al corpo disteso di Cristo Velato c’è la sua corona di spine, capita di vedere Diego Maradona ritratto con una corona di spine. Nulla di blasfemo, solo di eccezionale. Una signora anziana in compagnia del suo cane nella Chiesa di Gesù Nuovo, mi consiglia di andare prima a chiedere la grazia di rimanere incinta nella Chiesa di Santa Maria Francesca nei quartieri Spagnoli e poi di andare al Tempio di Maradona, una piazza interamente dedicata a lui. Dio si scrive così: D10, col numero della maglia che indossava Maradona. Quel dio esiste senza ombra di dubbio e, a Napoli, senza possibilità di ateismo. L’impressione è che il popolo napoletano non avesse tanto bisogno di un calciatore, quanto di un sogno. Né Toto né Pino Daniele né San Gennaro sono a pari livelli. A loro, sono dedicati un paio di murales, mentre a Diego è dedicata tutta la città. Un giocatore di calcio argentino che va oltreoceano a segnare gol assurdi per sette anni, dall’’84 al ’91, e diventare immortale in vita. E così, dopo non essere andata a vedere la partita Napoli – Udinese perché non residente, così mi hanno detto nonostante mi fossi prese una maglietta di Lucaco per essere accettata dai tifosi, me ne torno a casa con due calamite che ritraggono il Dios e un paio di calzini rosa col suo nome.
Claudia Pezzutti. Sono nata nel 1980 in provincia di Treviso. Vivo e lavoro a Trieste dove mi occupo di disabilità. Con lo psudonimo di Claudia Libra ho pubblicato Carteggio d’inverno (Noon 2016, scritto con il poeta Ianus Pravo). Sono autrice di spettacoli teatrali accompagnati da musica dal vivo, Donne che si raccolgono col cucchiaino da sole (2018), Non è l’amante (2020), liberamente tratto da L’amante di Marguerite Duras, Strange Fruit, sulla vita delle cantanti jazz e le vittime in Iran, scritto in occasione della Giornata Mondiale contro la Violenza sulla donne nel 2022. Nello stesso anno ho pubblicato La Passiflora con Calibano Editore, una raccolta di racconti riguardanti l’amore, l’eros, la morte, Dio, con la prefazione dello scrittore Pino Roveredo. Con la stessa casa editrice ho pubblicato nel 2023 Una Storia Blu, romanzo con i disegni del pittore Ugo Pierri.
Collaboro inoltre come redattrice con il mensile di arte e cultura online Il Ponterosso e il giornale di strada Volere Volare e tengo un corso di scrittura presso l’ALT, Associazione di cittadini e familiari per la prevenzione e la lotta alla tossicodipendenza, al reparto di alcologia.
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