Torna il Trieste Film Festival, il principale appuntamento italiano dedicato al cinema dell’Europa centro orientale, dal 16 al 24 gennaio al Politeama Rossetti, Teatro Miela e Cinema Ambasciatori. Il programma della rassegna, presentato venerdì 10 gennaio al Palazzo Gopcevich, include oltre 130 film, tra anteprime italiane ed eventi speciali, concorsi internazionali e sezioni tematiche. Ce ne parla Nicoletta Romeo, direttrice artistica del festival.
Nel comunicato stampa si annuncia che il tema di questa edizione è la famiglia. È un argomento che avete scelto a priori o è emerso spontaneamente durante la selezione dei film?
Il leitmotiv che accomuna i film del festival non è mai qualcosa che scegliamo intenzionalmente, andiamo semplicemente alla ricerca del meglio delle produzioni provenienti dai paesi di cui ci occupiamo. Però poi, a conti fatti, ci rendiamo conto che ci sono delle tematiche che ricorrono nei film selezionati: c’è una sorta di “sensibilità nell’aria” per cui in quell’anno diversi artisti decidono di trattare lo stesso argomento. In questa edizione quello della famiglia è uno dei temi che ricorre tantissimo nei concorsi, nelle sezioni “Visioni Queer” e “Wild Roses”. La famiglia ovviamente non è solo la “famiglia tradizionale”: c’è la famiglia a volte disgregata, con dei legami familiari anaffettivi o molto fluidi, c’è la famiglia queer… c’è anche la famiglia tradizionale, che però viene messa un po’ alla berlina. La famiglia spesso è proprio un baluardo, un rifugio e, soprattutto in quei Paesi dove non c’è il welfare state, c’è meno benessere, in un tessuto sociale che è venuto a crollare, è l’ultimo microcosmo che dà appoggio. La famiglia al TSFF viene messa sotto al microscopio per vedere se ancora oggi ha senso come istituzione, come forma sociale.
Quest’anno, per esempio, una delle nuove sezioni che proponiamo è “Visioni Queer”. Ne abbiamo sentito la necessità perché per tantissimi anni non c’era nessun tipo di produzione a tematica LGBTQ+ in Europa dell’Est, era assolutamente un tabù. Da un po’ di tempo, invece, finalmente si cominciano a produrre da una parte documentari che problematizzano la cosa, vanno a mettere “il dito nella piaga” e raccontano ad esempio com’è difficile raggiungere leggi che tutelino persone gay o che supportino il matrimonio tra persone dello stesso sesso, e dall’altra ci sono i film di fiction che invece raccontano l’amore in maniera più libera, meno dissacrante. C’è il film “Housekeeping for Beginners” (Venerdì 17 gennaio alle 20:00 al Teatro Miela) del macedone Goran Stolevski, in cui una famiglia queer viene raccontata come una possibilità del mondo d’oggi ma c’è anche la famiglia tradizionale del film di apertura al Rossetti “Lo Spartito della Vita” (Sterben) di Matthias Glasner (Lunedì 20 gennaio alle 20:00) che descrive un po’ il disastro delle delle società civili occidentali, con genitori molto anaffettivi, lontani e distanti, i figli un po’ allo sbaraglio e rapporti molto “fluidi”. Alla fine del film, quando i genitori diventano vecchi e la morte entra nelle loro vite, si rinsaldano i rapporti e si ritrova forse l’amore. Questo film ha vinto tutti i premi nazionali di cinema tedesco.
In questi film si passa da un estremo all’altro. Ci si fa delle domande su cosa vuol dire famiglia oggi, anche se di fatto i film non danno delle risposte facili.
Molto interessante da citare è quello che possiamo considerare “il film faro” della sezione “Visioni Queer” che è il film kosovaro “As I was looking above I could see myself underneath” (Domenica 19 gennaio alle 16:30 al Teatro Miela). Il regista Ilir Masanaj non sarà con noi, ma ci sarà invece il produttore Dardan Hoti, che è anche un giornalista e attivista militante. In genere, i documentari girati nel sud-est balcanico, quando trattano di determinate tematiche, mostrano le persone coperte o con le voci camuffate, questo, invece, è il primo documentario girato in Kosovo che fa vedere le persone con il loro volto, la loro voce, la loro identità. Questo è un passo in avanti incredibile.
Si conferma la tradizione della doppia inaugurazione del festival: prima al Miela (giovedì 16 gennaio) e poi al Politeama Rossetti (lunedì 20 gennaio). La proiezione di apertura al Rossetti verrà preceduta dalla sonorizzazione di un corto.
Il film d’apertura del concorso lungometraggi al Rossetti verrà preceduto dalla proiezione di “The Perl of the Ruins”, un piccolo cortometraggio dei primi anni venti girato da Giovanni Vitrotti (della famosa famiglia cinematografica triestina). Nel corto, già presentato alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, si vede una Trieste non troppo diversa da oggi, quindi molto riconoscibile. È un corto di fiction: c’è una storia di malfattori, criminali, di una povera ragazza invischiata in una storiaccia ed è probabilmente una commissione del Lloyd Triestino. Si vede molto il porto, le navi, i docks… è molto interessante. Siccome è un film muto verrà musicato dal vivo dal pianista lubianese Andrej Goričar.
Restando in ambito triestino, ci sono due documentari fuori concorso dedicati a due tra i personaggi più importanti della storia del teatro a Trieste: Angelo Cecchelin e Claudio Misculin.
Assolutamente. Uno è “C’era un comico di nome Cecchelin”, documentario sull’istrionico comico triestino Angelo Cecchelin a cura di Alessio Bozzer (Sabato 18 gennaio alle 18:15 al Teatro Miela). Irredentista all’epoca dell’Impero austro-ungarico, irriverente antifascista nel Ventennio, non si tirò indietro dal prendere in giro i “rossi” e gli jugoslavi nei “40 giorni”, tantomeno a usare la sua tagliente ironia sugli alleati quando governavano la città. Ne pagò il prezzo con sospensioni, diffide, denunce, arresti, lunghi periodi dietro le sbarre o costretto a un forzato ritiro dalle scene. E’ un documentario con tanto materiale d’archivio, numerose interviste ma anche con momenti di “teatro filmato”, dove Cecchelin viene interpretato in alcune gag dall’attore Massimo Sangermano. E la cosa molto singolare è che a distanza di tantissimi anni, quasi 100, è rimasto molto popolare. I triestini lo amano ancora tantissimo, è un tipo di comicità che attraverso il teatro e la musica entra ancora molto nelle corde della cultura popolare odierna.
È interessante come Cecchelin abbia attinto dalla cultura popolare per realizzare i suoi sketch e a loro volta questi siano entrati nella cultura popolare degli anni a seguire…
Sì, questo per me è molto “Mitteleuropa”. In tutta la cultura mitteleuropea (se si pensa ad esempio alle opere dello scrittore praghese Hrabal) ci sono alcune figure che ricorrono… per esempio “l’ubriacone saggio”: beve in osteria e straparla ma, nelle sue parole, c’è sempre un fondo di verità. Sono figure lontane dalla commedia dell’arte ma che nell’Europa centrale sono molto ricorrenti nel cinema, nel teatro e nelle barzellette. E’ interessante, quindi, come Trieste appartenga geograficamente e culturalmente ad un’area ben definita che è quella della Mitteleuropa e non all’Italia.
L’Italia aveva Totò e noi avevamo Cecchelin.
L’altro, invece, è il documentario di Erika Rossi “Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza”, dedicato all’Accademia della Follia e a Claudio Misculin (Domenica 19 gennaio alle 11:00 al Teatro Miela). Il documentario, attraverso tantissimi materiali d’archivio, articoli e interviste, ricostruisce la storia di questa accademia che nasce come una sorta di teatroterapia per pazienti ed ex pazienti dell’ospedale psichiatrico e finisce per diventare una compagnia teatrale, con tutti i crismi, che fa tournée esattamente come tutte le altre compagnie. Questo succede solo a Trieste: non conosco nessun altro esperimento del genere in Italia o in altri Paesi vicini a noi.
Forse perché la distanza tra il “matto” e il “normale” a Trieste è storicamente molto minima, visto che la riforma Basaglia è partita da qui?
Esattamente. E infatti nel suo documentario Erika inserisce alcune immagini delle famose feste al Padiglione P e al Padiglione M del Parco di San Giovanni negli anni ’80 e ’90 – a cui sono andata anch’io – dove non si percepiva proprio la differenza tra il “matto” e il “normale”.
Misculin in qualche modo fa rabbrividire, nel senso che è un personaggio veramente carismatico che attraverso il suo attivismo nel teatro d’azione esprime il dolore, il malessere e il disagio dell’essere diverso. Urlava: “Ecco questi siamo noi, accettateci, questa è la nostra realtà” e rendeva partecipi gli spettatori di quel loro inferno interiore attraverso performance molto “carnali”. Un’esperienza totale, di cui Trieste dovrebbe essere forse un po’ più fiera.
Cerchiamo sempre di portare al festival personaggi trasversali e controcorrente. Non la cultura celebrata, istituzionale di Magris, Svevo e Saba ma di altri personaggi che comunque sono importantissimi e che descrivono molto bene le peculiarità di questa città.
Aggiungo una cosa: nel premio Corso Salani, che è questa piccola vetrina – competitiva in realtà – dedicata al cinema italiano indipendente sia di fiction che documentario, quest’anno abbiamo selezionato “Il canto di Alina” di Ilaria Braccialini e Federica Oriente, un piccolo film ambientato nella nostra regione (Martedì 21 gennaio alle 16:00 al Cinema Ambasciatori). È la storia bellissima di una ragazza moldava che viene in Italia come migrante, entra nel racket della prostituzione ma da questo riesce a liberarsi. È una storia molto bella di una di una giovane donna in fuga realizzato da un team di giovanissimi studenti dello IED con l’aiuto della Film Commission del Friuli Venezia Giulia.
Tutte le informazioni sul sito www.triestefilmfestival.it
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