Nella città di Trieste l’aria del Natale si respirava già dai primi giorni di novembre. Graziose luminarie, a forma di stelle cadenti o slitte, venivano installate tra le case e i viali, a rischiarare le strade strette e curvose. In quel periodo regnava in città un’aria di festa e sacralità. Finché giunse il Natale del duemilaventuno.
Quell’anno il sindaco e la giunta comunale, dopo alcune ispezioni sul Carso assieme alla Guardia Forestale, decisero di prelevare un gigantesco abete bianco da Bosco Nero, per esporlo nella piazza di Sant’Antonio. Capaci boscaioli individuarono l’albero e lavorarono di gran lena per sradicarlo dal terreno. L’albero, di dimensioni enormi, venne caricato su di un camion che fece non poche difficoltà a entrare in città. L’abile autista, con una serie di manovre, riuscì a evitare di incastrarsi nelle strette vie curvose. E quando l’albero venne issato nella piazza, tutti i passanti lo guardarono estasiati, sorpresi dalla sua magnificenza. Doveva, di certo, trattarsi di un albero centenario: dalla sua stessa corteccia, segnata in più punti, sembrava emergere la storia del Carso intero. Ci vollero quasi due giorni di lavoro per addobbarlo a dovere, con strisce dorate e cristalline, e per cingere le sue alte fronde con le classiche luci natalizie. L’evento che tutti attendevano era stato fissato, come ogni anno, alla vigilia di Natale, quando il sindaco stesso sarebbe salito su di una scala per inserire il simbolo di una stella cadente sulla cima dell’albero.
Martina Foschi parcheggiò la volante all’ingresso di Piazza Sant’Antonio. Con indosso la solita uniforme della Polizia di Stato, spense il motore e scese dal veicolo. Già una nutrita folla di curiosi stazionava nella piazza. Due operai stavano sistemando la grande scala accanto all’abete. L’aria era gelida, il respiro si condensava in una nuvoletta trasparente. Il grande evento stava per avere inizio e Martina si sistemò a pochi passi dalla scala. Con aria un pò annoiata guardò lo sciamare della gente che, dai vicoli circostanti, si riversava nella piazza. Poi notò il sindaco uscire da una via laterale e avviarsi verso di lei. Era un uomo basso, dai pochi capelli bianchi tirati indietro, e uno sguardo vivace. Passandole accanto le sorrise. Reggeva l’addobbo di una grossa stella cadente dorata. Gli operai si sistemarono ai lati della scala, tenendola ben salda posandoci sopra i piedi. Il sindaco iniziò a salire i primi gradini. Martina si avvicinò all’abete per guardare meglio. Era a pochi centimetri da un ramo. Poteva sentire l’odore pungente e fresco dell’albero: un aroma selvaggio che sapeva di Storia. Inalò una boccata d’aria, a pieni polmoni. Fu in quel preciso istante che le fronde dell’abete rilasciarono un nemico invisibile: si trattava di una tossina sconosciuta alle scienze, che si levò come ondata di marea nell’aria e venne respirata dalla donna. Per un attimo, Martina si sentì venir meno, senza spiegarsene il motivo. Quell’aroma selvaggio e pungente le bruciava nelle narici. Di colpo, la sua mente si fece leggera, senza nemmeno l’ombra di un pensiero. Con il trascorrere dei secondi, avvertì una sorta di offuscamento dei sensi: voci ovattate le echeggiavano nelle orecchie, un velo acquoso le scese sugli occhi. Poi avvertì come una nube oscura impossessarsi della mente, una scarica elettrica diffondersi lungo tutto il corpo, e una fitta acuta al cervello. Esalò un gemito. La piazza sembrò rovesciarsi, come in una centrifuga. Sentì la mano destra scivolare in modo automatico verso la fondina. Era come se un’altra entità si fosse impadronita di lei, e ora non riusciva più ad avere il controllo sulle proprie azioni. Un suono scrosciante le giunse ovattato alle orecchie. Ci mise qualche secondo per capire che si trattava degli applausi della folla. Si girò su sé stessa, confusa, stordita. In quel mentre notò il sindaco scendere dalla scala. Erano a pochi passi di distanza. L’uomo le rivolse un sorriso raggiante, carico di gioia. Allora, la mano di Martina scattò ed estrasse la pistola. Tutto si svolse nell’arco di qualche secondo. Puntò l’arma contro il sindaco e fece fuoco, aprendogli un buco in mezzo agli occhi. Il sindaco crollò al suolo come fosse bambola di pezza. Un urlo di terrore si alzò dalla folla. Martina, pistola in pugno, girò su sé stessa, avvinta da una forza oscura che l’animava. Vide i due operai, che la guardavano con occhi sgranati. Fece fuoco, prima contro uno. Lo vide afflosciarsi a terra. Poi sparò al secondo, colpendolo in pieno petto. L’uomo esalò un gemito e si piegò su sé stesso. In modo automatico, la donna si girò verso la folla che si stava disperdendo nella piazza, una marea di teste urlanti e corpi lanciati in fuga. Sparò alla cieca contro quella massa scura in movimento. Sentì il grido acuto di una donna, poi quella roca di un anziano. Sparò e sparò, finché non terminò le munizioni. Solo allora lasciò cadere l’arma a terra. Le sue gambe ebbero un tremito. Crollò in ginocchio, confusa, inebetita. Piano, i suoi sensi ritornarono alla normalità, e solo allora comprese quanto aveva fatto. Di colpo, mani forti di uomini robusti la bloccarono al suolo, le piegarono le braccia dietro la schiena. Martina non oppose resistenza. Ora, col volto schiacciato sul cemento, lanciò un’occhiata al grande abete, spettatore muto e impassibile della sua follia omicida.
Arrivò un’altra volante della Polizia, che la prese in custodia. Mentre saliva a bordo della vettura, spinta dagli agenti, guardò di nuovo verso l’albero che si ergeva maestoso a dominare la piazza. Nessuno in Questura seppe dare una spiegazione a quanto era accaduto quella sera. Martina Foschi era una agente impeccabile, dedita al suo lavoro e dal carattere bonario. Quando venne interrogata dai suoi superiori, non riuscì nemmeno lei a dare una spiegazione esaustiva su quanto era accaduto, né seppe descrivere le strane sensazioni che aveva provato prima di commettere quel gesto folle. Disse solo di aver perduto i sensi, che questi si erano come offuscati a un certo punto; aggiunse che tutto era accaduto sotto le fronde di quel grande abete, dopo aver inalato un pò del suo odore. Venne aperta una perizia psichiatrica per capire le condizioni mentali della donna. Ma tutt’ora, ai giorni nostri, nessuno sa dare una spiegazione concreta sul massacro di quella sera, e tutta la faccenda venne archiviata come un raptus di follia omicida.
Studi scientifici recenti dimostrano che anche le piante, da quella più piccola all’albero più maestoso, sono capaci di provare emozioni. Un albero gigante, che all’occhio di un essere umano può apparire vecchio, in realtà risulta essere un patriarca per le piante vicine: come tale aiuta e protegge gli alberi in crescita, favorendo l’equilibrio di un bosco o di una foresta.
Perciò, abbiate rispetto per questi esseri viventi, perché i loro misteri non sono ancora stati svelati del tutto e chissà in quale modo estremo essi potrebbero difendersi dall’essere umano.
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