5 Maggio 2023

Occhi

el sunto Decimo appuntamento con la rubrica dedicata a dei brevi racconti horror ambientati a Trieste. La rubrica ha cadenza mensile

Agata Bertin aveva settantaquattro anni e mai aveva visto una cosa del genere: una chiazza verde scuro che si allargava in un angolo del soffitto del suo salotto.
La donna la guardava con fare inebetito, respirando piano. La chiazza era comparsa lì da un giorno, quasi per caso, ed emetteva un odore acre, insostenibile, che sembrava volersi diffondere per tutto il suo piccolo appartamento.
Possibile che qualche tubatura nel muro avesse ceduto?
Già andò a immaginarsi tutte le carte burocatriche da dover compilare per l’amministratore e sentì un nodo alla bocca dello stomaco. Tuttavia, non perse tempo. Sfogliò con cura le pagine bianche, alla ricerca di un bravo idraulico, e quando trovò il nome di Fausto Furian, che lei aveva visto in uno spot televisivo sulla rete locale, non esitò a comporre il numero sul suo antiquato cordless.
Fausto Furian, noto idraulico della città, rispose al quarto squillo. Ascoltò con professionalità e attenzione la descrizione della chiazza e si disse pronto a raggiungere l’abitazione della Bertin nell’arco di un’ora per compiere un sopralluogo.
In realtà, dalla chiamata della signora Bertin al suo arrivo, trascorsero appena quaranticinque minuti, che la donna trascorse cercando di arieggiare l’appartamento, spalancando la finestra del salotto e quella della camera da letto, in modo da creare un giro d’aria che lenisse la puzza emessa dalla chiazza, ma ottenendo scarsi risultati. In più, l’aria fredda di gennaio la faceva rabbrividire, così si costrinse a coprirsi con un gilet rosso bordò.
Fausto Furian era un uomo alto e robusto, dalla lunga cascata di capelli bruni che gli arrivavano alle spalle e gli occhi stretti in due fessure sottili. Appena notò la chiazza sul soffitto, indicatagli dalla donna, la contemplò con occhio vigile. Dal colore della macchia a quel suo tanfo insopportabile, sembrava che si fosse rotta una tubatura fognaria.
Furian chiese se la donna avesse parlato con qualcuno del piano superiore, dal cui appartamento proveniva la possibile perdita. La donna, stringendosi nelle spalle, disse che lì sopra ci viveva un uomo che lei non vedeva di buon occhio. Si erano incrociati di rado, lungo le scale, e sempre salutandosi con sufficienza. Inoltre, lo descrisse come un tipo sinistro, sempre vestito di nero, dalla barba sfatta e uno sguardo scuro, che sembrava celare sempre qualcosa di losco.
Furian prestò attenzione alle sue parole, ma solo in parte. Decise di indagare al piano superiore, di parlare con questo tipo, almeno per metterlo al corrente della perdita.
Così lasciò l’appartamento della Bertin, salì i gradini lunghi e piatti, e trovatosi sul pianerottolo superiore diede due possenti colpi alla porta di ingresso. Attese qualche secondo, poi bussò di nuovo. Nessuna risposta.
Allora provò a suonare il campanello, posto sulla sinistra della porta. Ma nonostante lo sentisse suonare, in modo nitido, all’interno dell’appartamento, nessuno venne ad aprirgli.
Sbuffando, tornò allora dalla Bertin, avvisandola della faccenda e del fatto che avrebbe dovuto chiamare i pompieri per forzare la porta dell’uomo: quella chiazza non prometteva nulla di buono e doveva assolutamente scoprirne la fonte, di certo nascosta nell’appartamento soprastante. La Bertin non ebbe nulla da obiettare. Così Furian si mise in un angolo, vicino la finestra, e compose il numero dei pompieri; spiegò al centralino la sua situazione e l’urgenza che lo premeva.
La Bertin lo vide annuire in modo deciso, e pensò che tutto sommato l’uomo era meglio dal vivo che da come appariva in quello spot alla televisione.
Dovettero attendere pazienti almeno mezz’ora, durante la quale la donna offrì un caffè all’idraulico. Due vigili del fuoco si presentarono a casa della Bertin, avvolti dalle loro divise pesanti. Furian indicò la chiazza e spiegò la necessità di dover dare un’occhiata all’appartamento del piano di sopra. I due vigili, notando la macchia maleodorante, si scambiarono un’occhiata cupa, che non prometteva nulla di buono.
Tramite l’utilizzo di un piede di porco, riuscirono a forzare la porta d’ingresso. Appena aprirono l’uscio, dall’appartamento si alzò un’ondata di tanfo che fece lacrimare i loro occhi. Furian li seguiva alle spalle ed emise un rantolo roco appena avvertì quel puzzo insostenibile.
I vigili del fuoco si mossero con cautela lungo le pareti in ombra, seguiti dall’idraulico. Giunti sulla soglia del salotto, si arrestarono di colpo, come trafitti da una lama. Furian si portò in mezzo ai due per vedere anche lui.
In un angolo era presente una poltrona scucita in vari punti, rivolta verso la finestra e il cielo opaco di gennaio. La poca luce che penetrava nella stanza metteva in risalto la cupola rotonda di una testa, inclinata all’indietro.
Uno strano sgocciolio echeggiava tra le pareti strette, conferendo al luogo un’atmosfera sinistra.
I vigili del fuoco mossero alcuni timidi passi verso la finestra. Sì, sembrava proprio esserci qualcuno seduto sulla poltrona. Ma, chiunque fosse, non si muoveva, non sembrava nemmeno averli sentiti entrare nell’appartamento.
Il più giovane dei due, un ragazzotto sui trent’anni, si portò davanti alla poltrona, abbassò lo sguardo e i suoi occhi si riempirono di un muto terrore. Come se avesse ricevuto una potente scossa elettrica, balzò di lato e imprecò. Poi si allontanò dalla poltrona, portandosi una mano alla bocca.
Furian si fece più vicino. Lì l’odore acre raggiungeva il suo culmine. Con una mano a tapparsi il naso, allungò il collo verso la poltrona e si paralizzò.
L’uomo, o meglio ciò che rimaneva di un uomo, era seduto rivolto verso la finestra, disteso in una posa scomposta; gli abiti neri sembravano racchiudere un corpo marcescente. La pelle era grinzosa e aveva perso ogni biancore vitale: risultava di un pallore cianotico con ampie macchie verde oliva.
I liquami della decomposizione imbrattavano il tessuto della poltrona, gocciolavano sul pavimento da essa e si allargavano in una pozza ampia e putrida, che sembrava defluire tra le fughe.
Ma ciò che impressionò oltremodo l’idraulico, che aveva subito capito la causa della chiazza sul soffitto della Bertin, fu il vedere il volto del cadavere in putrefazione: i capelli scuri gettati alla rinfusa sulla testa, le labbra serrate in una O muta, e la mancanza di entrambi gli occhi. Al loro posto, c’erano solo due orbite vuote, come bocche di caverne senza fondo, con i nervi oculari che facevano capolino agli angoli.
Furian arretrò di colpo, premendosi la mano sulla bocca e soffocando un grido di puro terrore.
Si guardò intorno, sconvolto. Il trentenne era svanito dalla stanza, l’altro vigile del fuoco era al telefono, probabilmente stava allertando la polizia.
Allontanandosi dalla poltrona, l’idraulico urtò con violenza un tavolo. Abbassando lo sguardo, notò trattarsi di una piccola scrivania. Alcuni fogli A4 stavano incastrati sotto un’edizione moderna della Bibbia. Colto da curiosità, l’uomo scostò il pesante tomo e li sollevò. Le parole sembravano essere state scritte a mano, in un corsivo leggibile. I suoi occhi, stretti a fessura, iniziarono a scorrere le righe:

Assassino. Visionario. Mostro. Pazzo.
Questo crederà la gente di me. Ma di come mi chiameranno poco mi interessa; per me, non ha nessuna importanza. Cercherò di scrivere qui, su questo foglio, la mia vicenda, affinché la penna che tengo in mano si faccia portavoce della verità. Non un’elaborazione di un giornalista senza comprendonio, che narra di cronaca con lo scopo di “fare notizia”, ma la pura e semplice verità, nuda e cruda.
Ho sempre lavorato nella falegnameria di mio padre, in via Cologna. Si può dire che sono cresciuto lì, tra legnami e tavolame. Il legno faceva parte della mia vita e la resina aveva impregnato anche la mia pelle.
Alla sera, quando la sega aveva terminato il suo continuo movimento alternato restando silenziosa, e l’acqua era stata deviata per la gora di scarico, e le ultime tavole erano state riposte sui castelli, controllate a livella e separate tra loro da listelli di giusto spessore, mi fermavo a pulire i macchinari dalla segatura, a scopare il pavimento, a controllare che tutti gli attrezzi fossero al loro posto. Infine chiudevo i portoni con la grande chiave e la consegnavo a mio padre.
Al mattino ero sempre il primo. Non parlavo molto, ma del resto un lavoro così non necessitava di molte argomentazioni.
Questo autunno, mentre lavoravo come di consueto a scegliere i tronchi per la sega, mi sentii fissare in modo intenso. Mi girai e, oltre alla vetrina della falegnameria, la vidi.
Vidi Lei. Vidi i suoi occhi, puntati dritti su di me.
Erano occhi più profondi di un cielo notturno, luminosi più del sole sulla neve, umidi come quelli di una giovane cerva.
Rimasi immobile, sentivo le gambe molli e le braccia paralizzate. Provai a concentrarmi sul lavoro, ma sentivo ancora quegli occhi addosso.
Quando, per un attimo, decisi di guardarla una seconda volta, vidi che era bella, molto bella. Il suo corpo era snello e diritto, il petto ostentato, i capelli neri lunghi sulle spalle. E quegli occhi, laghi profondi, dai riflessi di un verde assenzio, sembravano sondarmi l’anima.
Lei mi sorrise e iniziò ad allontanarsi lungo la via.
Con un impulso di nervi, la raggiunsi all’esterno. Non ricordo cosa le gridai, ma lei si girò e mi si fece vicino. Allora, quasi tremando dall’emozione, mi presentai, scoprendo il suo nome:
Ambra.
Non ricordo cosa ci dicemmo di preciso. So solo che, mentre ci parlavamo, quei suoi occhi non si staccavano dai miei; sembravano divorarmi l’anima.
Quando se ne andò, mi promise che ci saremmo visti l’indomani.
Allora mi sentii in modo strano, come mai m’era successo: era intorpidito. I miei sensi si erano come annebbiati.
Quel pomeriggio lavorai male, vittima di una pesante spossatezza. Mi fermai solo per fumare una sigaretta, ma nemmeno questa mi andava, e subito la spensi. Riflettevo, ma non sapevo nemmeno io su che cosa: forse, sul mio malessere, su quegli occhi che mi ritornavano davanti e mi toglievano ogni volontà.
A notte fonda, ritornai a casa solo per scoprire di non avere sonno. Ricordo di essermi girato e rigirato nel letto. Ancora quegli occhi, ancora quella figura.
Mi addormentai appena verso l’alba, sognando di lei che mi incitava a fare sesso. Mi svegliai con la testa confusa, come sotto ai postumi di una sbornia enorme.
Uscii allora per camminare attorno la falegnameria, sperando di incontrarla, di rivedere quei suoi occhi e magari di trovarli diversi. Perché, certamente, quegli occhi esistevano solo nella mia fantasia.
Ma non la incrociai.
Passavano le ore, mentre cercavo di focalizzarmi sul lavoro. Ed ecco di nuovo la sensazione di essere osservato. E, quando mi girai, ecco quei suoi occhi che mi fissavano da oltre la vetrina. Era tornata, come aveva promesso il giorno prima.
La raggiunsi all’esterno. Disse che doveva recarsi in città per fare delle commissioni e mi offrii ad accompagnarla per un tratto di strada.
Era una studentessa di lingue moderne, giunta a Trieste da Milano. Mentre mi raccontava i particolari della sua esperienza triestina, io mi inebriavo al suono della sua voce. E quegli occhi, quando li incrociavo, mi facevano venire un tremito all’anima. Mentre avanzavamo, sentivo una piacevole sensazione di calore avvolgermi tutto; era come entrare in un’altra dimensione.
E quegli occhi, li portavo dentro di me anche quando calava la sera, anche quando il giorno sfumava nella notte, e li vedevo lì, fissi nei miei, come tizzoni ardenti. Non mi davano tregua, mi seguivano in ogni secondo della giornata, e mi toglievano il sonno.
Il giorno seguente, mio padre si buscò un forte raffreddore, con qualche linea di febbre, e decise di prendersi una giornata di riposo. Perciò mi ritrovai solo nella falegnameria.
Quando apparve Lei, a metà mattinata, la invitai a entrare.
Ricordo che parlammo un pò, del più e del meno, mentre affondavo nell’intensità del suo sguardo. Poi, non riuscii più a resistere. Le parlai della mia ossessione per quei suoi occhi incredibili, le accennai alle emozioni che mi si contorcevano nel petto e nello stomaco ogni volta che la vedevo e che le parlavo.
Lei si scostò, come stupita da questa cosa, e poi si mise a ridere. La sua risata proruppe cristallina, come un torrente di montagna, ed echeggiò tra le pareti della falegnameria.
Non mi ero mai sentito così umiliato in vita mia. Credevo di essere arrivato a un passo dal paradiso, con tutte quelle emozioni che mi saltavano dentro, e invece crollavo senza salvezza nell’inferno più profondo.
Era una strega. Una dannata strega giunta da chissà dove a condannare la mia anima.
E mentre lei continuava a ridere, una tenebra fitta e densa calava dentro di me. Così, d’impeto, afferrai un cacciavite e le fui addosso. La travolsi, cogliendola di sorpresa.
Lei cercò di urlare, ma le tappai la bocca con una mano. Con l’altra, spinsi la punta del cacciavite nel suo occhio destro. Il fiotto di sangue mi imbrattò il volto, ma non me ne curai. Anzi, rigirai la punta finché le strappai il bulbo e lo lasciai rotolare sul pavimento. Il suo corpo si agitava e fremeva sotto il mio. Ma non mi arresi. Le strappai anche l’altro occhio, con foga, lanciando un grido sovrumano. E quando il suo corpo smise di muoversi e le braccia crollarono lungo i fianchi, mi ritirai in disparte. Una strana quiete si impossessò di me. Era come se la mia anima si fosse staccata dal mio corpo e potevo vedere la scena dall’alto verso il basso, in pace, senza provare il minimo sentimento.
Ricordo di aver pulito il sangue dal pavimento con dell’acqua; poi ricordo di aver avvolto il corpo in un grande sacco nero, dove inserii anche quegli occhi magnetici. Misi il cadavere nel retrobottega, finché non fece buio. Poi, col favore delle tenebre, me lo caricai in spalla e lo gettai in un cassonetto dell’immondizia. La mattina seguente, sarebbe stato tritato dal camion dei netturbini.
Ricordo di aver letto il giornale locale, il giorno successivo, e non si faceva nessun riferimento a un corpo di ragazza trovato in un cassonetto.
Ma il mio incubo era solo all’inizio.
Quegli occhi mi perseguitavano, continuando a privarmi del sonno. E tutt’ora, mentre scrivo questo resoconto, li vedo, oh, li vedo ancora!
È come se si fossero impressi nelle mie stesse pupille! Forse, sono un monito, per tutto ciò che ho fatto. Non so dare una spiegazione logica o scientifica a tutto questo! Ma non vedo altro che i suoi occhi, sovraimpressi a ogni cosa!
E se continuo così, a vederli e rivederli, la vita intera diventa una tortura insostenibile e, presto, perderò ogni lume di ragione che mi rimane.
Devo trovare un rimedio, devo porre fine a questa sua maledizione! Dannata strega, dannato me! Forse… forse, sì, ho trovato una soluzione, proprio adesso, con quei suoi occhi fissi nei miei, mentre stendo queste righe; ho avuto un’illuminazione, forse ho trovato l’unico modo per salvare la mia anima!
Poco mi importa come mi chiameranno, che etichetta mi metteranno addosso, questa è la mia vicenda, ed è tutto dannatamente vero.

Fausto Furian terminò di leggere e lasciò cadere i fogli sulla scrivania. Solo allora si accorse che le sue mani stavano tremando.
Ricordò della segnalazione di scomparsa di una ragazza, una studentessa, emersa sul giornale locale qualche settimana prima. Gli ultimi spostamenti della giovane risalivano proprio a Trieste e la procura di Milano e quella triestina stavano cercando di collaborare al caso.
Per l’idraulico fu tutto chiaro, limpido. Si allontanò dalla scrivania. Posò la schiena contro la parete e si lasciò scivolare fino al pavimento.
Non riusciva a pensare a nulla.
Nel frattempo, anche il secondo vigile del fuoco aveva lasciato la stanza. E da fuori le finestre, ovattato, giunse lo strillo acuto di una sirena della polizia.
Furian si riebbe. Si alzò piano da terra e prese una boccata d’aria.
Decise di attendere lì l’arrivo degli agenti, per indicare loro i fogli che fungevano da testimonianza dell’assassino.
Con la mente ancora sconvolta, non pensò a nulla. E solo quando avvertì gli agenti entrare in corridoio, si mosse. Un passo solo, verso la loro direzione. Non avrebbe detto nulla. Si sarebbe limitato a indicare loro quei dannati fogli e se ne sarebbe andato.
Forse, nei giorni successivi, si sarebbe rigettato nel lavoro, in modo da allontanare quanto prima tutto l’orrore vissuto in quei momenti. Sì, si disse, avrebbe fatto così.

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