Giovedì 15 giugno abbiamo fatto una chiacchierata con lo scrittore Pino Roveredo in occasione della presentazione del suo nuovo libro Tira la bomba.
Pino Roveredo è nato a Trieste nel 1954. Nella sua vita ha scritto racconti, romanzi e vari testi teatrali. Con il romanzo Mandami a dire ha vinto il premio Campiello nel 2005.
Nelle sue opere si è sempre occupato degli esclusi, degli emarginati, dei dimenticati , dei tossicodipendenti, dei malati psichiatrici e dei detenuti. Ha sempre raccontato le loro storie in maniera discreta ma incisiva, per dar loro presenza, voce, forza e dignità. La sua scrittura diretta, semplice, viva, di una sensibilità profonda e schietta senza preamboli che a volte spiazza ma non fa mai male, anzi ti consola ti libera e ti fa sentire più compreso. La sua profonda umanità, dovuta anche a situazioni molto difficili vissute nella sua infanzia e giovinezza si percepisce non solo dalle righe delle sue storie ma pure ascoltando i suoi racconti a voce. Pino Roveredo è infatti anche un gran oratore carismatico che esprime tanta umanità e vicinanza condita da un’ironia rassicurante. La sua ironia a volte potrebbe però sembrare leggermente fastidiosa, quasi come quella pungente di un ragazzo di periferia che non è cresciuto mai del tutto e si gioca di te per divertirsi un po’, o forse soprattutto per tirarti in ballo e farti pensare a temi scomodi che spesso cerchi di evitare per pigrizia o superficialità.
Tira la bomba, perché questo titolo? Ci sono forse riferimenti all’attualità?
La scelta è riferita esclusivamente al contenuto del libro che parla del ritrovamento di un ordigno bellico inesploso nella collina dell’ ex Italsider a Trieste, da tre ragazzi che giocano assieme. I ragazzi Giuliano, Stefano e Mirko sono originari del rione di San Servolo.
Cos’è la bomba, cosa rappresenta anche a livello simbolico?
La bomba diventa un loro segreto che negli anni li proteggerà dalle intemperie della vita e li unirà. Con il tempo assume quasi le sembianze di un oggetto magico che nel corso delle loro vite darà loro energia, sicurezza e protezione.
Nel libro si racconta della generazione che è nata dopo la seconda guerra mondiale?
I tre hanno dei caratteri diversi, uno di loro è idealista e comunista, mille logiche, dignità, voglia di combattere ma questo idealismo poi alla fine lo tradirà, e ciò è riferito alla generazione dei sessantottini che si sono traditi, facendo poi vite totalmente diverse da ciò che avevano idealmente sognato e ciò per il quale combattevano da giovani.
Cosa sognavano Giuliano, Stefano e Mirko quando erano ragazzi?
I tre uomini hanno voglia di rivalsa, tutti e tre provengono da famiglie umili, con vite molto semplici ed infanzie dure e difficili. Il loro tentativo di rivincita però non andrà a buon fine e la loro amicizia servirà anche a proteggerli dai fallimenti delle loro vite, di questo si accorgeranno quando ne rimane uno solo e lì il dubbio – chissà se sia stata o meno vera amicizia oppure solo un’abitudine, un modo per stare insieme esclusivamente per sentirsi meno soli.
Il tema principale del libro è l’amicizia oppure forse l’illusione di essa?
Voglio raccontare quanto è diversa e sacra l’amicizia con la A maiuscola, dalla conoscenza e abitudine di frequentarsi.
Questo libro è anche autobiografico?
Lo è in parte. Anch’io come i personaggi ho vissuto in un rione di Trieste, un’infanzia umile e difficile e i miei amici di allora avevano peculiarità che si possono ritrovare in questi ruoli.
Riguardo a Trieste ed ai suoi rioni, questo libro racconta anche un po’ la storia della città dei suoi ultimi 50 anni?
La storia locale appare in maniera sfumata, c’è una passeggiata a Trieste, dove racconto il mio amore per la città, mostrando dei particolari di cui un abitante non si accorge più per abitudine. Racconto alcune zone e le sue vie, descrivendo anche il rione, forse oggi giorno un po’ dimenticato, lasciato quasi diventare periferia abbandonata, mentre una volta i rioni erano l’anima pulsante di Trieste.
Come vede adesso il suo rione di nascita San Giacomo? Lo vede cambiato in cosa?
San Giacomo era il rione dei lavoratori e degli operai ma oggi si è perso l’animo di queste persone, ciò succede anche a Servola ad esempio, una volta le persone non chiudevano le case a chiave, le famiglie erano più unite c’era molta solidarietà e senso di comunanza, oggi invece questi sentimenti sono stati sostituiti dalla diffidenza e dalle paure. Inoltre un tempo si citava con orgoglio il proprio rione come per un certo senso forte di appartenenza che ora non noto più.
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