«Solo quando ci siamo perduti, in altre parole, solo quando abbiamo perduto il mondo, cominciamo a trovare noi stessi, e a capire dove siamo, e l’infinita ampiezza delle nostre relazioni». Questa citazione proviene da un libro particolare, scritto da un autore sconosciuto ai più. Walden, ovvero Vita nei boschi è il resoconto dei due anni, due mesi e due giorni che Henry David Thoreau passò sulle sponde del lago di Walden, nel Massachusetts, tra il 1845 e il 1847. Perché lo fece? Perché trascorrere volontariamente due anni della propria vita in condizioni di povertà? Perché lasciare una casa per abitare una capanna, abbandonare la sicurezza della civiltà in favore dei selvaggi pericoli della natura? In società egli aveva una vita tutto sommato agiata: non era nato in una famiglia ricca, ma ebbe la possibilità di studiare e laurearsi da Harvard, in un’epoca dove la laurea non era di certo un semplice pezzo di carta, come si sente dire oggi. «Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici».
Non è passato poi tanto tempo da allora, eppure per noi occidentali del XXI secolo queste parole sono difficilmente comprensibili. Più di qualcuno le leggerà perplesso, se non addirittura con quella supponenza che solitamente si riserva ai perditempo che non hanno di meglio da fare che blaterare discorsi insensati sulla vita, che si perdono in inutili pipponi filosofici. Se vi riconoscete in questa posizione, fatevi un favore: smettete di leggere. Il resto dell’articolo probabilmente non vi piacerà. Andate a fare altro. Il vostro tempo è denaro, andate a farne un uso migliore. Se invece riuscite a provare perlomeno un minimo di curiosità per queste parole, se ritenete che tutto ciò possa avere un senso profondo, se pensate che il tempo abbia un valore ben maggiore, mettetevi comodi: questo è solo il preludio di una vicenda altrettanto affascinante, ma più vicina a noi.
Facciamo un salto di più di 150 anni e spostiamoci di circa 6500 chilometri a est. Trieste, 2016. Esce un libro – anche questo – particolare, scritto da un autore – non me ne voglia – sconosciuto ai più: Viandanza di Luigi Nacci è un romanzo che, se siete nella giusta disposizione d’animo, divorerete in poche ore. Per la maggior parte del libro l’autore racconta il nostro cammino verso Santiago prima e verso Roma poi. Il nostro, esatto. Di noi pavidi lettori che ci affidiamo alla penna di questi scrittori per vivere emozioni e avventure che altrimenti probabilmente non potremmo nemmeno immaginare. Viandanza vuole essere in qualche modo un libro ‘iniziatico’, ma non per questo essoterico, esclusivo, riservato ai pochi: la viandanza e il cammino, infatti, ci appartengono, fanno parte del nostro essere umani, solo che la quotidianità nella quale siamo inseriti, fatta di impegni e scadenze, ci ha fatto dimenticare questa nostra intima natura.
Immergendovi nelle pagine vi ritroverete sporchi, stanchi, affamati, stremati fisicamente e mentalmente dai chilometri lasciati dietro di voi. Stravolti, confusi, mutati dalle notti passate così lontano da casa vostra. Eppure non sarà strada fatta per niente. Non vi sarete semplicemente imbattuti in un percorso fatto di terra, asfalto e sudore. Ciò che l’autore vuole comunicare è una mutazione molto più profonda, una riscoperta di questo lato che avete – abbiamo – lasciato sopito per così tanto tempo. Quello di Luigi Nacci è un invito a riscoprire questo lato di noi, a rimetterci in gioco: «Oggi noi viviamo in emergenza, intrappolati in paure di ogni sorta: salute, lavoro, casa, denaro, immigrazione, sicurezza. Sono quelle paure che hanno spinto e spingeranno te, me, e milioni come noi, a metterci in cammino. Sulla strada non abbiamo mai avuto paura. Ne abbiamo avuta prima di partire e una volta tornati alla vita ordinaria».
Luigi Nacci si definisce un viandante. Queste esperienze lo hanno portato a diventare, tra le altre cose, una guida escursionistica, nonostante il suo background sia di tipo letterario. E’ però riuscito a unire queste due passioni così diverse – raccontando i suoi viaggi e raccontandosi nei viaggi – scrivendo due libri: Alzati e cammina e, appunto, Viandanza. Ho avuto il piacere di intervistarlo qualche giorno prima della Marcia degli Zaini, che si è tenuta il 21 dicembre. Ne ho approfittato per fargli qualche domanda riguardo la viandanza e la vita che comporta. Credo valga la pena leggere l’intervista che ne è venuta fuori, se non altro per provare a rimettere in gioco alcune convinzioni che abbiamo, per criticare alcuni pregiudizi che ci condizionano, per fornirci una nuova prospettiva dalla quale guardare la vita. E, se ne avremo il coraggio e quel pizzico di incoscienza, partire.
‘Viandanza’ è il titolo del tuo ultimo libro, ma indica un concetto ben preciso. Come lo descriveresti?
Io mi sono sempre occupato di letteratura e poesia. Quando ho fatto per la prima volta l’esperienza del cammino ho capito fisicamente un sacco di cose che per anni avevo solo visto passare astrattamente per la testa: quell’idea di ritmo, il passo che fonda la poesia – li ho ritrovati fisicamente. Ti pare di poter trasformare materialmente concetti che precedentemente avevi solo studiato. All’inizio di Viandanza cito Bloch, che ne Il Principio Speranza dice che «i sogni vogliono migrare». Ecco, è come se avessimo seppellito i sogni dietro la parola desiderio. Bloch parla del sogno ad occhi aperti, dei sognatori diurni – visto che il Novecento è stato il secolo dei sognatori notturni. Riportare alla ribalta il sognatore diurno vuol dire renderci conto che noi possiamo trasformare la società solamente se facciamo sogni ad occhi aperti. E quando sei in cammino, tu sogni continuamente ad occhi aperti: hai idee, intuizioni… Ti senti realizzato anche nella tua precarietà.
Facciamo un salto indietro nel tempo. Quando hai capito che questa era la vita che faceva per te, che ti stava stretta una vita ‘normale’?
A Trieste siamo fortunati, abbiamo il mare e le montagne nel giro di qualche chilometro. Per cui l’abitudine di fare delle camminate c’è un po in tutti. Però una cosa è fare una camminata, un’altra è fare un cammino. La prima esperienza che ho avuto è stata più di dieci anni fa, col cammino di Santiago, che ho fatto in uno spirito laico. Lì ho capito che quel tipo di esperienza è il viaggio di formazione, in cui tutto si ribaltava, in cui arrivavi a mettere in discussione tutte le consuetudini della tua vita, nei rapporti di lavoro, di amicizia, di amore, nell’idea che ti eri fatto di te, nell’idea che ti eri fatto di certe parole: successo, riconoscibilità, obbiettivo. E come tante altre persone anche io sono stato risucchiato da questo: per molti anni ho fatto tanti di questi cammini lunghi, perché è nel cammino lungo che avvengono le trasformazioni. Fare il cammino di una giornata è stupendo, ma non c’è tempo: abbiamo bisogno di tempo, perché ci sono delle mutazioni fisiche, psicologiche, umorali, di ricordi che affiorano. Sono stato risucchiato e pian piano questa cosa è diventata un elemento fondamentale della mia vita, tanto da diventare guida ambientale.
Cosa cambia dopo che hai provato un’esperienza di questo tipo?
Noi siamo in parte nomadi e in parte stanziali, e questo è fissato nel DNA. Credo che noi abbiamo dimenticato la nostra parte nomade, per cui non siamo diventati solo stanziali, ma iperstanziali, come iperconsumisti – viviamo sempre nell’ipermercato. Per cui siamo chiusi, fissi in dei luoghi, in degli spazi chiusi in continuazione, dalla casa – che è da comprare a tutti i costi, come se questo fosse l’obbiettivo di una vita – al fatto che ci spostiamo con la macchina in ufficio e così via: siamo chiusi, siamo fermi, se facciamo attività fisica andiamo in palestra – ma solo per curare l’aspetto fisico. Invece quando sei in cammino, una delle sensazioni più forti, che quasi ti danno un piacere adrenalinico è quello dell’aria aperta. Quello che fa più male alle persone quando tornano a casa da un’esperienza di cammino è che i primi giorni devono uscire a tutti i costi, perché ti torna la tua memoria di pastore, di nomade, che stava dentro di te, sopita, e tu l’hai tirata fuori. Non possiamo più stare al chiuso, dobbiamo stare all’aria aperta. Quando cominciamo a stare all’aria aperta per giorni e settimane, tutti i giorni in cammino sotto il cielo, ci rendiamo conto che noi all’aria aperta miglioriamo come esseri umani: diveniamo più forti e allo stesso tempo più deboli, sensibili. E questa è una rivoluzione, e per questo credo che chi fa un’esperienza del genere non potrà mai vietare di poter stare sulla strada, perché si ricorda la gioia che ha provato all’aria aperta, perché vorrebbe uno spazio dove stare all’aria aperta liberamente. Per me il cammino è stato un’esperienza forte, ma per anni non ho scritto niente di sostanzioso, fino a quando negli ultimi anni ho pubblicato questi due libri, Alzati e cammina e Viandanza, cercando di fare il punto su tutto quel che mi è sembrato di intuire in questi anni.
Che sentimenti hai provato prima di partire per la prima volta? E adesso, dopo anni di esperienza, sono mutati?
La prima volta prima di partire per un cammino lungo, avevo paura, terrore: non sapevo dove mi stessi cacciando, non sapevo nemmeno perché lo stessi facendo, che senso avesse perdere settimane, un mese di tempo – per far cosa poi? Che senso aveva, che finalità aveva, cosa produceva? Ecco, una delle cose più importanti del cammino è che non ha nessun fine, non produce niente: e per questo, come diceva Thoreau, ha a che fare con il beneficio: tu non stai producendo niente, ma questa cosa ti fa del bene e quindi non si può valutare, non ha a che fare con i soldi, con lo scambio. Quella paura incredibile non è mai andata via: prima di ogni cammino importante, in cui sai che sarai via per un certo tempo, quella paura rimane uguale, perché ogni volta è un salto nel buio, al di là che tu sappia leggere le mappe, che tu abbia l’attrezzatura buona o che tu sia allenato. Può succedere qualsiasi cosa, quando sei alla mercé di tutto. E’ proprio il contrario del viaggio che si fa normalmente, dove tutto è organizzato e pianificato – proprio come la vita quotidiana, dove abbiamo l’agenda con tutti gli impegni e le cose da fare. Nel cammino non c’è l’agenda, il salto è nel buio: so da dove partirò, ma non so se arriverò, perché mi potrebbe succedere di tutto: di farmi male, di incontrare un malintenzionato, di dover dormire all’aperto, di dover incontrare animali selvatici, potrei non avere più soldi, potrei ammalarmi, potrei perdermi, o non aver più desiderio di tornare indietro. E’ un po’ il viaggio come una volta, è sempre stato così il viaggio. Tutte le grandi epopee, narrazioni, ci parlano del viaggio dell’eroe, che fa una serie di prove per tornare a casa con l’elisir – che altro non sarebbe che il cambiamento. E guardiamo in continuazione film holliwoodiani che sono scritti ricalcando questo viaggio di formazione e noi quando facciamo quell’esperienza lì, senza essere degli eroi, ci mettiamo dentro quel tipo di viaggio, senza sicurezze. A me pare una delle cose più forti del postmoderno, la rinascita dell’esperienza del cammino, mi pare una cosa dalla forza antropologica, sociale, politica, poetica fortissima, ed è la ragione per cui tantissima gente si mette in cammino in questi anni. E la maggior parte delle persone che fa un’esperienza di questo tipo è perché è in un’epoca di cambiamento della propria vita, perché sa che la propria vita non sta andando sulla strada che aveva immaginato.
Il tema del viaggio, inteso come metafora della ricerca di sè o della scoperta della vita, è un classico nella nostra cultura, basti pensare all’Odissea. Cosa vai cercando? Cosa hai trovato?
Quello che trovo sulla strada è una parte buona di me, una parte curiosa, aperta, disponibile al rischio, all’evento (che già di per se è inaspettato), al non costituito. Trovo anche la parte di me che non è per niente interessata ai riti sociali, al conformismo, e soprattutto la parte di me che è lontanissima dal potere, perché il viandante non è interessato al potere, perché sa che non si può possedere nulla: tutto quello che ha è in uno zaino, e non vale nulla. Sa che non contano e di conseguenza non ha paura di questo.
Dunque come si pone il viandante rispetto la società?
Mi rendo conto sia un problema. Il viandante è molto pericoloso. C’è un bel libro di Rebecca Solnit, Storia del camminare, che si apre proprio con un’introduzione sulla strada come chiave della democrazia. Ma a noi basta pensare che tutta una serie di stravolgimenti sociali e politici sono avvenuti a partire da delle marce, da un atto naturale. Il viandante non ha potere, e siccome non ha potere non lo puoi ricattare e quindi è pericoloso, perché non è controllabile. Aumentare il numero di viandanti vuol dire aumentare il numero di persone libere: in questo senso il cammino può essere rivoluzionario, sia singolarmente che collettivamente.
Qual è l’esperienza più significativa dell’essere in viaggio?
La frugalità, il non aver bisogno di niente, il dividere quello che hai. Quando sei in cammino e hai una mela, e incontri qualcun altro che cammina, quella mela lì, che ce l’abbia tu o ce l’abbia l’altro viandante, la dividete sicuramente. Non c’è bisogno che qualcuno ci pensi, il primo atto è tirare fuori la mela e dividerla. Così uguale è essere accolti: a me è sempre capitato di essere accolto, di trovare un aiuto quando ne avevo bisogno. In cammino i gesti più umani avvengono in maniera naturale: quando sei con uno zaino e hai sete, quasi sempre ti fanno entrare nei giardini delle case per darti dell’acqua, o addirittura ti fanno entrare in casa per mangiare. Ovviamente c’è anche chi ti guarda storto, che pensa che tu sia un poveraccio, un deviante, pericoloso, malvivente, però in generale questo non avviene. Soprattutto con le persone anziane, queste inizialmente sono un po’ diffidenti, ma poi si ricordano della povertà che hanno avuto nella giovinezza, di quanto sono stati sulla strada, di quanto hanno camminato per spostarsi. Si ricordano tutto. Per cui il viandante anche attiva delle memorie.
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