La famiglia Bacchia nel 2011
9 Dicembre 2016

“L’Italia e il cibo nella mia testa” – intervista a Paola Bacchia

el sunto In un'appassionante intervista la food blogger Paola Bacchia racconta le sue origini italiane e di com'è nato l'amore per la cucina

Circa un anno fa mi sono imbattuto nel profilo Instagram Italy On My Mind” di Paola Bacchia, food blogger australiana di origini italiane e insegnante di cucina. Seguita da quasi 30,000 follower  e autrice del libro “Italian Street Food”, Paola è una piccola star della cucina e dei social network.

italyonmymind

da https://www.instagram.com/italyonmymind/

Tuttavia, in un’epoca in cui tutti, ma proprio tutti, pubblicano foto di cibo sui social, nel suo profilo ho visto qualcosa di diverso, che ha subito attirato la mia attenzione: il cuore. L’Instagram di Paola non è infatti la solita compilation fotografica di piatti elaborati e di ristoranti eleganti da stelle Michelin; il suo profilo è uno spazio dove lei, attraverso il cibo, racconta personali aneddoti famigliari, ma anche le storie che ha ascoltato e raccolto nei suoi molteplici viaggi in lungo e in largo per l’Italia e i suoi confini.

In “Italy On My Mind” è possibile imbattersi in foto con soggetti molto variegati, dalla mamma di Paola intenta a preparare la marmellata nella sua casa australiana, al mercato ortofrutticolo di Pola, un luogo – spiega la blogger – spesso frequentato dal suo padre istriano prima di emigrare in Australia.

Mamma prepping plums for jam a few days ago. Link to recipe in profile

Una foto pubblicata da Paola Bacchia (@italyonmymind) in data:

A dir la verità, ciò che mi aveva inizialmente incuriosito di Paola erano soprattutto le sue origini famigliari. I suoi genitori provenivano non, come ci si potrebbe immaginare, dal Meridione, ma nientepopodimeno che da Monfalcone. Spulciando nel profilo “Italy On My Mind” mi sono spesso domandato che cosa Paola sapesse di Trieste, della sua storia e della sua cucina e che opinione avesse della città. Volevo capire se Paola avesse, come diversi figli e nipoti di emigrati italiani nati e vissuti all’estero, una visione stereotipata di Trieste e dell’Italia soprattutto in ambito culinario. Che cosa era Trieste per Paola? Un luogo da “Pizza, pasta e mandolino” con piatti identici a quelli che si possono trovare a Napoli, a Bologna o a Milano? O un luogo dove si possono provare piatti molto diversi tra loro come le sardele in savor, la jota e lo strucolo de pomi?

Mi sono quindi deciso a contattare Paola pochi giorni fa, per quella che poi si è rivelata un’interessante e appassionante intervista su Skype. Qui di seguito la prima parte.

Ciao Paola, la cosa che mi ha colpito di te fin da subito è il fatto che i tuoi genitori, correggimi se sbaglio, sono originari di Monfalcone. Quando eri piccola in Australia che cosa ti raccontavano di questi luoghi?

Mia madre e mio padre si sono conosciuti subito dopo la Seconda Guerra Mondiale a Monfalcone. In realtà tutti e due provenivano da altre zone. Mia mamma era nata in un piccolo paese vicino a Treviso. I suoi genitori si erano trasferiti a Monfalcone perché avevano preso in gestione diversi bar. Mia madre dovette lasciare la scuola subito dopo le elementari per lavorare in uno dei bar della famiglia. Mio padre, invece, proveniva da Pola e si era trasferito a Monfalcone per scappare dalla guerra e dal regime jugoslavo che si era instaurato in Istria.

Si trasferirono in Australia nel 1950 grazie allo Sponsored Immigration Program promosso dal governo australiano per i cittadini europei. La cosa divertente è che una delle credenziali richieste per essere accolti in questo paese era quella di essere alti, sani e di robusta costituzione. Il trasferimento via nave fu a carico del governo australiano. In cambio ai miei genitori venne richiesto di lavorare per lo Stato per due anni. In quel periodo vissero in dei centri di raccolta per emigrati come il Bonegilla migrant camp. In questi centri passarono migliaia di emigrati dagli anni Cinquanta in poi.

Mio padre mi parlava spesso di Pola, la sua città natale, che a quel tempo era parte del Regno d’Italia. Mi ricordo che portava sempre con sé le foto dell’arena di Pola. Era molto nostalgico. Inoltre mi parlava dei miei nonni che erano rimasti in Istria. Mia nonna era di Klagenfurt e mio nonno, che lavorava all’ufficio postale di Pola, proveniva dal paese di Chersano nell’entroterra istriano. Mio padre è quindi cresciuto parlando sia l’italiano sia il tedesco.

Inoltre, quando ero piccola, i miei genitori spesso mi dicevano che ero molto fortunata a essere nata e cresciuta in Australia piuttosto che in Italia dove, dagli anni Sessanta in poi, la tensione politica e sociale era alle stelle. Ricordo le immagini e i racconti sulle Brigate Rosse che terrorizzavano l’Italia a quel tempo. Ciononostante, a mio padre mancavano spesso Pola, i suoi amici e il cibo della sua zona. Soprattutto la questione del cibo era un vero problema per i miei genitori, ma anche per tanti italiani che vivevano all’interno del campo di Bonegilla. Nell’Australia degli anni Cinquanta per esempio l’unico caffè che potevi trovare era una specie di sciroppo e l’olio di oliva era reperibile soltanto dal farmacista perché a quel tempo gli australiani lo usavano come medicina. Oltre a ciò, il cibo servito dalle cucine del campo per gli emigrati di Bonegilla era davvero pessimo. Addirittura nel 1953 scoppiò una rivolta nel campo chiamata “The Spaghetti Wars” messa in atto dagli emigrati italiani come protesta verso la qualità scadente del cibo. Venne chiamata la polizia per sedare la rivolta e come conseguenza, direi positiva, alcuni emigrati europei, soprattutto italiani, si sostituirono ai cuochi inglesi del campo. Il cibo da quel momento migliorò notevolmente.

Secondo te ci sono delle similitudini o delle differenze tra gli emigrati di ieri e di quelli di oggi?

Ci sono sia delle somiglianze sia delle grandi differenze. Innanzitutto i miei genitori, come gli emigrati di oggi, scappavano dalla miseria, dalla guerra e dai conflitti. Poi, in egual misura ad oggi, anche gli italiani a quel tempo erano vittime di razzismo e pregiudizi da parte degli australiani. Tuttavia agli emigrati che arrivavano in Australia tra gli anni Cinquanta e Sessanta il governo offriva il vitto, l’alloggio e la cittadinanza in cambio di due anni di lavoro. Purtroppo, niente di tutto questo viene offerto agli emigrati di oggi e ciò dà la percezione che in nessun modo quest’ultimi contribuiscano al benessere della società. Questo comporta inoltre una difficoltà per l’emigrato di sentirsi valorizzato e rallenta così il suo inserimento nella società.

La famiglia Bacchia nel 2011

La famiglia Bacchia nel 2011

Nella mia esperienza personale ho notato come diversi amici stranieri, ma anche molti italiani, sono rimasti spiazzati arrivando a Trieste perché si sono trovati di fronte a una città per certi (e tanti) versi poco latina. Soprattutto la cucina triestina è il melting pot di diverse culture culinarie tra cui quella italiana, quella slava e quella tedesca. Quando sei venuta per la prima volta a Trieste che cosa ti aspettavi di mangiare? Hai trovato diversa la cucina di tua madre in Australia da quella dei ristoranti italiani?

Il cibo che ho mangiato la prima volta che ho visitato l’Italia, quando avevo cinque anni, era simile a quello che faceva mia mamma a casa in Australia. Come a Trieste anche a casa mia in Australia mangiavo la jota, le patate in tecia e i sardoni in savor. La cucina di mia mamma era la tipica cucina istriana a cui era abituato mio padre. Una cucina in cui erano immancabili il pesce, che mio padre adorava, e l’aglio.

Invece, i cevapcici, che mia madre non conosceva (e che arrivarono a Trieste soltanto dagli anni Settanta in poi, ndr), li ho scoperti quando avevo quindici anni ed ero in vacanza a Pola con mio zio, il quali era rimasto a vivere a Monfalcone nel Dopoguerra. Mio zio aveva degli amici italo-croati a Pola e una delle loro figlie, Ksenija, che è diventata poi mia amica, mi ha fatto conoscere la cucina di queste zone. Una cucina che considero, a mio parere, italiana – o meglio – di frontiera con piatti italiani e balcanici. Per esempio, il prosciutto crudo che ho mangiato in Istria non ha niente da invidiare a quello di San Daniele, ma anzi è altrettanto buono.

Per quanto riguarda un piatto, oggi tipicamente italiano, come la pizza non era un cibo che si mangiava a casa mia perché non era nel dna culinario di mia mamma. Nel 1950 non esistevano pizzerie a Monfalcone e dintorni. La prima volta che provarono la pizza i miei genitori erano a Bagnoli, un quartiere di Napoli, mentre aspettavano la nave che li avrebbe portati in Australia.

mamma

Mamma Bacchia prepara lo strudel di mele

Ripensando alla cucina di mia madre, è divertente notare come i miei genitori, quando si sono trasferiti in Australia, non abbiano accantonato le loro tradizioni, ma come molti altri emigrati italiani le abbiano gelosamente conservate. Ritengo che cucinare dei pasti tradizionali abbia aiutato molti emigrati a rimanere legati in qualche modo alla loro terra d’origine e ai loro ricordi passati.

La seconda parte dell’intervista sarà pubblicata lunedì 12 dicembre.

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