23 Dicembre 2014

Pitbull. Gli ultimi sul palco

el sunto Pitbull, spettacolo messo in scena dai detenuti dell’OPG di Reggio Emilia ha raccontato verità scomode. A un pubblico triestino piuttosto scarso.

Di Furio  Perini

Si apre il sipario, e noi cominciamo da Uno: una, sola parola, titolo dello spettacolo ma che proietta subito in un tema specifico: PITBULL.

Particolare qualità di razza canina, tristemente conosciuta nell’immaginario come aggressiva, da combattimento, violenta. Beh si certo… quando si viene allevati a catene e bastone, bastone e catene, deprivati di spazio perché rinchiusi, deprivati dei ritmi sonno-veglia perché tenuti al buio e quando si accende una luce è per guadagnare cibo e percosse, deprivati di limiti perché spinti al massimo in una unica direzione: sopravvivere quindi aggredire per non soccombere, spinti oltre, tramite stimolanti e droghe, con l’unico scopo di diventare “un fascio di muscoli e nervi pronto a scattare contro chicchessia”. Ecco, quando si cresce così è chiaro che qualsiasi essere vivente diventa bestia… “si esce di testa” perché crescere in questa condizione ti fa a pezzi, non puoi resistere, alla fine ti perdi e per forza diventi irriconoscibile… ti strappi il pelo dal corpo, ti scortichi contro le pareti come nel tentativo di darti un confine che in te non esiste più.

A creare tutto questo è l’uomo in un diabolico e lineare agire (purtroppo noto) per ottenere un unico risultato. E le difese crollano anche nella bestia più docile, perché il risultato con questi metodi è assicurato, far sprofondare nel buio più oscuro e puzzolente dove l’impotenza diventa rabbia e violenza.

Beh i Pitbull non nascono così… tanto è vero che esistono in Europa vari centri di rieducazione specializzati, che riescono nonostante le condizioni e le violenze vissute a riportare questi cani allo stato di esseri viventi, cani come tutti gli altri cani. Percorsi specializzati, dedicati a ricostruire i ritmi di vita normale, i limiti, la comunicazione, la fiducia, e ci si riesce! Incredibile vero? beh in Italia sì… in Italia non ne esistono di questi centri… solo canili, gabbie o soppressione. Come gestiamo questi casi è lo specchio di come gestiamo quello che ci fa paura e non conosciamo: escludiamo, allontaniamo, rinchiudiamo, non ce ne preoccupiamo perché lo riteniamo inutile, irrecuperabile, e così per ogni rinuncia che accettiamo, anche la nostra umanità si impoverisce pezzettino dopo pezzettino.

Ora passiamo invece a Sei: tante sono le voci di uomini che, come quelle di Pitbull, irrompono dal palco per colpire anima, cuore e testa. Narrazioni che non fanno dormire i bambini la notte e si spera neanche noi “grandi”, storie di vite (soprav)vissute. Storie di violenza, di sangue, di bastone e catene, di deprivazioni, di droghe, di deframmentazione, di istituzionalizzazione, di incomunicabilità, di malattia, di paura, di alienazione, storie di ultimi degli ultimi.

“25 anni trascorsi finora fra vari carceri, dal minorile in su” e varie incapacità gestionali degli apparati che non rispondono, anzi peggiorano e quasi infieriscono.
“40 le carceri in cui ho transitato”. in cui ogni volta ero sempre indesiderato e trattato peggio.
“da 80 kg a 45 kg” di peso corporeo a causa dell’inedia e medicinali.
“a 9 anni la prima dose di eroina.”

Non mi spingo oltre. Persone fragili, malate che raccontano le loro pesanti, grevi, plumbee storie… non oso farmene tramite, ma per farvi lontanamente immaginare pensate a quel Pitbull: ha avuto un vissuto terribile, eppure viene etichettato e visto non come sofferente bisognoso di cure, ma solo come responsabile di un crimine che finisce per pagare con altra violenza in ritorsione.

Questo racconta lo spettacolo messo in scena giovedì 18 dicembre ad offerta libera al Teatro Silvio Pellico da detenuti internati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia che da 15 anni grazie ad un laboratorio terapeutico (oggi l’ultimo rimasto all’interno della struttura) e l’instancabile lavoro della regista Monica Franzoni, che porta questo e altri spettacoli in giro per l’Italia. Lo spettacolo non è una classica opera di denuncia di una realtà manicomiale che non aiuta o cura ma contiene e abbandona, anzi! la realtà deformata dell’OPG passa in secondo piano rispetto alle emozioni scaturite dai racconti di terribili esistenze fin là vissute dai protagonisti, e proprio per questo acquisisce profonda bellezza, e gli attori riconquistano una dignità dimenticata. Lo spettacolo ha del meraviglioso, visto che non esistono spazi nel carcere per le prove, niente luci, musiche, scenografie, o oggetti… solo la propria capacità di ragionamento e di comunicazione riconquistata giorno dopo giorno con fatica, dai reclusi.

E per finire, una riflessione forte espressa proprio dai protagonisti: Fuori dall’OPG c’è un mondo difficile e sconosciuto che fa paura. Paura di non poterlo gestire, perché si sa, nella fragilità, basta un attimo per ricadere in errori che si son già vissuti. Per loro che non hanno addirittura, in alcuni casi, occasione nella quotidianità di anche solo parlare con altre persone, o peggio, che hanno vissuto imbottiti di psicofarmaci in un limbo incosciente, è per assurdo più sereno restare rinchiusi in gabbia, che essere messi fuori, gettati come stracci in qualche angolo di una cooperativa… senza percorsi di cura adeguati e personalizzati. E dire che ogni malato ha diritto ad una cura!

A questa serata il grande assente è stato un pubblico più numeroso, capace di abbattere pregiudizi e che potesse regalare soddisfazione a queste persone, riconoscendole, regalando loro un meritato applauso, regalando loro domande e riflessioni condivise… e invece questa volta la nostra città, spesso sensibile e attenta a questi temi aveva la testa interessata più ai regali di natale… ma d’altra parte questa volta purtroppo, sul palco c’erano davvero gli ultimi degli ultimi.

Furio Perini

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