Ho visto Antonio Albanese lunedì sera al Teatro Stabile Rossetti di Trieste. Ho visto uno spettacolo di denuncia. Non ho visto i personaggi divertenti create con maestria da uno dei comici più affermati d’Italia. Ho visto, anzi ho ascoltato, il desiderio di far ragionare gli spettatori su quello che accade nel nostro paese. Ho apprezzato Alex Drastico, Epifanio e Cetto La Qualunque. Tuttavia ho cercato di tenere alta l’attenzione sui testi. E se si ride tanto – obiettivo raggiunto – è perché per un attimo si vuol dimenticare il vuoto culturale che la classe dirigente di questo paese esprime.
Antonio Albanese ha gli occhi di un comico che come lui stesso afferma durante lo spettacolo, “prende in prestito i comportamenti della gente e li fa suoi”. C’è un po’ di tutto dentro lo show di quasi due ore. C’è la voglia di ribadire con forza, semmai ce ne fosse il bisogno, che la rappresentanza democratica è diventata un amaro surrogato piegato al target da raggiungere, nel peggiore dei casi, da imporre. Nei panni dell’analista delle funzioni integrate cerca di aprire gli occhi alle persone normali che in fondo figure dai titoli difficili da pronunciare non sono altro che la riproposizione soggettiva di uno schema ben preciso, volto all’incomprensione diabolicamente preparata.
Che poi si trasforma nel Ministro della Paura, profetico dipinto orwelliano, consapevole produttore di un potere sempre più funzionale al controllo, dove niente è libero, dove tutto risuona perfettamente in linea negli obiettivi a lungo termine. Esattamente la cornice spinata dentro alla quale chiunque ripone le proprie utopie, senza riconoscerne le fatalità, erroneamente spinti ad un suicidio intellettuale di massa.
C’è la mafia, dove il tutto viene ricondotto ad una strategia ben precisa di comando. Ci sono le paure di un piccolo uomo di mafia – sempre che si prendano per buoni aggettivi come piccolo e grande per parlare quantitativamente di crimine organizzato -, la morale cattolica che fuoriesce tardivamente a mettere il crimine di fronte ad una scelta. Spaziando nei dialetti, unisce il paese, ne riprende le diversità, ripetendo il rito risorgimentale, a guisa di un’unità immaginaria benché utile.
Trasferisce la paura della guerra, l’utilizzo delle mine, denuncia il paese che le produce – proprio noi, si – riportando a galla la performance de “La prima notte di nozze” di un Pupi Avati in uno dei suoi più bei lavori. Ho visto uno spettacolo di denuncia, si. Ho ascoltato gli applausi di un pubblico composto, desideroso di comici che sappiano ancora far divertire e che non mandino a quel paese tutto. C’è una comicità silenziosa, fatta con le armi del palcoscenico, dove tutto è possibile, e dove nascono le idee, nasce la critica dura, precisa, ad un sistema sempre più avvinghiato su sé stesso.
Antonio Albanese prova a sbrogliare la matassa. Facendo nient’altro che il suo lavoro. Ed alla fine, concedersi una risata consapevole, diventa anche terapeutico.
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