15 Luglio 2014

Guerra di note Note di guerra – La musica dimenticata 1914-15

el sunto Guerra di note, Note di guerra - La musica dimenticata 1914 1918 andrà in scena martedì 15 luglio alle 21 alla Stazione Ferroviaria di Campo Marzio

Nel 1970, in mezzo a polemiche e denunce per vilipendio, uscì il film “Uomini contro”, tratto dal libro di Emilio Lussu “Un anno sull’altipiano”, ambientato sul fronte di Asiago tra il 1916 e il 1917. Al termine della “prima”, lo scrittore e politico sardo si rivolse a Mario Rigoni Stern, che gli sedeva a fianco, e disse «Ma tu lo sai, in guerra noi abbiamo anche cantato».
In questo rilievo apparentemente poco significativo, è contenuto un elemento rilevante sotto il profilo sociologico e culturale nella vicenda della Grande guerra, cioè la presenza della musica.
E i canti costituiscono la struttura portante dello spettacolo Guerra di note Note di guerra- La musica dimenticata 1914 1918 che andrà in scena martedì 15 luglio alle 21 alla Stazione Ferroviaria di Campo Marzio, nell’ambito delle manifestazioni estive promosse dal Comune. Interpreti sono Marzia Postogna e Massimiliano Borghesi, e, al piano, Cristina Santin, che ha curato l’elaborazione musicale. L’accesso è libero ma è richiesto il ticket di ingresso al museo (5 euro, 3 i ridotti).
La prima raccolta di canti dei soldati italiani, fatta nel 1919 da Pietro Jahier, quello di “Con me e con gli alpini”, porta il motto: “Canta che ti passa”. La frase, oggi proverbiale, che fu rinvenuta graffita in una trincea, è sicuramente ironica, però contiene anche una buona dose di verità. Se non risparmiò le morti, non curò le mutilazioni e le ferite, la musica fu comunque compagna del soldato nella sofferenze della Grande guerra. Ne lenì il dolore, dando voce alla sua speranza e alla sua rabbia.
Ed ebbe anche, la musica, una fondamentale funzione ancillare nei confronti della propaganda bellica. Fu usata per elevare il morale dei combattenti, per rassicurare il fronte interno, per certificare la giustezza della causa, per rinfocolare l’ostilità contro nemici che non venivano percepiti come tali.
Le bande furono usate in primis per dare ai reparti uno spirito marziale. I soldati austriaci che dal Carso interno si avviavano a quel mattatoio che fu fronte tra Gorizia e il mare, erano sempre accompagnati dalle fanfare sul percorso San Pelagio-Precenico-Malchina-Ceroglie. Qui i suonatori si fermavano, mentre le unità proseguivano verso la prima linea. E, sul versante italiano, è rimasto famoso il concerto diretto a Toscanini sul Monte Santo.
Si librò anche, la musica, nelle note dei compositori che vennero toccati dalla tragedia del conflitto, piccoli e grandi nomi, come Schoenberg, o Ravel, la cui suite Les tombeau de Couperin venne dedicata agli amici caduti sul fronte, un movimento intitolato a ciascuno di loro.
Ma le composizioni “alte” non furono funzionali, né ebbero un rapporto diretto e a volte strumentale con l’evento bellico.
Furono i canti a sfogare da un lato gli umori dei paesi belligeranti, dall’altro a sostenere la propaganda.
Legata a questa nacque una piccola industria editoriale mirata, si manipolarono testualmente brani operistici per adeguarli al tema della guerra (Graziani-Walter pirateggiò l’“Aida”: “Nel Tirolo e nel Trentino accorrete itali eroi”), e si tradussero brani popolari per accompagnare i soldati nelle terre occupate (la contessina stiriana Maria Pace curò un Vaterländ Liederbuch con la versione tedesca di canti friulani, e viceversa).
Nell’agosto del 1914, immediatamente dopo la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia Franz Léhar, compose dei Lieder per i cavalleggeri in partenza per la Serbia.
«Dovrò cadere sulle rive del Danubio? / Morire in Polonia? / Che importa? / Prima che mi prendano l’anima / combatterò da cavaliere» recita Was leigt daran? “Che importa”. «Quando arriverà la morte con la falce / per falciarci? / Non fa niente! / Basta che le nostre bandiere /sventolino su Belgrado!».
Talvolta la pubblicità fu smaccata, e più industriale che militare: il già citato Graziani-Walter si impegnò presto in una marcia per i “valorosi mitraglieri Fiat”.
A cent’anni dal conflitto, la produzione musicale bellica 1914-18 è andata in massima parte dispersa, perché gli sconfitti non ebbero più voce, e perché, caduta la funzionalità contingente, caddero anche le canzoni, non sempre di grande qualità.
Fanno eccezione, in questo quadro, i canti degli alpini, melodicamente e testualmente piuttosto belli (alcuni proibiti all’epoca: riferire “siam partiti in ventinove, solo in sette siam tornati qua” era disfattismo se non sovversione).
Alcuni testi furono opportunamente ripuliti, come era capitato alla stessa Leggenda del Piave (con “l’onta” scomparsa e il “tradimento” diventato “fosco evento”). Venne epurata la strofa di Monte Canino che recitava: “E più di dieci ne ho visti cadere, e più di cento ne ho visti scappare. Là si sentiva, sentivano gridare: su su rendiamoci se siamo prigionier”. Lo stesso avvenne per “Prendi il fucile e buttalo giù per terra vogliam la pace e non vogliam la guerra” strofa ribellistica di Gran Dio del cielo.
In quanto a O Gorizia tu sei maledetta riaffiorò appena nel ’64, esattamente cinquant’anni fa, al Festival dei Due mondi di Spoleto, suscitando scandalo e facendo attivare la magistratura.
Ma vi furono canzoni cantate sui due fronti, appena con qualche parola di differenza: di Compiangete una povera madre ci sono una lezione austriaca e una italiana: «Non aveva compiuto i vent’anni, che in Galizia innocente morì» dice la prima, che finisce maledicendo «la guerra e i ministri». L’altra racconta che il figlio «sul Piave innocente morì», e addossa la colpa a «quei giovani studenti / che hanno studiato e la guerra voluto / hanno gettato l’Italia nel lutto / per cento anni dolor sentirà».
E i cent’anni appunto dalla guerra possono costituire l’occasione per rivisitare la musica dimenticata, e di confrontare il didascalismo bellicista con la storia aneddotica. Quei lontani frammenti di pretese apodissi e di contraddizioni, di enfasi retorica e di verità scaturite dal basso, possono aiutare la comprensione e la demitizzazione dell’“inutile strage” che nel 1914 colpì l’Europa, spalancando il nefasto vaso di Pandora del secolo breve.

Musica alta o di consumo, testi lirici o violenti, ma anche schegge di storia annidate nei brani popolari o popolareggianti. Guerra di note, note di guerra nasce come un percorso di ricerca tra conoscenza ed emozione. Lo dice Cristina Santin, pianista, arrangiatrice della quarantina di pezzi che – con alcune citazioni di autori locali e non (Svevo, Stuparich, Benco, Werfel, Roth…) – costituisce il repertorio base dello spettacolo.

C’è qualche novità di prospettiva che emerge da questi canti?

A Trieste è sempre stata evidenziata per lo più la visione patriottica italiana, ma nel 1914 vi fu anche altro.
Le esecuzioni sono in sette lingue, perché nel Litorale ne correvano molte, all’epoca. L’idea è quella di presentare vicende e ragioni degli uni che non furono necessariamente torti degli altri.
Molte delle musiche riscoperte si rivelano sorprendenti per bellezza; è il caso di Was leigt daran?, un lied di Léhar scritto nell’agosto del ’14 per incitare i cavalleggeri che muovono verso Belgrado. O, dello stesso operettista ungherese, Piave indulò, richiesto dal fratello Anton, ufficiale ungherese, per rincuorare gli honved, venne scritto in parallelo a La leggenda del Piave di E. A. Mario.

Altre curiosità?

I canti satirici in triestino contro Vittorio Emanuele III, ad esempio, perché l’arma del witz, in città, è sempre stata primaria; o le strofe popolari, sempre dialettali, sulle miserie quotidiane in guerra. Le melodie napoletane prese in prestito da tedeschi, croati e triestini, ma in versione anti-italiana.

Ci sono episodi storici specifici riferiti dai canti?

Tamo daleko è il canto dei superstiti dell’esercito serbo che riuscirono a riparare in Grecia anche grazie all’ Italia, un frammento di storia dimenticato. Doberdob e Kimegyek a Doberdòi harctérre raccontano della tomba dei “ragazzi sloveni morti per la patria”, e dei tanti giovani magiari caduti sull’altipiano. I turisti centroeuropei che vengono a vedere i luoghi della guerra chiedono di Doberdò, dove spesso le loro famiglie hanno avuto un caduto. Chiaro che si tratta di brevi accenni e di suggestioni, ma che offrono spunti per riflettere e approfondire.

Sul versante italiano?

Dai canti emerge, soprattutto, l’inconsapevolezza; della geografia (“Sotto il ponte di Rialto passerem con la barchetta / o Trieste benedetta ti verremo a liberar”), come dell’imminente carneficina. “C’ ’o cannone e ’a baiunetta / sta bannera ’e tre culore / ’ncopp’a Trieste int’a mezz’ora / ’a facimme sventulà”, recita una canzone di Cesare Bixio. Mezz’ora. E sarebbero stati invece tre anni di orrori indicibili.

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