Tradurre la Divina Commedia di Dante Alighieri in dialetto triestino non è certamente un’operazione semplice, sia per lo spessore fisico che per quello culturale dell’opera. Ci ha pensato Nereo Zeper, probabilmente il maggior esperto vivente di dialetto triestino, pubblicando al momento la versione dialettale dell’Inferno e del Purgatorio.
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Certo Dante aveva a disposizione il toscano, lingua quant’altre mai ricca ed espressiva, e il traduttore di questo Purgatorio ha un triestino che è povero sia quanto al lessico sia quanto alla sintassi (pensiamo solo alla mancanza di pronomi relativi che non siano il misero che). Ciò nonostante lo sforzo di nobilitarlo è stato compiuto e il campo semantico di tante voci – che al lettore non possono non suggerire ancora il tono greve dei parlanti più beceri – è stato allargato.
Forse questo lavoro non è che un tentativo di elevare il tono del triestino, forse è solo una prima spinta, ma il dialetto ha un disperato bisogno di recuperare la stima dei triestini – stima che un tempo aveva anche tra le persone colte – e di uscire dal campo ristretto del comico o peggio della canzonaccia da osteria. Ha bisogno d’amore e di fantasia e di parlanti che posseggano l’orgoglio di farlo sentire. E di scrittori che abbiano la faccia tosta di impiegarlo.
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