22 Gennaio 2014

Il colore del melograno

La prima volta che vidi dei fotogrammi tratti da “Sayat-Nova” (“Il colore del melograno”) di Sergej Paradžanov (URSS/USRR, 1968-1969) ero a cena a casa di alcuni amici iraniani.
Discutemmo della storia dell’Iran e finirono per raccontarmi della situazione artistica, soprattutto musicale, contemporanea. Mi mostrarono alcuni videoclip di gruppi musicali che si sforzavano di continuare a fare della musica “proibita” in Iran (Rock and roll, elettronica, membri delle band che indossano i jeans, qualsiasi influsso occidentale è considerato “proibito”) e di altri che per farlo sono andati a vivere all’estero. Era questo il caso dei KIOSK, che nel loro pezzo “Yarom Bia” avevano utilizzato delle scene dal film in questione e collaborato con il poeta Mohsen Namjoo (del quale poco tempo dopo vidi al Castello di Rivoli l’opera “OverRuled” creata in collaborazione con l’artista iraniana Shirin Neshat, a causa della quale era stato bandito dall’Iran per scurrilità, in pratica per aver riportato alla luce un poema antico e “libero” che toccava temi e bellezze non permesse dal regime iraniano). Curioso accostamento, quello tra musica elettronica e poesia, tra Armenia e Iran ma, si sa, la bellezza attrae spesso la bellezza e i confini diventano allora relativi.

Come quando si ha la sensazione di dover leggere un libro molto prima di averlo sotto mano, sapevo di dover vedere questo film i cui pochi frammenti che mi era capitato di vedere erano bastati a stregarmi. Volevo capire, comprendere, quale fosse il colore del melograno. L’occasione mi è stata data dal Trieste Film Festival 2014.
Al geniale regista armeno Paradžanov, il cui cognome in origine era Paradjanian poi trasformato nella sua versione sovietizzata, il Festival ha dedicato un’intera sezione. Prima della sua scomparsa nel 1990, nella sua poliedrica carriera artistica è riuscito a riversare con efficacia, tramite svariati supporti e linguaggi, il sui onirici e profondi paesaggi interiori.
Al Teatro Miela, la proiezione del film è stata preceduta da “Vospominanija o “Sayat Nove”” (“Reminiscenze su “Sayat-Nova”” titolo che Paradžanov avrebbe voluto dare al suo film) di Levon Grigorjan (Armenia-Italia, 2006), un cortometraggio composto da scene tagliate dalla censura sovietica rinvenute a distanza di quarant’anni -quasi a seguire la trama di una storia romantica e misteriosa- nello scantinato di un’archivio. Raccontate dall’ex aiuto regista, le immagini ritrovate tracciano un’utile mappa della personalità del regista e del percorso interiore del protagonista del film in questione.
Il lungometraggio narra la vita del trovatore armeno Sayat-Nova (1722-1795), nato come Harutyun (Arutin) Sahakyan, attraverso tutte le sue fasi: l’infanzia, la scoperta del mondo e del corpo, lo studio, il passaggio all’adolescenza, la poesia e la kamancha, strumento simile alla lira, la passione per la sorella del re, la ricerca di Dio e la scelta dei voti, i nuovi dubbi, i ricordi dell’infanzia, la vecchiaia, la guerra, la morte.
Tutta la storia si svolge in atmosfere ispirate al medioevo armeno (che mi hanno ricordato quelle scandinave de “La fontana della vergine” e “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman) tra maschere e danze tradizionali, simboli, affreschi, icone e personaggi mitici che prendono vita davanti agli occhi dello spettatore. Come in un presepe di sogno, tintori e cardatori di lana dai volti pasoliniani si mescolano a cherubini da un’ala sola e demoni-incubo (che invece mi hanno ricordato il tocco di Federico Fellini). La narrazione si snoda tra le immagini di Paradžanov e le poesie di Sayat-Nova e raggiunge un fortissimo potere evocativo.
Il ritmo è lento, difficile ormai per le nostre abitudini, ma la scrittura è dedicata non agli addetti ai lavori, bensì all’umanità intera. Nascita, morte, passione, scelte, poesia, spiritualità, paura, vengono raccontate senza soluzione di continuità attraverso una narrazione intuitiva per nulla didascalica che non illumina tutto lasciando nella lettura delle zone d’ombra inintelligibili o ambigue ma che, alla fine, risulta essere di una semplicità disarmante. Il regista dimostra un profondo rispetto per lo spettatore e la sua intelligenza, considerandolo in grado, ma soprattutto lasciandolo libero, di leggere le immagini secondo la sua personale sensibilità e intuito. Forse, per lasciarci trasportare nel dominio della poesia e dei misteri dell’umanità, Paradžanov ci invita a sospendere per un attimo l’azione chiarificatrice e prepotente della ragione: come a voler dire che in queste remote regioni dell’essere gli occhi che servono per orientarsi, sono bendati.
Attraverso la pellicola (purtroppo la versione digitalizzata ha sicuramente reso molto meno la vividità) Paradžanov è riuscito a far trasparire i colori, i suoni, gli odori del mondo del poeta, gli struggimenti, le sue evoluzioni -che in qualche modo appartengono a tutto il genere umano-: insomma, tutte le sfumature del colore del melograno.

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2 commenti a Il colore del melograno

  1. michela ha detto:

    questo tipo di censura la dice lunga sul mondo islamico. leggo siti e blog di ragazze islamiche, nate e cresciute in italia, che rifiutano il mondo dello spettacolo (musica, cinema, teatro) per voler essere delle corrette musulmane. Capirei i loro genitori, ma perfino delle giovanissime….. che peccato. Ricordo più di trent’anni fa il film YOL, (“La strada”) bellissimo film turco, che costò una lunga carcerazione al suo regista ma arrivò fortunosamente in Italia e qui sembrò un normalissimo film che non avrebbe offeso nessuno….

  2. Adriana ha detto:

    grazie bora.la per queste belle recensioni!

  3. enrico meloccaro ha detto:

    Bellissima recensione Chiara! Ho la fortuna di avere una fidanzata armena e sono stato in Armenia diverse volte. Metaksya si occupa di turismo organizza viaggi e conosce 5 lingue. Ho girato il paese in lungo e in largo e sono stato 4 volte nella casa/museo del grande regista. Ti consiglio, un giorno, di visitarla, c’è tutto il carattere di Parajanov.

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