19 Settembre 2013

Da San Giacomo a San Paolo: storia di ordinaria emigrazione

Sono già passati sei mesi da quando sono arrivato qui a San Paolo del Brasile, mesi molto intensi dai quali mi permetto di “staccare” e prendermi una mia prima pausa di riflessione, far mente locale e mettere per iscritto le mie non più prime sensazioni di questo viaggio, di questo enorme cambiamento.

Avendia Paulista

Mi chiamo Massimiliano Granceri, sono studente universitario della Magistrale in Pianificazione Urbana presso l’Università IUAV di Venezia, e attualmente lavoro a San Paolo come geografo e pianificatore presso l’Istituto di Urbanistica e Politiche Urbane POLIS.
La scusa ufficiale per questa “trasferta” continentale è un periodo di intercambio universitario presso l’ Università di San Paolo (USP), mentre il motivo reale è la ricerca di un luogo, una società dinamica che dia la possibilità di vivere appieno una futura vita professionale.

Nell’immaginario comune dell’italiano il Brasile viene spesso associato a spiaggia, mare, samba e carnevale, pensando a un paese uniformato per vivere alla maniera carioca.

Beh, vi devo deludere: Sao Paolo ha ben poco di tutto ciò. Di spiaggia e mare non se ne parla proprio, la metropoli dista una settantina di kilometri dal litorale, mentre per il discorso samba e carnevale non sono poi così radicati nella cultura locale come in altre regioni e stati del paese (Rio de Janeiro e Salvador de Bahia in primis). A dir la verità qui a San Paolo ci sono altri tipi di mare, visto che la regione in cui è stata fondata la città e in cui poi si è espansa la metropoli è da sempre definita come un mare di colline, frutto di migliaia di anni di costante azione e forza dell’acqua all’interno di un ricchissimo bacino idrografico. Ahimé c’è anche un altro tipo di mare, così grande da permettermi di poterlo chiamare oceano. Un oceano di automobili. Il che, come potete immaginare, non comporta un gran benificio in termini di qualità dell’aria e di livello generale di salute!

Vista dall' Edificio Italia con focus sul Copan (Arch. Oscar Niemeyer)

È proprio questo un aspetto chiave della cultura paulistana, l’automobile. Non tanto in quanto oggetto di per sé inquinante, ma inteso come metafora del modus operandi del paulistano: individualista e indipendente .
Nonostante la data ufficiale della fondazione della città sia il 1554, la vera fondazione, la cosiddetta “seconda”, si può assegnare in via informale all’anno 1890, anno in cui ha inizio la trasformazione urbana e economica della urbia, frutto della sua localizzazione strategica all’interno della maglia di connessioni ferroviarie che collegavano Santos, città portuale addetta all’esportazione, con il Sud (Curitiba), il profondo centro (Minas Gerais e Mato Grosso) e il Nord (Rio de Janeiro).
È una città che fa capire fin dall’inizio la sua attitudine al comando, basti osservare il motto impresso nel suo stemma: Ducor Duco, che significa “non mi faccio condurre, io conduco” e che si è costruita anno dopo anno il ruolo egemonico di centro economico dell’intero paese.
L’altro aspetto chiave della cultura paulistana è sempre un frutto della sua “seconda” fondazione: l’immigrazione europea. La fine della schiavitù della popolazione di colore nero assieme alla costruzione della nuova ferrovia e delle prime industrie del paese comportarono l’arrivo di nuova forza lavoro dall’Europa, per la maggior parte italiani, tant’è che negli anni ’20 Sao Paolo la città con più italiani al mondo, più di Roma e Milano.

Vi devo confessare che questa presenza di italianità, nonostante si sia un pò disciolta fra le varie nuove generazioni e integrazioni, è ancora presente e riesce ancora a farsi sentire non solo attraverso cognomi italiofoni dei residenti ma soprattutto con lo spirito e l’energia sprigionati nella sua vita sociale e culturale. È una sensazione che ho percepito fin dai primi giorni e che mi ha sempre accompagnato in questi primi 5 mesi e sicuramente mi ha dato la forza per affrontare i piccoli momenti di malinconia, lontano dalla propria terra, dalla famiglia e dai cari amici.
Non è però un città di soli oriundi italiani. È un melting pot di una grande varietà di culture provenienti da quasi tutti i continenti (tedesca, giapponese,libanese,ebrea,spagnola,russa, per citarne alcune), prodotto solamente in un centinaio d’anni che consacra San Paolo come una delle città più importanti del secolo XX in assoluto.

Trovo molto appropriata questa descrizione fatta da Isay Weinfeld : “Se non è la più brutta del mondo, ci manca poco. È una città con un’energia assurda, con una intensa attività culturale, in cui tutte le tribù urbane coesistono. La mancanza di personalità si è trasformata nella personalità della città.”
È una città che accoglie, ti guarda in faccia e non guarda la tua carta d’identità, vuole le tue abilità, il bagaglio culturale e la volontà ma non la tua nazionalità.
Il cantante Tom Zé la descrisse così nel 1985: “San Paolo è la città più dolce. Perché io e gli altri adottati, noi vediamo che la bellezza è nell’opportunità. L’opportunità di lavorare e di dire che è come un pennello magico che abbellisce ogni cosa” . San Paolo è abituata ad accogliere lo straniero e le novità, non si tira mai indietro, è sempre affamata ma l’invito a tavola è aperto a tutti.

Giunto alla fine di questa prima riflessione penso vi domanderete il perché del titolo dell’articolo. Forse avrò deluso alcuni che si aspettavano un estratto inedito dello scambio epistolare fra i due apostoli, ma la spiegazione è più semplice. Oltre ad essere triestino di nascita, sono cresciuto nel rione storicamente operaio di San Giacomo e sono ormai da due anni lontano da casa, in giro fra Europa e America Latina. Al momento la saudade della mia città non è ancora arrivata, ma spero di approfittare di questa mancanza per continuare a scrivervi e descrivervi questo viaggio.

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1 commenti a Da San Giacomo a San Paolo: storia di ordinaria emigrazione

  1. Dag ha detto:

    Certe descrizioni sembrano quelle della Milano di alcuni fa, città bruttina, ma operosa e che accoglieva, dal punto di vista lavorativo, tanta gente vogliosa di mettersi in gioco e di darsi da fare. Ed anche lì il mare non c’è

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