Questo è il racconto di un “passaggio”. Un passaggio in un luogo “abbandonato” dai riflettori dei media e la cui storia è stata posta “temporaneamente nel dimenticatoio”, come molte altre. Un passaggio anche fisico, ma soprattutto attraverso tante esperienze di condivisone. <Un viaggio solitario nella terra degli Afgani. Dividendo il cibo, il sonno, la fatica, la fame, il freddo, i sussurri, il riso, la paura. Dal confine iraniano a quello cinese sulle nevi del Wakhan, armati soltanto di un taccuino e una Leica, fatti per l’intimità dell’incontro> così la fotografa Monika Bulaj descrive la sua personale “Nur/Luce: appunti afghani ospitata a Trieste al Salone degli Incanti (aperta al pubblico fino al 30 settembre).
Le immagini esposte nell’ex pescheria di Riva Nazaro Sauro parlano di due Afghanistan, entrambi in guerra. Uno è quello che “serve” da palcoscenico al conflitto armato, alle azioni di guerriglia e di rappresaglia interminabili, che sono tali per lo stesso volere dei due schieramenti. L’altro, invece, è quello “sicuro”: fatto di una sicurezza complicata ma che tutti gli afghani conoscono. Un Paese intriso di povertà, dove la sopravvivenza è messa in discussione ogni giorno e dove la condizione della donna è discutibile. Ma capace di ridere e di sperare nei giovani e di grande rispetto per lo straniero e di tolleranza religiosa.
Passaggio: la stessa installazione delle fotografie “fa passare” questo concetto, suggerisce una sensazione di estraneità con la sua atmosfera “bianca”, asettica. I teli di plastica su cui alcune immagini sono montate, infatti, ricordano la precarietà delle baraccopoli, dei rifugi costruiti per i profughi. E la precarietà del quotidiano è quello che l’autrice svela con le sue fotografie: il “taglio” degli scatti testimonia la difficoltà, anche materiale, di raccontare ambienti comunemente nascosti dagli stereotipi. Monika Bulaj ha rifiutato l’etichetta di “embedded” per mecolarsi con la gente e le tradizioni dei luoghi visitati, ottenendo la possibilità di fotografare situazioni difficilmente accessibili.
In bianco e nero o a colori, l’intensità espressiva degli scatti, rimane forte. Il blu profondo del cielo afgano, costante delle fotografie, ingloba le figure delle donne nascoste nel loro burqa per annullarle. L’intensità viene risaltata dal contrasto con gli appunti di viaggio, scritti a matita, che, nonostante il contenuto, sembrano avere la cadenza pacata della voce di un muezzin. Monika Bulaj guarda ancora alle religioni per comunicare un messaggio di tolleranza. Quattro immagini di guerra (le più crude), infatti, l’una di fronte all’altra, dialogano tra loro e ricordano allo spettatore una pala d’altare.
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