18 Luglio 2012

Teatro Naturale, come il tempo cambia luoghi familiari

Elisa Biagi, già intervistata questa primavera in occasione del Festival della Salute Mentale, torna su Bora.La per raccontare una sua esperienza come fotografa al festival Stazione di Topolò 2012, che si è appena concluso.

Cantiere di Fotografia Teatro NaturaleElisa, sei stata chiamata per collaborare a un progetto chiamato “Cantiere di Fotografia Teatro Naturale”. Da dove è partita l’idea, e chi è stato coinvolto?

Nasce da un’idea di Woo(o), ovvero dalla collaborazione tra due fotografi, Alessandro Ruzzier e Carlo Andreasi. Woo(o) affonda le sue radici nell’interesse per la fotografia documentaria ed risponde all’esigenza di sviluppare secondo degli schemi tradizionali sia il reportage che la fotografia dei new topographics legati all’uso della macchina di grande formato. Cioè del banco ottico, per intenderci. Il loro metodo è quello di una sorta di agenzia investigativa che utilizza lo stato sensitivo, lo sguardo indiretto e l’intuizione per indagare nodi nascosti del reale.
Woo(o) nell’ambito della Stazione di Topolò ha proposto un vero e proprio Cantiere per i ragazzi “residenti” a Topolò, ma  aperto a tutta la fauna gravitante in questo meraviglioso borgo tra le Valli, segnato dalla presenza storicamente ingombrante del confine con l’attuale Slovenia. Al loro appello hanno risposto in 13, tra gli undici e i vent’anni, e poi c’ero io.

Qual era lo scopo di questo workshop?

Un inquadratura nel banco otticoLavorare con la fotografia attraverso un metodo che ci permettesse di cogliere le impercettibili differenze che attraverso lo scorrere delle ore modificano una realtà “familiare”. Per familiare intendo quella realtà che ognuno dei partecipanti ha liberamente scelto di inquadrare all’interno di quella macchina meravigliosa che è il banco ottico, dove il mondo va guardato alla rovescia, sotto il telo nero.

E quali sono stati i mezzi e il percorso impiegati per documentare tutto ciò?

Tutti abbiamo realizzato due scatti simili ma in due momenti distinti della giornata, ritrovando la stessa inquadratura e utilizzando le stesse impostazioni (utilizzando cioè lo stesso tempo di esposizione e diaframma) fissate al mattino. I negativi sono stati sviluppati sul posto, e così pure la stampa per contatto, realizzata da tutto il gruppo, ormai affiatatissimo.
Tutti abbiamo potuto così non solo far nascere la nostra immagine mentale, ma anche assistere alla comparsa dell’immagine sulla carta sensibile. Solo a quel punto ognuno di noi ha finalmente potuto vedere il risultato delle due fotografie, scoprendo una nuova visione, confrontandole.
A tutto questo si sono aggiunte letture pensate ad hoc, riflessioni, passeggiate e spiegazioni tecniche sui processi di stampa e sull’uso del banco ottico. Ognuno ha realizzato una cartella personale in cui riporre le proprie fotografie, e la stampa dell’acetato che abbiamo utilizzato per poter ritrovare a distanza di ore l’inquadratura d’origine. A tutto ciò si aggiunge un testo, una spiegazione personale in forma di lettera ad un amico, che stiamo scrivendo per raccontare quest’esperienza a chi a Topolò magari non è nemmeno mai stato. Un po’ come io spero di star facendo ora in questa intervista!

una inquadratura rischiosaIl tuo modo di lavorare e di essere fotografa ha dei confini ben precisi, e sai bene cosa si adatta al tuo modo di lavorare e cosa no. Perché questa volta sei così enutsiasta?

Perché è stata un’esperienza molto intensa per ognuno di noi, professionisti e ragazzi. I ragazzi ci hanno tempestato di domande, correvano per le vie di pietra del paese ad ogni richiamo e ad ogni nuova iniziativa rispondevano ampliandola. Loro sono stati il cuore pulsante del Teatro Naturale. Attivi e reattivi ad ogni stimolo sia durante i tempi di “lezione” sia in quelli “liberi”, erano instancabili. Le discussioni stimolate dalle letture  hanno spesso stupito anche Alessandro e Carlo: spaziavano dalla definizione di “banale” sollevata dai ragazzi all’analisi per confronto con reportage e progetti artistici letti su riviste come “Internazionale”. Una situazione tutt’altro che comune.

Al lavoro in camera oscuraE secondo te che cosa ha reso possibile questa situazione?

Io non ero mai stata prima a Topolò. E qui, con stupore, ho trovato tutti i ragazzi culturalmente molto avanti. Voglio dire, ho già incontrato ragazzi in gamba in vari luoghi. Ma qui non sono entitatà isolate, sono supportati e immersi in una condizione che, seppur temporanea e quasi irreale, per due settimane all’anno gli permette di confrontarsi con ciò che li fa essere davvero protagonisti di sé. Durante il Festival, sono immersi in arte musica video e culture diverse, proiettati allo stesso tempo in passati remoti e futuri ipotetici.
Questo festival, e la scelta di ripetere insistentemente nel tempo un evento artistico contemporaneo, è profondamente vissuto a una dimensione del sentire comune, agli antipodi di un evento commerciale. Questa dimensione non si nutre di celebrità, ma cresce dalle piccole qualità del quotidiano. La vivacità e lo spirito libero dei  ragazzi un esempio di come il Festival, grazie al suo durare nel tempo, sia entrato nel tessuto del paese, facendo crescere una generazione in ogni senso “nuova”.

A quali condizioni, secondo te, delle iniziative simili a Trieste potrebbero avere un impatto paragonabile sui ragazzi della nostra città?

La condizione quasi eremitica di Topolò è uno dei suoi pregi. Trieste è una città, e le dimensioni contano, in questo caso. Creare un nuovo festival per coinvolgere l’intera popolazione sarebbe insensato. Io credo che in ogni specificità vada ricercata la chiave per l’evoluzione della cultura di un territorio. Questo non significa che non sia possibile proporre qualcosa per la nostra città ma è necessaria una visione che appartenga ai bisogni reali della gente, ed esistono già piccole realtà nei rioni, nei ricreatori comunali, in alcune associazioni. Trieste è viva ed è in fermento. La città da una parte preme per crescere e dall’altra teme il cambiamento. Da un lato accetta le iniziative e le promuove ma dall’altro non garantisce ai ragazzi un evoluzione vera perché manca una continuità, un progetto a lungo termine. Il supporto nel tempo che regolarmente viene a mancare per scelte politiche, economiche o per volontà personali, ha ricadute sulla risposta da parte di fruitori, organizzatori e partecipanti.
E ancora: Topolò è stata per me letteralmente una Stazione. Dai primi sguardi in cui ho cercato di capire dove fossi finita e con chi, per finire con arrivederci abbracci lacrime e le promesse di tornare il prossimo anno alla partenza. Questa condizione, quella del ritorno possibile e necessario è quella fondamentale per poter permettere alle nuove generazioni di far vivere Trieste sempre nel suo presente.

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