Secondo giorno. Ok ok, con calma…cerchiamo di fare ordine tra i ricordi della serata precedente…non è facile, a tratti sembra di essere finiti nel film “Memento”, ma possiamo pur sempre contare sulla memoria dei vari componenti del gruppo: unendo le forze, mettiamo assieme i pezzi. Una colazione aiuta a riprendere defintivamente contatto con la realtà: siamo a St. Anton, pronti per il secondo giorno di Apres Ski Hits 2012. Sulla carta, il giorno più caldo, con una scaletta che farebbe venire l’acquolina in bocca a tutti gli amanti del trash declinato sulle piste da sci: Trackshittaz, Markus Becker, Antonia aus Tirol e soprattutto lui, DJ Otzi, colui che più di ogni altro ha legato il proprio nome al genere musicale di cui ci stiamo occupando. Con simile parterre de Rois, essere sul posto è fondamentale, un impegno preciso, insomma.
La mattinata procede con qualche discesa in pista; la fatica che avvertiamo ci ricorda l’elevata qualità festaiola della sera precedente: scopriamo così di avere muscoli che mai pensavamo di possedere, e che fanno un male cane. Archiviato lo sci, decidiamo di concentrarci sulla passerella musicale prevista per il pomeriggio: rotta verso il Mooserwirt, quindi. All’arrivo, notiamo subito che la ressa intorno al palco (allestito all’esterno) è già a livelli critici, quasi da assalto ai forni di manzoniana memoria. Per non rischiare di essere annoverati tra coloro che “si astengono dalla lotta”, ci lanciamo nella mischia e con una faccia tosta da competizione, cerchiamo di avanzare facendoci largo nella muraglia umana. Ogni tecnica è buona, pur di avvicinarci al palco: inserimenti sguscianti, finte degne della nazionale brasiliana di calcio, ostentata familiarità con chi ci sta attorno, insomma, diamo fondo al repertorio peggiore. Lo sforzo (o dovremmo dire: la sfacciataggine) viene premiato, ed infatti in men che non si dica ci troviamo davanti, sotto al palco, dove nel frattempo cominciano le prove, con l’esibizione di Anna Maria Zimmermann, una tipetta niente
male, che, nonostante un braccio al collo, riesce a muoversi egregiamente e scaldare il pubblico. Ecco, forse lo ha scaldato troppo: a prove concluse, infatti, dopo una decina di minuti la situazione degenera: arrivano spinte da ogni dove, restare in piedi comincia a diventare problematico, l’aria si fa irrespirabile. Visto che manca ancora un’ora all’inizio dello show, di comune accordo optiamo per uscire dalla mischia: impossibile resistere in quella bolgia, meglio goderci lo spettacolo dalle retrovie (la visuale è comunque ottima). Dal piccolo pendio che sale davanti al Mooserwirt, il colpo d’occhio è notevole: centinaia e centinaia di persone assiepate davanti al palcoscenico, e altrettante intorno e dietro a noi, tutte in attesa dei big in scaletta. L’organizzazione pare impeccabile: fari, luci, telecamere dotate di braccio telescopico, cameramen in giro… insomma, siamo in serie A. Il tempo che manca all’inizio dello show viene occupato da uno scaldapubblico che, dotato di microfono, su alcuni sfondi musicali fa partire una serie di cori da stadio che tutti – a quanto pare – conoscono. Tutti tranne noi, che siamo visibilmente in trasferta e non disponiamo di queste conoscenze così settoriali. Consci del fatto che difficilmente verrà chiesto agli spettatori di cantare “la galina con do teste”, ci adeguiamo a questi inni locali, dei quali ci sforziamo di capire qualcosa, e sfoggiando un sorriso di circostanza, fingiamo di cogliere il senso di quello che ci sta accadendo attorno e mostriamo il nostro apprezzamento battendo le mani a tempo. In un clima che ha un che di omertoso, la cosa pare funzionare: riusciamo infatti a mimetizzarci con chi canta parola per parola queste simpatiche filastrocche.
Lo scaldapubblico introduce i presentatori: una tizia con una voce stridula (l’anello di congiunzione tra un’oca e una porta non adeguatamente oliata), e l’eternamente giovane Michi Scrauso (alias Mickie Krause, alias Kevin Bacon mit sauerkraut), che immediatamente spara al pubblico la canzone già proposta ieri, quella “Schatzi schenk mir ein foto” che – dobbiamo confessarlo – comincia a ronzarci in testa. Ondeggiamo la testa ritmicamente e canticchiamo il ritornello, fraternizzando con il resto del pubblico: nelle immediate vicinanze, un trio di ragazze (ci dicono di arrivare dalla Carinzia) scaccia il freddo trangugiando una grappetta (le mini bottiglie spopolano in Austria), mentre alcuni ragazzi alle nostre spalle mostrano di approvare gli occhiali da sole colore Anas che indossiamo (espressamente acquistati in un negozio cinese a Trieste). Ma non c’è tempo per gemellaggi all’insegna del buon gusto estetico (ovvero, della sua assenza), perchè cominciano ad arrivare gli artisti, a cominciare da un tale in camicia (al secolo, Peter Wackel), che si dimena tra hollywoodiane fiammate artificiali (utili a lui per scaldarsi, visto il suo abbigliamento) cantando una canzone inneggiante al weekend che, ovviamente, approviamo in pieno. Subito dopo, è la volta di una specie di complessino folk (per gli enciclopedici: sono i “Randfichten”), con una canzone allegra in cui, nonostante lo sforzo, non riusciamo a percepire il suono della chitarra che uno di loro si ostina a fingere di suonare: passi il playback, ma questi non conoscono vergogna! Il pensiero va immancabilmente al video di Barbie Girl degli Aqua, dove il tizio coi capelli a punta veniva mostrato a noi adolescenti intento a suonare una chitarra, nonostante la canzone in questione fosse stata presumibilmente realizzata con un pc e una tastiera Bontempi.
Ma il ricordo del trauma giovanile causato dagli Aqua dura poco, perchè sul palco arrivano infatti i Trackshittaz, un duo austriaco di ragazzi che hanno fatto della tamarraggine una ragione di vita: pantaloni a vita bassa, cappellino da baseball, pettinature che sarebbero l’incubo di ogni madre ed uno stile a metà tra il rapper affermato e il bullotto della porta accanto, accompagnati da un trio di pulzelle vestite del loro buonumore e di poco altro, saltando da un lato all’altro del palco urlano la loro canzone “Oida taunz”. Alle nostre spalle, il gruppo di ragazzi a cui piacciono i nostri occhiali da sole canta ogni riga della canzone: è decisamente roba loro, in effetti. Dall’Austria contaminata con l’hip hop si passa a quella da cartolina quando tornano ad esibirsi le Heidis Erben, le bamboline sorridenti già sentite ieri, che ripropongono il loro medley di canzoni tradizionali riarrangiate: come insegna la storia delle girl/boyband, dalle Spice Girls e dai Take That in giù, ogni strofa viene cantata da una diversa componente del gruppo, e il ritornello, invece, da tutte. Riconfermiamo il giudizio di ieri: belle da vedere, simpatiche da sentire, ma, al pari di graziosi soprammobili, alquanto prive di “mordente”.
Per quello, ci pensa Antonia aus Tirol, con le sue forme ricurve opportunamente messe in risalto da una tutina argentata aderente (una specie di Eva Kant vestita dalla Cuki), con accenno di scollatura e colbacco in testa. C’era grande aspettativa per lei, da parte nostra, visto che da numerose stagioni sciistiche occupiamo i tempi morti in seggiovia allietandoci con il suo video “knallrotes gummiboot”, sempre presente sui nostri telefonini (link obbligatorio). La presenza scenica, in effetti, non tradisce, e si nota che la ragazza in questione è spigliata, sa muoversi e far muovere il pubblico; peccato, però, per la canzone proposta: una invereconda cover di “What’s up” dei 4 non blondes, riarrangiata da qualche ex collaboratore di Sarabanda e tradotta in tedesco, sì da diventare “Hey was geth ab”. Registriamo reazioni differenti da parte dei nostri organi sensoriali: le orecchie vorrebbero essere altrove, ed implorano pietà davanti a simile scempio musicale, mentre gli occhi sono inchiodati su Antonia, e seguono avidamente ogni suo movimento… insomma, siamo alla schizofrenia dei due sensi. Quanto agli altri sensi, registriamo anche una certa difficoltà al tatto, ed in particolare notiamo la rigidità degli arti inferiori, verosimile principio di assideramento: dopo tutto, siamo sulla neve da ore. Il problema viene risolto con qualche blitz in un locale a pochi passi (il Mooserwirt è inaccessibile, vista la folla), dove il tepore è assicurato e il via vai è intenso, soprattutto in direzione del bagno, e questo anche in considerazione del rilevante consumo di liquidi che si sta registrando intorno a noi. Del resto, siamo a far apres ski in Austria, per cui niente di nuovo: cioccolate calde corrette per i più golosi, birre per i tradizionalisti, mini bottigliette di jager e similari per gli altri… nessuno corre il rischio di morire di sete, da queste parti.
E non si corre nemmeno il rischio di annoiarsi: dal palco, Markus Becker, un omone con dentatura approssimativa e cappello rosso da cowboy in tinte pastello, ci allieta con la sua “Heli heli helicopter”, il cui ritornello viene cantato accompagnato da un gesto del braccio volto a mimare le pale rotanti del veivolo in questione. Divertirsi con poco? Certamente: proprio perchè si tratta di un gesto semplice ed immediato, tutti lo fanno e tutti si divertono, come una massa di bambini cresciutelli. Se la spassa tutto sommato anche il cameraman che sta girando tra il pubblico assiepato sulla collinetta: dopo averci notati, ci chiede di partecipare a qualche ripresa, che verrà poi montata e utilizzata per la messa in onda. I fan dei Trackshittaz alle nostre spalle ci danno una mano, e il risultato soddisfa l’operatore: ancora una volta, l’alleanza Trieste-Austria ha dato buoni risultati. Mentre proseguono i nostri sforzi per ignorare il timbro di voce della presentatrice, che riesce a farsi preferire il rumore delle unghie sulla lavagna, ci accorgiamo che sul palco arriva Dj Otzi, lui-proprio-lui, l’icona dell’apres ski, il più rappresentativo del genere. Si impone alla nostra vista con la sua stazza ragguardevole, di bianco vestito, ricorda un po’ l’omino Michelin, sfoggiando la calottina che indossa in metà delle fotografie reperibili su Internet. Denota subito un atteggiamento da autentico vip, accennando al microfono alcune sue recenti canzoni, immediatamente cantate dal pubblico. Che poi tanto sue, queste canzoni, non sono: “Sweet Caroline” è una riedizione discotecara di una celebre canzone di Neil Diamond, “Hey baby” arriva dalla colonna sonora di Flashdance… insomma, questo Otzi pare proprio un gran furbacchione del pentagramma, che a suon di cover di brani altrui si è costruito il personaggio e ha messo da parte il suo bel gruzzoletto. Ed infatti il brano che propone, manco a dirlo, è una cover: quella “Ich sing ein lied fur dir” che, dagli anni ‘60 in avanti, pare abbiano cantato un po’ tutti negli ambienti musicali teutonici. Vabbè, la canzone comunque funziona, e Otzi è pur sempre Otzi, per cui mettiamo da parte la nostra vena polemica e ci uniamo a coretti e battimani per acclamare l’uomo di “Anton aus Tirol”.
15 Gennaio 2012
grandi muloni, idoli! spanzo!