12 Agosto 2011

La carovana RIME lascia la Sicilia

Continua il diario della Carovana Trieste-Palermo dell’Associazione RIME, un viaggio lungo l’Italia in nome della partecipazione cittadina.

CORAGGIO

Una delle massime espressioni di tale “virtù” credo sia oggi il “coraggio della fiducia”. Posizione questa che si assume la responsabilità di essere punto fermo ed invitante al superamento di ostacoli che sono rappresentati da un clima troppo spesso pessimista, portato più all’archiviazione di entusiasmi programmatici propri di un’ epoca che si interroga e non si rassegna di fronte a sconfitte, che si riveleranno momentanee e soprattutto funzionali a riflessione profonda e matura.
È la storia dell’individuo. È la storia dell’umanità. Prendiamone atto.

Don Mario Vatta

Diario di bordo
Avventure siciliane (II)

9 agosto 2011, San Giuseppe Jato – Scopello – Palermo

Ormai stiamo lasciando l’isola, il traghetto diretto a Genova si è appena staccato dalle banchine del porto di Palermo, e la città si allontana poco a poco. Le luci si fanno sfocate, i riferimenti scompaiono: anche il Castello Utveggio in alto sulla destra diventa infine indistinguibile. Alla nostra sinistra già scorre la costa della punta occidentale dell’isola, si intuiscono i paesi e i lidi del trapanese; poi, solo la notte.
Ma andiamo con ordine: siamo rimasti a ieri, quando, dopo aver passato buona parte della giornata a Partinico in compagnia del direttore di Tele Jato Pino Maniaci, ci siamo diretti verso Portella della Ginestra.
Superata Piana degli Albanesi, la strada non è molta, e all’improvviso ci troviamo nella piana, racchiusa in una stretta vallata fra aspri crinali, che in quel primo maggio di sessantaquattro anni fa fu teatro della strage. Il luogo è meraviglioso e suggestivo.
Il memoriale dedicato ai caduti del 1947 si distende lungo il dolce pendio di uno dei due crinali: un piccolo anfiteatro di pietra a gradoni, per gli incontri, e intorno grandi massi con sopra incise delle scritte, ciascuna pietra a simboleggiare un morto di quella giornata. Il centro simbolico di questo santuario laico è una di quelle pietre, detta “sasso degli oratori”, storico palco naturale da cui dirigenti e segretari di partito arringavano le schiere dei lavoratori.
Ad accoglierci, Francesco P???, della locale Camera del Lavoro, e tre anziani signori, gli ultimi testimoni superstiti di quella strage.
Ci raccontano di come quel luogo fosse, fin dal primo dopo guerra, quello in cui si svolgevano le adunanze del Primo Maggio dei lavoratori di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cippirello. Abbandonato durante il fascismo, fu nel 1944 che lì si tenne per la prima volta un nuovo raduno. E, nelle parole degli ex militanti, che a quel tempo erano ragazzi della nostra età, traspare la voglia prepotente che avevano di lottare per i loro diritti, e per riconquistare la libertà. In quegli anni, i lavoratori siciliani si battevano per la terra e contro la fame e l’oppressione dei latifondisti, si battevano per la loro vita e per un futuro migliore.
Dopo la caduta del fascismo, furono anni di speranza, si credeva che le cose fossero cambiate: fu proprio nel 1947 che le agitazioni del lavoratori provocarono i primi decreti che sancivano la distribuzione ai contadini nullatenenti delle terre incolte dei grandi proprietari.
Latifondisti, “agrari”, che spesso si identificavano con i boss mafiosi, o che della mano armata della mafia comunque si servivano. O si servivano della banda di Salvatore Giuliano, il bandito anarchico che voleva fare della Sicilia una stella degli Stati Uniti e odiava i comunisti. E furono proprio gli uomini di Giuliano, da lui in persona capitanati, a perpetrare, quel Primo Maggio del ’47, quando i lavoratori meno se l’aspettavano, credevano di avercela fatta, l’ignobile strage. Appostati dietro le rocce che sovrastano quello che oggi è il memoriale, iniziarono a sparare a raffica sulla folla di uomini, donne e bambini, uccidendo dodici persone e ferendone quasi trenta.
La mafia aveva deciso che gli attentati ai vari sindacalisti e segretari di partito, o i roghi delle sezioni comuniste, non bastavano più: serviva un gesto forte per tacitare la protesta, e soffocare nel sangue le pretese dei contadini.
Quella di Portella fu dunque una strage della mafia, che operò per mano del bandito Giuliano, e che non vide, come alcuni hanno sostenuto, la partecipazione del governo americano in chiave di lotta all’egemonia comunista. Giuliano, che pure a parole rivendicava di agire a favore dell’America, fu in questo caso solo uno strumento della strategia dei mafiosi-latifondisti tesa a dare un colpo mortale alla lotta dei lavoratori.
Nelle parole dei sopravvissuti si legge ancora grande commozione, a tornare in quel luogo, ma allo stesso tempo un orgoglio mai sopito di esserci stati, di aver lottato e di aver contribuito a dare alla nostra generazione, come ha modo di dire uno di loro “La Repubblica, la Costituzione, e il voto alle donne”. Davanti a noi stanno degli arzilli ottantenni, dei siciliani veri, degli uomini che in gioventù soffersero fame e oppressione, e impugnarono la bandiera rossa come mezzo del riscatto. Degli uomini che videro quel giorno morire parenti e amici, per mano dei conservatori, della mano armata di coloro che volevano solo il silenzio e il mantenimento dello status quo, ma che nonostante questo non smisero di lottare. Degli uomini, e questo mi colpisce, che non hanno alcuna paura a pronunciare la parola “mafia”e a condannarla, come ho visto invece essere proprio di molti siciliani loro coetanei.
Dopo aver salutato gli ex militanti, restiamo ancora un po’ nella piana, a goderci i meravigliosi colori del tramonto, fra le rocce, i muri a secco e la rada e bassa vegetazione: nell’aria, solo il soffuso suono delle campane del bestiame che, tutto intorno, pascola placido. Su una roccia, una poesia scritta in siciliano: “U me cori, doppu tantanni, ea purtedda, enta petri, ento sangu, di cumpagni ammazzati”.
E’ la nostra ultima serata in Sicilia, e la festeggiamo con un’eccellente cena a base di prodotti di Libera Terra e ricette tipiche, nell’agriturismo “Portella della Ginestra”, che è parte della Cooperativa “Placido Rizzotto”, in compagnia di Francesco, che della cooperativa è il presidente. La “Placido Rizzotto”, che in questi giorni ci ha ospitato, è la più grande e “antica” cooperativa di Libera, copre complessivamente trecento ettari e svariate attività agricole, ed è motore stesso e coordinatrice di quasi tutte le attività di Libera Terra, in ragione dell’esperienza acquisita in quasi dieci anni di attività.
Pernottiamo di nuovo a San Giuseppe, presso la “Placido”, e la giornata di oggi la dedichiamo al relax. Dopo nove giorni senza un attimo di riposo, più di duemila chilometri percorsi, un numero immenso di esperienza fatte e molte meno ore di sonno, decidiamo di concederci qualche ora al mare. Raggiungiamo così lo splendido lido di Scopello, nel trapanese, e ci abbandoniamo alle rocce bianche e all’acqua, stupenda, che da noi non c’è. Un’acqua azzurra e blu, di mille diverse gradazioni, mai verde o grigia come quella del fangoso alto Adriatico. Ma non è il caso di soffermarsi troppo: si corre il rischio di abituarsi troppo presto alla selvaggia bellezza della Sicilia. Così, ci ripromettiamo di tornare, per starci molto più tempo, ma per ora dobbiamo lasciarla: per le sette raggiungiamo l’imbarco al porto di Palermo, e salpiamo sulla motonave “La Superba”, verso il nord. E siamo tutti tristi, anche perché sappiamo che nella nostra Trieste, mentre noi siamo nell’accecante sole siculo, piove a dirotto e ci sono quindici gradi. E noi salpiamo proprio per tornare là.
Ora siamo qui, con davanti venti ore per attraversare il Tirreno e ripensare a ciò che abbiamo visto e vissuto: ma non basterebbe venti giorni.

Marco Simeon

Tag: , .

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *