10 Febbraio 2011

Il Carnevale a Gorizia e i “cento cocchi” della sfilata del 1827

Frequenti erano i balli mascherati, le cavalchine e i veglioni che talvolta degeneravano in vere orge. Verso la fine del carnevale si teneva il veglione del castello, nella sala Defiori. Gli inviti venivano fatti a voce di casa in casa da un certo Ceu, beone impareggiabile, che durante i mercati commerciava in pipe di radica e cera di Spagna per sigillare le lettere. Le danze si aprivano verso le 9 di sera ed erano accompagnate dal violinista Mincig, dal clarinettista Piceh e da Cerne che suonava il “bierbass”. Dal soffitto di travi pendeva un lampadario di legno che reggeva tre grosse candele di sego e le coppie danzavano in un’atmosfera fuligginosa ed impregnata di odori di alcol e di tabacco.

Anche al Teatro di società si teneva un gran ballo, ma sin dal 1783 avevano fatto la loro comparsa per le vie della città i carri allegorici accompagnati da tanta gente festosa. Le guerre napoleoniche avevano posto un freno a questo divertimento popolare che rinacque solo nel 1825. Si parlava di “cento cocchi” che seguivano il Carnevale a cavallo in un componimento poetico del 1827. Verso la fine di quel secolo sfilavano una trentina di carri ed il numero andava diminuendo di anno in anno. Persisteva sempre la tradizione del radunarsi delle maschere in Piazza Grande la domenica di carnevale: odalische, arlecchini, pierrotti, pagliacci, amazzoni, colombine, fioraie, bebè, pulcinella, diavoli e finti gobbi si rincorrevano tra un chiasso infernale, suonando trombette ed altri strumenti improvvisati.

L’indomani il banditore comunale Pich ammoniva per le vie i perturbatori della quiete pubblica, minacciando la confisca degli strumenti in caso si fosse ripetuto il baccano.
Il martedì grasso, nel pomeriggio, chiudevano tutti i negozi e nella piazza Grande alcuni commercianti improvvisati vendevano coriandoli che venivano lanciati alle maschere ed ai carri. La sera al Teatro di Società si teneva la Cavalchina rosa che richiamava una gran folla di dame e cavalieri in sontuosi costumi da ballo. L’orchestra cittadina diretta dal maestro Francesco Pirz proponeva un ampio repertorio di ballabili.

A mezzanotte in punto entrava nel teatro il sagrestano del Duomo che avvisava che era scoccata la mezzanotte. La musica cessava e tutti si toglievano la maschera dal viso. Iniziava la quaresima. Il mercoledì della ceneri dal castello, nelle prime ore del pomeriggio, scendeva un curioso corteo funebre. In testa stava il Ceu con addosso l’abito talare, lo seguivano quattro uomini che reggevano una barella su cui era steso il defunto Carnevale, un bamboccio di paglia. Altri figuranti rappresentavano il Podestà, la vedova, il notaio e tanti cittadini in lacrime. Il funerale sostava in piazza del Duomo dova veniva letto l’elogio funebre dell’estinto per poi risalire al castello dove si bruciava il pupazzo. La tradizione del funerale del carnevale si mantiene ancora ai nostri giorni quando partendo da piazza de Amicis si snoda attraverso le vie cittadine fino a raggiungere il campo Baiamonti dove il fantoccio viene bruciato.

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