10 Gennaio 2011

Dal bisiaco all’antico dialetto tergestino. Intervista al pittore e poeta Ivan Crico

Lisonz, Zorni, Piova. Sono alcuni titoli delle opere di Ivan Crico. Le sue poesie, che gli hanno valso diversi riconoscimenti a livello nazionale, sono in dialetto bisiaco.
Con Ivan Crico parliamo del “bisiac”, ma anche dell’antico dialetto tergestino e del loro (a volte controverso) rapporto con il friulano.

Ivan Crico: poeta, pittore e studioso del dialetto bisiaco. Si identifica con questa definizione?

Diciamo che mi sento, in primis, un pittore. Ho iniziato a dieci anni a prendere lezioni di disegno classico e pittura ad olio nello studio di un bravissimo pittore di Pieris, Walter Dusatti, molto più noto all’estero che in Italia, per poi proseguire gli studi presso l’Istituto d’Arte di Gorizia e all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Per cui sono più di trent’anni, ormai, che dedico le mie giornate ad approfondire lo studio dell’arte e delle tecniche, antiche e moderne. Già alle medie però, affascinato dalla letteratura dei surrealisti francesi, ho composto diverse poesie sperimentali, per poi orientarmi in seguito – anche grazie all’assidua lettura di poeti come Holderlin, Leopardi, Rilke, Celan, Char – verso forme, diciamo così, più meditate. Scrivevo in italiano, ottenendo anche alcuni significativi riconoscimenti. Lo studio della mia parlata nativa, come delle parlate venete, istriane, friulane e ladine – passando molte notti a consultare decine di vocabolari e grammatiche – nasce, invece, dal bisogno di approfondire la mia parlata nativa, questo universo sonoro che mi ha attraversato fin dai primi istanti di vita con migliaia di termini particolarissimi, antichi, termini che oggi a volte siamo rimasti in pochi a conoscere ed impiegare ancora.

Da anni lei si batte per la tutela del dialetto. Da goriziana ho l’impressione che in Bisiacaria ci sia un forte attaccamento alla parlata locale, è davvero così?

Quando parliamo di “Bisiacaria” parliamo di una zona a lungo ignorata, anche dagli stessi studiosi. Per vari motivi, legati anche alla dispersione dell’intellighenzia locale (di idee illuministe, filo-francese) da parte delle autorità austriache e dalla distruzione di molti archivi durante il primo conflitto mondiale. Un vero e proprio movimento di riscoperta della cultura e del suo linguaggio, a parte alcuni casi episodici, risale soltanto al primo dopoguerra. Un gruppo di valenti studiosi, tra cui spicca anche l’ottimo poeta Silvio Domini, si sono da allora dedicati per diversi decenni alla compilazione di un “Vocabolario fraseologico del dialetto bisiàc” oltre ad un gran numero di studi dedicati alla storia ed al folklore locale, salvando dall’oblio memorie scritte e orali, termini e modi di dire a volte molto antichi, particolari tradizioni che si perdono nella notte dei tempi. La nascita dell’Associazione Culturale Bisiaca ha contribuito, inoltre, a diffondere, anche tra i più giovani, attraverso congressi, manifestazioni pubbliche e soprattutto grazie alla rivista “Bisiacaria”, l’amore per la propria cultura e parlata. Sulle pagine di questa pubblicazione tra l’altro, sempre molto curata, hanno pubblicato tutti i maggiori studiosi, letterati, poeti, musicisti e artisti locali da vent’anni a questa parte proponendo, molto spesso, anche nuove creazioni in bisiac. L’associazione ha sempre avuto, a testimonianza della qualità del lavoro svolto e dell’attaccamento di cui lei diceva, un numero straordinario di soci paganti, che si mantiene dagli inizi attorno agli ottocento iscritti, il che ne fa una delle associazioni culturali storiche più importanti della regione. Nel corso degli anni, inoltre, sono nati anche altri gruppi e associazioni che cercano di mantenere viva la nostra cultura: ricordo qui il “Circolo Brandl” e la Pro Loco di Turriaco, che organizzano interessanti concorsi dedicati al teatro e alla poesia bisiaca, il “Gruppo Costumi Tradizionali Bisiachi”, noto in tutta Europa, il gruppo “Incontri Bisiachi” di Monfalcone che organizza corsi e manifestazioni dedicati allo studio del bisiac e alla valorizzazione delle tradizioni locali. Molto conosciuto, soprattutto tra i più giovani, è anche il lavoro portato avanti dal sito “Bisiacaria.com”.
Noto, purtroppo, che molti giovani genitori tendono sempre di più a non trasmettere ai figli queste antiche parlate, vittime di troppi pregiudizi e di un’omologazione culturale senza precedenti. Mi turba molto questa mancanza di spontaneità, questa fredda spietata rimozione di ciò che si è stati per mutarsi in ciò che altri vogliono, attraverso finti modelli di emancipazione, farci diventare.

Leggo sul suo blog: “Pur essendo nato in una famiglia dove non si è mai parlato in italiano (penso di averlo sentito per la prima volta a scuola), per anni ho avuto come una specie di rigetto verso tutto ciò che riguardava il dialetto e la cultura locale”. Qual è stato, quindi, il percorso che l’ha portata a scrivere in bisiàc?

Sono stato sempre un forte lettore e, come spesso mi capita, tendo a leggere di seguito più libri degli autori che mi interessano. Verso i diciassette anni, scoprii l’opera di Pasolini e, pur non essendo interessato più di tanto alla poesia in dialetto, cominciai a leggere, per farmi un’idea più completa di questo autore, anche le sue “Poesie a Casarsa”. I termini impiegati in quei testi, di cui alcuni presenti anche nella mia parlata bisiaca (oltre il ponte di Pieris, a pochi metri da casa mia, già si parla friulano), furono per me una vera e propria folgorazione: li sentivo indissolubilmente legati alle realtà che nominavano. Capii, allora, che l’italiano – lingua amatissima – non era la mia prima lingua, la chiave – per me – di un immediato contatto con il mistero profondo delle cose. Così, da subito, decisi che dovevo cercare di scrivere in bisiac. Una sfida immensamente difficile e affascinante, se si cerca di non tradire lo spirito sorgivo, selvaggio, anarchico, magico di un linguaggio nato dal popolo, senza la mediazione/tradimento delle classi colte. Evitando italianismi, senza riferirsi ad una sfera concettuale del tutto estranea a quel mondo. Per far questo non mi bastava basarmi su ciò che già sapevo ma dovevo impossessarmi di tutte le più segrete sfumature di questo particolare idioma fondamentalmente veneto ma ricco, a testimonianza del suo essere “lingua di confine”, di tanti termini latini, greci, friulani, sloveni, tedeschi.

A breve il Comune di Monfalcone attiverà uno sportello in lingua friulana. Il tema è controverso: secondo lei – che fra l’altro, se non sbaglio, è un bisiaco “emigrato” a Tapogliano – Monfalcone ha anche un’anima friulana?

Deve sapere che a Monfalcone esiste una comunità friulana piuttosto numerosa costituitasi, soprattutto a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, a seguito del grande sviluppo dei Cantieri Navali, che merita ovviamente ogni rispetto ed attenzione. Conoscendo personalmente molte di queste persone, so che il friulano è rimasto una lingua di tipo “famigliare”, mentre fuori tutti si adeguavano a parlare in bisiaco, fino a qualche anno fa ben più presente e diffuso dell’italiano. Ancor oggi, se le capita di frequentare i locali ed i negozi della città, il bisiaco – seppur in una forma fortemente triestinizzata – è ancora molto impiegato. Non mi è mai successo – pur essendo figlio di un monfalconese ed aver frequentato da sempre la città – di udire qualcuno parlare in friulano in un bar o per strada. Monfalcone non può essere definita in alcun modo, del resto, una città di lingua friulana: non lo dico io ma i più grandi studiosi italiani, tedeschi e sloveni, che non l’hanno mai descritta, in nessuna pubblicazione scientifica nel corso degli ultimi 150 anni, in questo modo. Questo non significa però che la cultura e la lingua dei friulani e degli sloveni che vivono a Monfalcone non debba essere valorizzata, tutt’altro. Esistono leggi specifiche, del resto, che gli amministratori locali sicuramente potrebbero illustrarle meglio di me.

E’ del 2008 la sua raccolta «De arzént zù» (Di argento scomparso) in dialetto tergestino. Di cosa si tratta?

La parlata tergestina, una parlata di tipo friulano che si parlava fino ai primi dell’Ottocento in una Trieste ormai quasi del tutto venetizzata, fa parte di quelle parlate che, dalla Bisiacaria fino a Capodistria e oltre, sulla fascia costiera, testimoniavano ancora agli albori dello scorso millennio l’antica romanità di questi territori. Questa raccolta l’ho scritta in realtà nel 1998, di getto, per me e me solo, come un esperimento e insieme una necessità insopprimibile, ed è rimasta nel cassetto finché non è stata scoperta, in modo piuttosto casuale, dallo studioso Maurizio Puntin. Puntin poi l’ha fatta conoscere allo slavista Pavle Merkù ed al poeta Roberto Dedenaro, che la recensì in anteprima su “Il Piccolo” in un lungo e approfondito articolo. Il compianto Tino Sangiglio in seguito si offrì di pubblicarla nella collana di poesia dell’istituto Giuliano di Storia e Documentazione. Due cose mi interessavano particolarmente di questo antico idioma di cui la Trieste moderna non conserva quasi alcuna memoria: il fatto che si tratta della lingua di una comunità scomparsa, inabissata nell’oblio più totale, di fronte a cui mi sentivo come chiamato a dar, per l’ultima volta forse, voce; e, ancora, la presenza nel bisiac di molti di questi termini, il che me la faceva sentire, pur nella sua grande distanza fonetica e temporale, in qualche modo stranamente vicina.

Come si è evoluto nel dialetto parlato oggi a Trieste?

La presenza di friulanismi nel dialetto triestino è stata a lungo studiata soprattutto dal grande studioso Mario Doria. Si tratta di testi specialistici ma di grande interesse, anche perché ci fanno capire quanto sia ricca e preziosa questa parlata in cui si sono espressi alcuni tra i più grandi poeti del Novecento italiano, da Giotti a Grisancich fino a Doplicher. Di quest’ultimo grande autore vorrei segnalare, a proposito di preziosità lessicali, una stupefacente novità: il meraviglioso volumetto postumo “El putel orbo”, edito di recente dalle edizioni “Il Ramo d’Oro”, scritto in un triestino arcaico, popolare, pieno di suoni inattesi, di colori vivacissimi e dimenticati.

Recentemente la Regione ha varato una legge regionale per la tutela dei dialetti veneti del Friuli Venezia Giulia. Obiettivo raggiunto o punto di partenza?

Penso di essere stato il primo studioso, più di dieci anni fa, a parlare della necessità di questa legge durante un convegno organizzato dall’Associazione Culturale Bisiaca. Ricordo bene che diversi politici, alcuni anche di un certo peso, mi dissero che si trattava di un riconoscimento che non sarebbe mai arrivato, di non perdere tempo con simili fantasie. Nel frattempo, ci sono voluti anni di ricerche, manifestazioni, interviste e lettere sui giornali per sensibilizzare il mondo politico e spingerlo a varare questa legge. Ovviamente niente sarebbe stato possibile senza il contributo di tante associazioni culturali triestine, goriziane, pordenonesi. Un percorso molto difficile e faticoso, come sempre quando bisogna necessariamente coinvolgere, nel bene e nel male, i rappresentanti dei vari partiti ed individuare un percorso comune e condiviso. La legge approvata all’unanimità (che unisce le proposte e i suggerimenti dei consiglieri regionali Antonaz, Camber, Colussi, Razzini), mi sembra nel complesso piuttosto equilibrata e rispettosa anche delle altre comunità linguistiche presenti sul territorio regionale. In questo momento le commissioni istituite per valutare eventuali progetti non si sono ancora riunite e non è possibile fare previsioni. Credo che la consapevolezza di non esser più relegate in un limbo indistinto, da parte delle associazioni che si occupano della valorizzazione di questi idiomi, di non essere più in totale balìa della maggior o minor sensibilità dei consiglieri regionali per quanto riguarda possibili finanziamenti, le porterà ad impegnarsi in progetti di più ampio respiro, come l’Unione Europea del resto da sempre auspica, tesi a coinvolgere anche i paesi a noi vicini e le comunità venetofone che si trovano all’estero. Un obiettivo raggiunto che è anche, come ogni obiettivo, sempre un nuovo punto di partenza verso altre mete.

Note biografiche
Nato a Gorizia nel 1968, Ivan Crico ha vissuto a Pieris fin dalla nascita. Attualmente risiede in un antico ed isolato paesino del Friuli, a Tapogliano. Ha iniziato gli studi artistici nel 1981 diplomandosi in pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
A partire dal 1983, ha iniziato ad esporre in numerose collettive in Italia e all’estero. Dal 1995 ha iniziato ad interessarsi anche alla decorazione antica e al restauro, lavorando in seguito a grandi lavori di ricostruzione di affreschi in prestigiose ville e palazzi storici. Dal 2002 è stato invitato a tenere dei corsi d’alta decorazione all’Istituto Statale d’Arte di Gorizia.
Dopo essersi inizialmente segnalato come poeta in lingua, nel 1989 ha cominciato ad impiegare anche il nativo idioma veneto “bisiàc”, Suoi testi poetici e saggi critici sono apparsi, a partire dal 1992, sulle maggiori riviste italiane come “Poesia”, “Lengua”, “Diverse Lingue”, “Tratti”, “Frontiera”. Nel dicembre 1997 ha pubblicato Piture, a cura di Giovanni Tesio, per l’editore Boetti di Mondovì e nel 2003, per il Circolo Culturale di Meduno, con prefazione di Antonella Anedda, Maitàni (“Segnali di mare”). Nel 2006, per le edizioni del Consorzio Culturale del Monfalconese è uscita la plaquette “Ostane” (“Germogli di rovo”) e nel 2007 la raccolta “Segni della Metamorfosi” per le edizioni della Biblioteca di Pordenone. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta “De arzent zu” per l’Istituto Giuliano di Storia e Documentazione di Trieste.
Della sua poesia si sono occupati i maggiori critici italiani da Brevini a Tesio, da Villalta a D’Elia. Della sua opera si sono occupati i maggiori quotidiani italiani da “La Stampa” a “Il Sole 24 Ore”.
Per diversi anni ha organizzato, nell’antica chiesa di Santa Maria in Monte a Fogliano (GO) incontri di poesia con poeti italiani, esteri e in dialetto accompagnati da importanti musicisti. Figura tra i nove autori selezionati per l’antologia “Tanche giajutis” curata da Amedeo Giacomini, che comprende i poeti più significativi nei dialetti e le lingue minori degli ultimi decenni del Friuli Venezia-Giulia. Suoi testi compaiono nell’antologia “I colors da lis vos” curata Pierluigi Cappello, Associazione Culturale Colonos, 2006, e nel libro “Cinquanta poesie per Biagio Marin”, a cura di Anna De Simone, Fabrizio Serra Editore, Roma, 2009. Nel 2009 ha ricevuto il maggior riconoscimento dedicato in Italia ai dialetti e alle lingue minoritarie, il “Premio Nazionale Biagio Marin”.

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16 commenti a Dal bisiaco all’antico dialetto tergestino. Intervista al pittore e poeta Ivan Crico

  1. capitan alcol ha detto:

    Bella intervista e complimenti al pittore e poeta per il suo lavoro.

  2. era ha detto:

    Questa cosa del “tergestino” non la sapevo. Quindi negli ultimi secoli la parlata locale è cambiata radicalmente. Sarebbe bello capire anche da dove nascono le differenze con il bisiaco, che non mi sembra sia tanto diverso dal dialetto parlato oggi a Trieste, almeno come parole, poi la pronuncia è sicuramente diversa!

  3. marisa ha detto:

    Mi piacerebbe molto porre a Ivan Crico, questa domanda:

    ” Non la turba il fatto che la legge regionale sui dialetti venetofoni regionali sia stata VOLUTA CON FORZA e PATRICINATA dai maggiori nemici della tutela delle minoranze linguistiche regionali (in particolare sloveni e friulani)? Non ci legge in tutto questo la volontà di usare i dialetti venetofoni come una CLAVA contro le due maggiori minoranze linguistiche regionali, friulani e sloveni?”

    Grazie della risposta.

  4. ivan crico ha detto:

    @ era

    La parlata bisiaca si radica in questi luoghi qualche secolo prima del triestino e quindi, nella sua forma più conservativa, impiegata ancora soprattutto nelle vecchie famiglie dei paesi più periferici, si presenta con una sua fisionomia piuttosto originale e caratterizzata. Nel corso del Novecento, soprattutto a Monfalcone, l’arrivo di migliaia di persone da zone più o meno lontane ha portato gli abitanti del luogo ad abbandonare tutte le asperità tipiche del vecchio bisiaco, prendendo a modello la parlata triestina, ritenuta non a torto più comprensibile ed accettabile da tutti. Parliamo ovviamente di un tempo in cui nessun operaio del cantiere si sarebbe mai sognato di rivolgersi ad un “forest” in italiano, supposto che lo sapesse parlare in modo fluente, cosa allora impensabile. Questa “perdita” però è stata anche, al contempo, un grande arricchimento per tutti, dal momento che trovare un modo comune e condiviso di esprimersi, per quanto basico, forse meno interessante dal punto di vista linguistico, significa anche trovare modi per avvicinare pacificamente culture e mentalità molto diverse.

    @ Marisa

    Questa legge doveva portarla avanti, come aveva promesso prima delle elezioni, l’ex assessore alla Cultura Roberto Antonaz, che tra l’altro ha fatto molto per le minoranze linguistiche friulana, slovena e tedesca. La caduta della Giunta Illy, ha fatto emergere altri soggetti, certo, ma voglio ricordare che questa legge è stata votata all’unanimità e, quindi, non riflette un unico preciso punto di vista nascendo dalla sintesi di tre proposte redatte dal PDL, dalla Lega e dai Cittadini per il Presidente.

  5. marisa ha detto:

    Ringrazio IVAN CRICO per la sua risposta, decisamente diplomatica.

    Ricordo che:

    1) le tre proposte poi unificate in una sola, erano una più demenziale dell’altra e “copiavano” la L. 482/99. Notoriamente i dialetti venetofoni possono essere valorizzati solo ai sensi dell’art. 9 della Costituzione italiana e non dell’art. 6 (riservato alle minoranze linguistiche storiche e non ai dialetti della lingua italiana)

    2) Ovvio che la legge sui dialetti venetofoni fu votata alla unanimità. Quale consigliere regionale si sarebbe “esposto” a votare contro? Nessuno! E così fu.

    3) Piero Camber, uno dei massimi nemici della lingua friulana, è stato anche il grande e primo artefice e porta bandiera della legge sulla valorizzazione dei dialetti venetefoni. Strano NO? Prima in aula consiliare e sulle pagine del Piccolo, sbraida in maniera indegna contro la L.r. 29/2007….e poi propone per i dialetti venetofoni una legge regionale che sembra la fotocopia della L.482/99! Nulla di stano? Tutto O.K.?

    4) Non è forse vero che dietro la richiesta della valorizzazione del dialetto triestino ci siano le associazioni teatrali triestine (in dialetto triestino) che speravano, e continuano a sperare, di avere una montagna di fondi per la loro attività? Quindi una richiesta funzionale esclusivamente ad avere più fondi per fare teatro. All’epoca si favoleggiava di un fondo di sette milioni per la lingua friulana. E questa cifra ingolosì queste associazioni teatrali triestine. Peccato che alla lingua friulana in regione stiano azzerando i fondi……

    Comunque auguri Ivan Crico, di non avere, per il dialetto biasiacco, le briciole di quanto rimarrà dopo aver foraggiato le compagnie teatrali triestine (per il dialetto
    triestino)!

  6. marisa ha detto:

    ….con Antonaz si parlava di una legge regionale per la valorizzazione dei dialetti venetofoni esclusivamente di carattere culturale.

    Piero Camber propose invece la fotocopia della L.482/99, ossia propose per i dialetti venetofoni una TUTELA LINGUISTICA ai sensi dell’art. 6 della Costituzione italiana…..

    Una bella differenza, o NO?

    Comunque ora aspettiamo di vedere che ne pensa la Consulta.

  7. capitan alcol ha detto:

    Il livore che traspare dal commento #5 è sintomo di una deriva elitaria e classista nella concezione delle parlate popolari che lo stesso autore dell’intervista stigmatizza molto bene.

    “se si cerca di non tradire lo spirito sorgivo, selvaggio, anarchico, magico di un linguaggio nato dal popolo, senza la mediazione/tradimento delle classi colte.”

  8. alpino ha detto:

    anno nuovo Marisa nuova?? NO..:-(

  9. marisa ha detto:

    Nessun livore nel commento nr. 5……ma solo un po’ di sana verità!

    Perchè forse le cose non sono andate come descritte nel commento 5?

    Chissà perchè quando racconti i fatti come si sono effettivament svolti ( e tutti lo sanno che sono andati così!) subito viene attaccato?

  10. Luigi (veneziano) ha detto:

    Bravo Ivan: ti me fa vegnir voja de parlarte in venexian.

    Ti me ga ricordà el Meneghello, quando ch’el parla del dialeto de Malo – concreto da far mal:

    “Ci sono due strati nella personalità di un uomo: sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose”.

    ‘staltro zorno a casa dei noni me fìa (quatro ani) me ga dito che la nona (me mama) la ghe parlava, ma no la capiva ben cosa che voleva dirghe: semplicemente la ghe parlava in dialeto. Me go sentìo mal: da la nona che quasi no la xe bona de parlar in italian, a la nevoda che quasi no la xe bona de parlar in venexian.

    Qua però co ti declami i to versi par che i te gabia dito de far la parte del poeta sustà dal mondo: http://www.youtube.com/watch?v=2_ICfKysL48

    Luigi (venexian)

  11. AnnA ha detto:

    Hölderlin

  12. ivan crico ha detto:

    Grazie a tutti per gli interessanti commenti e grazie, di cuore, per il dono di questo splendido – a me finora ignoto – frammento di Meneghello.

  13. alpino ha detto:

    Salve Signor Crico, se non sbaglio LISONZ è una sua poesia giusto? una domanda: lho fatta leggere a mio nonno bisiaco patocco da generazioni di Ronchi dei Legionari lui stesso l’ha trovata difficoltosa con termini che non conosceva, nonstante sia un cultore del dialetto bisiaco…nello scrivere quella poesia a quale parlata e vocabolario a fatto particolare riferimento? quella di Pieris? se così fosse è fantastico come vi siano tali differenze anche solo tra Pieris e Ronchi..

  14. ivan crico ha detto:

    @alpino

    La parlata bisiaca, agli inizi del Novecento, aveva più o meno la stessa fisionomia in tutti i paesi del Territorio, Monfalcone compresa. Ogni paese, a seconda della posizione geografica e dei mestieri più diffusi, impiegava però qualche vocabolo particolare che lo distingueva – ma si tratta sempre di differenze quasi impercettibili – dagli altri. Certi termini del paesaggio carsico – come la “grisa” (pietraia) – erano ovviamente quasi del tutto ignoti ad un abitante di Turriaco. Così il termine “rènzita” (che indica un particolare tipo di corrente del fiume) di certo non diceva niente ad un abitante di Staranzano o Selz. Io nelle mie poesie mi rifaccio moltissimo alla parlata di Pieris, dove sono nato, e dove, nei primi anni della mia infanzia ho avuto la fortuna di ascoltare ancora persone che impiegavano un linguaggio molto arcaico. Io stesso, ad esempio, dicevo normalmente “nòu” al posto di “novo”. Si tratta di un fenomeno, del resto, comunissimo: più ci si allontana dai centri più importanti e maggiori possibilità ci sono di incontrare persone che impiegano una parlata più conservativa. Anche se esistono, a volte, anche nelle cittadine più popolate – come Aris a Monfalcone e Vermegliano nel comune di Ronchi – borgate con vecchie famiglie, che lì vivono da sempre e ancor oggi continuano a tener vivo l’amore per la propria lingua e cultura. Teniamo infine presente che la poesia rappresenta sempre uno scarto rispetto al parlato di ogni giorno e non è mimesi ma, pur filologicamente corretta per quel che riguarda la trascrizione dei termini, sempre un modo per offrire alla parola altre, finora impensate possibilità di senso.

  15. SImone Boscolo ha detto:

    Oggi come oggi c’è un aspetto dello scrivere in dialetto che mi tocca: non riguarda ovviamente la degenere “poetica della polenta” come la definì Pasolini, né un recupero nell’uso, artificioso, e oggi come oggi nemmeno la ricerca dell’autonomia assoluta del linguaggio poetico: ciò che mi tocca è che lo scrivere in dialetto è significato, a volte, in sé: è scrivere nella lingua dei “moribondi”, senza nostalgia. E’ scrivere nella lingua di un rimosso inconscio storico che nel particolare si fa sempre nazionale. In più, oltre che per il bisiacco mi colpisce la tua opera, Ivan, in tergestino. Scrivere in tergestino reca ancora più potenza a questo processo: è la lingua dei morti che torna dalla busecca della storia, il cui suono scava prima del significato nel e dal profondo. Mi ricorda più la visione dell’Angelus Novus di Benjamin che la retorica sull’anima popolare che ancora vivificò la ricerca e la poesia dialettale sino agli anni ’70…

  16. Logos ha detto:

    Lodi a Crico per avere portato all’attenzione del pubblico la vecchia parlata friulana di Trieste, quella “de lis tredis cjasadis”.
    Vorrei fare però una precisazione, che può farci interpretare meglio anche la realtà che ci circonda. Il tergestino di stampo friulano non è che ebbe un’evoluzione che lo portò a trasformarsi nell’attuale dialetto di stampo veneto. Semplicemente vide ridursi progressivamente il numero dei parlanti fino ad essere totalmente soppiantato dalla nuova parlata, che non era altro che il veneziano “coloniale” diffuso in tutto l’adriatico. Il vecchio tergestino era la parlata dei vecchi abitanti di Trieste: dei contadini ma anche del patriziato autoctono. Il veneziano coloniale era la parlata che amalgamò tutti i nuovi arrivati: mercanti, borghesi, operai. Questo veneziano coloniale, con il passare degli anni acquistò un’identità propria diventando il dialetto triestino attuale.
    La triste sorte del tergestino, purtroppo sembra oggi interessare diverse parlate autoctone della nostra regione, in primis il friulano di Gorizia, oramai in via d’estinzione.

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