16 Novembre 2010

Apertura dell’anno accademico a Trieste: il discorso del rettore Peroni

Ecco il discorso d’inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011 pronunciato ieri dal magnifico rettore dell’Università di Trieste, Francesco Peroni.

Autorità, Colleghi docenti italiani e stranieri, Colleghi del personale tecnico e amministrativo, cari studenti, gentili ospiti,

l’apertura dell’anno accademico 2010-2011, l’ottantasettesimo dalla fondazione di questo Ateneo, avviene in una fase particolarmente critica per il sistema universitario nazionale, esposto, forse per la prima volta in epoca recente, a incognite finanziarie che incombono sulla sua stessa sopravvivenza, per lo meno negli assetti istituzionali e organizzativi a noi noti.
In questo scenario, dunque, aprire l’anno accademico potrebbe persino suonare paradossale. Non vi nascondo, per parte mia, che mi sono lungamente interrogato sull’opportunità di mantenere in agenda questa giornata, in una congiuntura tanto problematica e densa di incognite. Mi sono però risposto che è proprio nei momenti in cui la storia sembra porre in discussione la capacità delle istituzioni di dare una risposta efficace alle istanze che dalla collettività provengono, è in quei momenti che occorre raccogliersi intorno ad esse, rinnovandone il ruolo di “casa comune”, entro la quale ritrovare, con il contributo critico, foss’anche il più aspro e controverso, il senso profondo del nostro appartenere a un destino comune. Per quanto mi riguarda, non ho mai inteso questa giornata come momento di sfoggio trionfalistico di dati o di passerella per alte autorità, ma, al contrario, come sede di doverosa comunicazione di risultati e di confronto su temi di comune interesse, pregiudiziali a una condivisione collettiva – non circoscritta alla comunità accademica – di strategie e obiettivi. Dunque, in definitiva, un momento di prassi democratica, organizzata all’interno della città universitaria, ma al servizio di una comunità allargata, estesa ben oltre i suoi confini.
Con questo spirito, i dati che fornirò si propongono di stimolare una riflessione quanto più consapevole sulle questioni che attanagliano le sorti dell’alta formazione e della ricerca scientifica nel nostro Paese e, con esse, dell’Università di Trieste.
Parlare di questo Ateneo significa anzitutto rassegnarne il capitale umano e la dotazione strutturale. Con le sue 12 facoltà e i suoi 22 dipartimenti, l’Università di Trieste costituisce una comunità che tuttora impiega oltre millecinquecento unità di ruolo, tra personale docente (776 unità), tecnico-amministrativo (724 unità) e linguistico (31 unità), con un volume di bilancio, tra amministrazione centrale e centri di spesa autonomi che supera i 200 milioni di euro annui.
La popolazione studentesca complessiva, censita nell’anno accademico appena concluso, raggiunge, con la formazione post lauream, le 21.500 unità, un terzo delle quali di provenienza extraregionale.
Il dato, ancora provvisorio, delle immatricolazioni, sfiora già, per l’anno accademico che apriamo oggi, le 4200 unità: ciò che fa preconizzare, in sede di assestamento, valori prossimi allo scorso anno accademico, grazie all’incremento che, rispetto alla predetta cifra, potrà registrarsi sul versante delle lauree magistrali, per le quali i termini d’immatricolazione resteranno aperti sino al marzo prossimo. Il trend delle immatricolazioni può dirsi dunque stabilizzato, da almeno un triennio, intorno alle 5000 unità annue ed è interessante notare come tale dato non abbia subito quella flessione che, secondo taluni, si sarebbe dovuta attendere dal ridimensionamento quantitativo dell’offerta formativa, avvenuto nel corrispondente periodo. Mentre, infatti, il numero dei corsi di studio è sceso, in quattro anni, dai 108 dell’anno accademico 2006-2007, ai 71 dell’anno accademico che oggi si apre, si è mantenuto pressoché invariato il flusso delle immatricolazioni; per altro verso, cresce il numero degli studenti che si trasferiscono a Trieste da altri Atenei. Indici, questi, di un’attrattività che la nostra sede ha saputo mantenere forte sul territorio, coltivando, da un lato, sempre più solide relazioni con il sistema scolastico regionale ed extraregionale e assicurando, dall’altro, livelli di spendibilità dei titoli di laurea, ben al di sopra della media nazionale, quanto ai tempi d’ingresso nel mondo del lavoro.
Ma, al di là dei dati numerici, il tratto qualificante della nostra popolazione studentesca resta la molteplicità di provenienze, resa evidente dall’elevata presenza di iscritti stranieri, oltre 1800, la gran parte dei quali extracomunitari: presenza che tuttora fa, di Trieste, l’Ateneo statale con la più elevata percentuale di studenti stranieri del Paese, dopo le due università per stranieri. Si tratta di un potenziale denso di riflessi positivi sulla formazione dei nostri studenti, così come testimoniato da alcuni rilevamenti. Emblematico, ad esempio, che, secondo dati di AlmaLaurea, riferiti all’anno 2009, i laureati del nostro Ateneo si distinguano per la conoscenza delle lingue straniere: 6.762 di costoro parlano l’inglese a livello ottimo, 2.365 il francese, 1.837 lo spagnolo, 1.337 il tedesco e ancora 716 il russo, 465 l’arabo, 1.197 lo sloveno, 1.099 il croato, 277 il serbo, 52 il giapponese e 136 il cinese. Non meno sintomatico ci pare, sotto questo profilo, il rapporto 2010 del Trendence Graduate Barometer, accreditato strumento di monitoraggio delle carriere e dei percorsi formativi, nell’ambito dei principali paesi europei: ebbene, l’impronta internazionale dell’Ateneo triestino risulta tra gli elementi di attrattività maggiormente valutati, al momento della scelta della sede universitaria, e non meno eloquente è il fatto che, al termine degli studi, oltre il 42% dei laureati si dica disponibile a un impiego all’estero, a fronte di una media nazionale del 33%.
Dunque, a Trieste, più che altrove, la dimensione multiculturale consente di coltivare aspettative e progetti di vita e di preparare giovani talenti alle sfide della società globale. Qui, più che altrove, si pongono le basi per la realizzazione di quello spazio europeo della conoscenza che vorremmo al centro delle politiche dell’Unione. Ed è anche nella consapevolezza di questa sua peculiare missione, che l’Università di Trieste assicura un’ampia gamma di opportunità di scambio internazionale ai propri studenti, a cominciare dai circa 450 accordi bilaterali che la legano a diverse università dell’Unione, in seno alla rete Erasmus, per allargarsi alle crescenti opportunità di scambio apertesi, più di recente, con atenei d’oltreoceano.

La ricognizione sinora svolta richiede di essere ulteriormente corredata di elementi che, per semplicità di esposizione, verranno ripartiti secondo le classiche missioni istituzionali dell’università: alta formazione, ricerca scientifica, trasferimento tecnologico e di capitale intellettuale.
Si è già ricordato che l’offerta didattica di primo e di secondo livello si articola, nel nostro Ateneo, complessivamente in settantuno corsi di studio, tra triennali, specialistici e magistrali, alcuni dei quali strutturati come internazionali: tanto vale per i corsi di laurea a titolo congiunto, quali quello in comunicazione interlinguistica (con l’Università di Regensburg), in genomica funzionale (con le Università di Parigi 5 e 7), in Matematica (con l’Università di Lubiana), in fisica, astrofisica e fisica spaziale, attivati congiuntamente con il Centro Internazionale di Fisica Teorica (ICTP), ai quali si aggiungerà, a partire dal prossimo anno accademico, la nuova laurea in Production Engeneering and Management (con l’Università di Lippe-Lemgo). Continuano, inoltre, alcune importanti esperienze di internazionalizzazione della didattica curricolare, con particolare riferimento a quei corsi di studio, istituiti dalle facoltà di Economia e di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, impartiti in lingua inglese e organizzati anche con l’apporto di docenza proveniente dall’estero.
Tra le novità più significative di quest’anno accademico, l’avvio di quattro nuovi corsi di laurea magistrale interateneo con l’Università di Udine: una sperimentazione che si aggiunge a quelle già in atto in area medico-sanitaria e che abbraccia ora settori come l’italianistica, le scienze dell’antichità, la fisica e le scienze ambientali.
Quanto ai percorsi post lauream, l’offerta contempla: 12 corsi di dottorato di ricerca e altrettante scuole di dottorato, sui quali l’Ateneo investe complessivamente oltre 4 milioni e mezzo di euro, corrispondenti a circa 270 borse, il 10% delle quali a beneficio di giovani studiosi stranieri; 33 scuole di specializzazione; 14 master di primo e di secondo livello; 6 corsi di perfezionamento.
Il quadro complessivo dell’offerta formativa di questo Ateneo è stato, negli anni recenti, interessato da un profondo riassetto, in adeguamento a reiterati provvedimenti ministeriali, non sempre esemplari sotto il profilo della coerenza e della chiarezza dei dettati. Si è già riferito come, dal 2006 ad oggi, sia sensibilmente diminuito il numero dei corsi di studio offerti alle nuove matricole. Certo, la circostanza che tale trasformazione non abbia comportato né il temuto decremento delle immatricolazioni, come detto, né alcuna flessione nel riscontro che i nostri titoli di laurea ottengono dal mercato dell’occupazione, conforta della perdurante qualità dei nostri percorsi formativi. E analogamente induce a concludere l’apprezzamento che i nostri studenti esprimono, a proposito delle attività didattiche, in percentuale stabilmente superiore, nell’ultimo triennio, al 90% nei giudizi positivi: i dati sono visibili in web.
Personalmente, resto convinto che ciò che l’università dovrebbe porsi per obiettivo di salvaguardia sia, non tanto un’offerta formativa, intesa come immutabile apparato di corsi di studio, insegnamenti ecc., quanto la formazione, intesa come risultato di un’esperienza di crescita culturale e di maturazione individuale, messa a disposizione di coloro che in università studiano. Ebbene, è incontrovertibile che la qualità del risultato in parola non dipende in sé dal numero o dall’articolazione dei corsi di laurea; deriva semmai dalla dotazione scientifica e di capitale docente qualificato di cui dispone l’università.
La considerazione è però utile a puntare l’attenzione sul vero problema: quello cioè dell’incompatibilità tra la conservazione degli standard di qualità di cui si è detto e l’endemico processo di definanziamento, cui il sistema universitario è stato sottoposto esponenzialmente negli anni.
Va aggiunto poi che questa contraddizione ha assunto dimensioni intollerabili, con il progressivo assottigliarsi delle opportunità di turn over o d’ingresso nei ruoli dell’università: ne è derivato infatti l’accrescersi, talora a dismisura, della responsabilità didattica in capo a figure, come i ricercatori, i quali sono invece chiamati, per stato giuridico, a funzioni prioritarie nel campo della ricerca. A questa componente della docenza che, con la propria attività didattica, ha garantito, insieme a professori associati e ordinari, la tenuta di quei livelli di qualità, per cui tuttora questo Ateneo è apprezzato, dobbiamo, non solo riconoscenza, ma anche l’impegno per una maggiore valorizzazione nella nostra comunità. Si tratta, sotto un primo profilo, di proseguire sulla via maestra di quel riconoscimento al pari accesso alle responsabilità istituzionali, che questa Amministrazione ha avviato con le più recenti modifiche statutarie, rendendo per la prima volta eleggibili in Senato accademico i ricercatori, come rappresentanti d’area scientifico-disciplinare. Per altro verso, occorre continuare a battersi per ridare una speranza ai troppi che attendono di vedere riconosciuta la propria produzione scientifica, spesso di singolare pregio, in sede di progressione di carriera. Per parte nostra, grazie al raggiunto traguardo del rientro, sotto le soglie di legge prescritte in materia di spesa stipendiale, confidiamo di poter procedere, nelle prossime settimane, all’assunzione, nei ruoli di professore, di alcuni colleghi ricercatori, risultati idonei a un inquadramento superiore in altrettante valutazioni comparative. Ma non ci si può nascondere che si tratterà, pur sempre, di opportunità sottodimensionate, rispetto al fabbisogno dell’Ateneo e che solo una coraggiosa inversione di tendenza, rispetto al trend finanziario attuale, potrebbe assicurare, con maggiori investimenti pubblici nella dotazione alle università, adeguate chance ai tanti meritevoli, risultati idonei in altrettante valutazioni comparative.

La ricerca scientifica costituisce, senza dubbio, il tratto distintivo di un’Università come la nostra, storicamente al centro del cosiddetto Sistema Trieste della Scienza, in seno al quale occupa il ruolo di vertice, per numero di addetti alla ricerca ed entità della produzione scientifica.
Converrà ricordare che al nostro prodotto scientifico concorrono, oltre ai circa 800, tra professori, ricercatori di ruolo e a tempo determinato, molteplici altre figure: 450 dottorandi di ricerca, 100 assegnisti di ricerca, 400 specializzandi, oltre a svariate centinaia, tra borsisti e collaboratori occasionali.
Un capitale intellettuale – vicino complessivamente alle duemila unità – corrispondente, solo per ciò che concerne il personale di ruolo, a un investimento dell’Ateneo che supera i cinquanta milioni di euro all’anno in ore lavoro finalizzate alla ricerca scientifica. Quanto alle molteplici figure, non strutturate, dedicate alla ricerca, questa Amministrazione ha, nell’anno in corso, triplicato il numero degli assegni di ricerca cofinanziati con propri fondi (da 10 a 29) e portato da 40 a 53 le borse di dottorato bandite per il prossimo ciclo triennale.
Quanto alla produzione scientifica di questa Università, così come censita dall’Anagrafe nazionale della ricerca, essa si è tradotta, nel 2009, in oltre 1100 pubblicazioni, più di metà delle quali di rilevanza internazionale.
Non sorprende, dunque, che l’Ateneo triestino vanti tuttora elevate prestazioni sul duplice piano della capacità attrattiva di finanziamenti esterni e delle posizioni raggiunte nei principali ranking internazionali.
In particolare, la nostra Università si colloca, secondo dati ministeriali, tra le prime venti, a livello nazionale, per capacità attrattiva di finanziamenti europei, come dimostrato dai circa sei milioni di euro acquisiti in seno al Settimo Programma Quadro. Analogamente, si può dire per i Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale (cosiddetti PRIN), in relazione ai quali, l’Università di Trieste ha conseguito, nell’ambito dell’ultimo bando nazionale, un importo complessivo di circa un milione e seicentomila euro, guadagnandosi, ancora una volta, il secondo posto, tra gli Atenei del Triveneto, per l’entità delle risorse acquisite e registrando altresì un incremento significativo dei progetti finanziati (da 53 a 67).
Indicatori positivi di qualità ci vengono pure da agenzie e organismi di valutazione, anche internazionali.
Quanto ai principali ranking nazionali, il nostro Ateneo è risultato quest’anno terzo, in quello pubblicato dal Sole 24ore, sulla base di dati elaborati dal Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario e quarto (era ottavo, lo scorso anno), in seno alla classifica 2010-11 del Censis, con la seconda posizione conseguita dalle facoltà di Farmacia, Giurisprudenza, Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, nonché Scienze Politiche.
In campo internazionale, l’Università di Trieste è risultata, nelle scorse settimane, il primo ateneo italiano, secondo la classifica delle migliori cinquecento università al mondo, stilata dal Times Higher Education, sulla base di indicatori raggruppati per qualità della docenza, volume e qualità della ricerca, citazioni guadagnate dai prodotti di ricerca, innovazione, internazionalizzazione.
Ancora, pure secondo il recente QS World University Ranking 2010, l’Ateneo triestino è collocato fra i 500 atenei migliori al mondo, in ragione di indicatori come la qualità della ricerca, l’inserimento nel mondo del lavoro dei laureati, le risorse dedicate all’insegnamento e l’impegno per l’internazionalizzazione, elaborati sulla base di una combinazione di sondaggi di opinione e dati, ivi incluse le citazioni tratte da Scopus (il più esteso database al mondo di pubblicazioni accademiche).
Da ultimo, è dei giorni scorsi la notizia che la graduatoria di istituzioni eccellenti, messa a punto per il 2010 dal prestigioso Centro per lo sviluppo dell’educazione superiore (CHE) di Gütersloh, in Germania, include l’Università di Trieste per i suoi Corsi di Laurea Magistrale e di Dottorato in Fisica. Ebbene, l’Università di Trieste è una delle 13 istituzioni universitarie italiane presenti nella graduatoria, che conta in totale 130 istituzioni in tutta Europa.
E in questo panorama di “distinzione” non vanno dimenticati alcuni riconoscimenti individuali, come la recente nomina del prof. Maurizio Prato, ordinario di Chimica organica, a socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei e – notizia della scorsa settimana – il conferimento, da parte del Presidente Obama, del premio “Pecase” – che annualmente viene attribuito ai migliori giovani scienziati che operano negli Stati Uniti – al dott. Eugenio Culurciello, nostro laureato in Ingegneria, oggi phd all’Università di Yale.

Frutto della produzione scientifica dell’Ateneo è anche l’attività di trasferimento di conoscenza verso il tessuto produttivo, in chiave di determinante contributo ai processi d’innovazione. In particolare, l’Ateneo triestino vanta una consolidata prassi di trasferimento tecnologico, scandita nella filiera che, dal laboratorio passa al brevetto e, di qui, all’industria. In concreto, l’attività brevettuale dell’Università ha dato luogo, a oggi, al deposito di ben 36 famiglie di brevetti, quattro in più rispetto allo scorso anno, che hanno originato, a loro volta, 81 depositi nazionali, contro i 69 del 2009: uno standard di produttività che – per numero di brevetti, rapportato ai ricercatori delle distinte aree scientifiche – pone l’Ateneo a un livello di gran lunga superiore alla media nazionale, collocandolo tra le migliori università italiane.
Sempre in tema di trasferimento tecnologico, non va trascurato che il nostro Ateneo contribuisce allo sviluppo economico del territorio, con l’incubazione di proprie imprese, gemmate da ricerche universitarie. È questo il caso degli spin off, presenti nel numero complessivo di undici, metà dei quali costituiti solo nell’ultimo biennio. Si tratta di realtà ad alto tasso innovativo, come certificato anche a livello nazionale: emblematico, al proposito, il fatto che nel 2010, vincitore assoluto del “Premio Start up dell’anno” – riconoscimento conferito alla migliore impresa innovativa nata da investimento pubblico – sia stato lo spin off Genefinity, costituito nel 2006, su iniziativa di un gruppo di ricercatori di Ingegneria dei materiali.

I dati rapidamente passati in rassegna rappresentano, solo in parte, la considerevole produttività dell’Ateneo e i traguardi organizzativi raggiunti, in un anno di impegno collettivo: traguardi cui hanno concorso anche relazioni sindacali improntate al costante rispetto dei ruoli e delle responsabilità.
I limiti di tempo non consentono di dar conto, se non per sommi capi, della mole di interventi posti in essere nei diversi ambiti dell’amministrazione, strumentali all’assolvimento delle funzioni istituzionali dell’Ateneo.
Un’attenzione particolare meritano, sotto questo profilo, l’edilizia e i servizi agli studenti.
Quanto alla prima, è proseguito il ripensamento della città universitaria, nella direzione di un contenimento della frammentarietà, a favore della riqualificazione degli spazi e del contenimento degli sprechi. Particolare attenzione, in quest’ottica, si è data, per un verso, al progressivo adeguamento, ai dovuti standard di sicurezza, degli ambienti di lavoro e di studio, nonché, per un altro, al recupero di aule per la didattica, in crescente fabbisogno. Sotto quest’ultimo profilo, cruciale è stato l’apporto dato, in termini di ottimizzazione nell’uso degli spazi, dal sistema informatizzato di gestione delle aule introdotto negli scorsi mesi, cui si è affiancata una serie di interventi di recupero di nuovi ambienti didattici, che proseguirà nei prossimi mesi, nell’ottica di raggiungere l’autosufficienza.
Da segnalare, tra l’altro, come si siano conclusi, dopo un lungo contenzioso risalente ai primi anni 2000, i lavori di riedificazione e di ampliamento dell’edificio “Q” del polo di Piazzale Europa, capace di oltre 3500 mq, tra aule, laboratori, studi e spazi comuni. È dunque già in atto il trasferimento nel nuovo edificio del Dipartimento di Scienze della Vita, che vede finalmente raccogliersi la sua numerosa comunità, sinora distribuita in diversi insediamenti, non sempre adeguati ai moderni requisiti.
Nel polo umanistico del centro storico, è stato completato l’iter di progettazione dei lavori di riqualificazione dell’immobile di Via del Lazzaretto Vecchio 8 ed è stata indetta la gara per l’affidamento di tali lavori, all’esito dei quali, grazie alla revisione imposta al progetto preliminare del 2005, sarà ricavato un intero piano ad aule, per complessivi 240 posti.
Sempre nel polo umanistico, con il completamento, sia dei lavori di restauro conservativo dei serramenti esterni, sia di quelli di realizzazione di un’aula da circa 100 posti al 4° piano, si sono conclusi gli interventi sull’edificio di Via Tigor, 22, sede della Facoltà di Scienze della Formazione, sottoposto altresì a un complessivo recupero di spazi, precedentemente non utilizzati. In tal modo, è stato possibile accogliere all’interno di tale edificio anche le attività didattiche e di ricerca di Scienze della Formazione, prima allocate presso la sede di Via D’Alviano, nel frattempo restituita alla proprietà.
Nel Comprensorio ex OPP di San Giovanni, si è proceduto all’affidamento dell’incarico di progettazione definitiva ed esecutiva degli interventi di riqualificazione del Padiglione F e delle Vecchie Cucine, destinati ad accogliere le strutture didattiche e di ricerca di Psicologia.
Ancora, nell’ambito del progetto di messa in sicurezza e di adeguamento funzionale di questo edificio centrale, si è dato corso ad alcuni interventi, concretizzatisi nel recupero di due nuove aule, per complessivi 140 posti, e nella riqualificazione del Rettorato, oggi divenuto, in forza del vincolo apposto dalla Soprintendenza, insediamento museale della collezione di opere acquisite dall’Università, a seguito dell’Esposizione Nazionale di Pittura italiana contemporanea del 1953.
Novità significative si sono realizzate anche per ciò che concerne i servizi agli studenti, con riguardo soprattutto all’adeguamento alle nuove tecnologie multimediali.
Tanto vale per il Progetto Campus digitali, grazie al quale è stato possibile, da un lato, estendere a tutto il comprensorio universitario la copertura wifi, dall’altro, avviare a sperimentazione la verbalizzazione on line degli esami di profitto, con effetti benefici sui tempi e sull’efficienza nella gestione delle carriere.
Negli scorsi mesi, l’Ateneo ha fortemente innovato anche i propri canali di comunicazione istituzionale, aprendo pagine ufficiali su Facebook e Youtube, nonché entrando a far parte, unico Ateneo italiano con altri tre, della piattaforma iTunes University, nella quale un canale, appositamente dedicato all’Ateneo triestino, ospita da qualche settimana più di un centinaio di video, di contenuto scientifico e didattico, accessibili gratuitamente, mediante un qualsiasi pc o dispositivi mobili come l’iPod, l’iPhone e l’iPad.
Sempre sul versante dei servizi agli studenti, è frutto dell’intensa collaborazione con l’E.r.d.i.s.u. di Trieste e del contributo della Federazione Italiana Mediatori Agenti d’Affari, l’attivazione, dal luglio scorso, del nuovo portale web “locazione trasparente”, che offre, alla ricerca degli interessati, una vasta gamma di opportunità di locazione, a condizioni contrattuali vantaggiose e trasparenti.

Un utile riscontro dei progressi compiuti in un anno emerge guardando ad alcuni obiettivi strategici che, nell’aprire lo scorso anno accademico, ponevo in risalto, inquadrandoli in parole-chiave come rete, trasparenza, responsabilità.
Con logica di rete, abbiamo perseguito, nei mesi scorsi, nuovi obiettivi d’integrazione con l’Università di Udine e con la Sissa: con la prima varando i già ricordati, nuovi corsi di laurea magistrale, tanto in area umanistica, quanto scientifica; con entrambe prefigurando innovati assetti per la formazione universitaria di terzo livello e, in particolare, puntando a istituire le prime scuole di dottorato regionali. Tutto ciò è avvenuto avendo come stella polare, non tanto la razionalizzazione della spesa, quanto piuttosto la salvaguardia e l’incremento degli standard di qualità dei nostri percorsi formativi, in prospettiva di accentuata competitività internazionale del nostro sistema universitario regionale.
A tal fine, decisivi sono stati gli interventi di sostegno/incentivo, quali quelli adottati, dall’amministrazione regionale, sotto l’impulso dell’allora assessore Alessia Rosolen.
Con logica di trasparenza, questo Ateneo ha completato, nell’anno appena trascorso, un impegnativo percorso di ricognizione e studio che gli ha consentito, nel luglio passato, di pubblicare il primo bilancio sociale. È questo uno strumento – finora adottato solo da una decina di atenei – essenziale per la valutazione dell’attività gestionale e per il supporto a più maturi processi decisionali: destinato a concorrere, allo scopo, con la contabilità economico-patrimoniale, alla cui introduzione stiamo lavorando, sempre in raccordo con gli altri Atenei regionali.
Con logica di responsabilità, abbiamo rafforzato, nei mesi scorsi, i presìdi di valutazione interna all’Ateneo, dotando la nostra organizzazione di nuovi organismi, destinati ad affiancare il preesistente Nucleo di Valutazione di Ateneo: l’Organismo indipendente di Valutazione (OiV-tecnico), previsto dall’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2009, quale soggetto titolare della funzione “locale” di controllo dell’andamento del cosiddetto sistema di misurazione e valutazione della performance dell’amministrazione e la Commissione di Valutazione della Ricerca, incaricata di monitorare e di valutare l’attività scientifica dell’Ateneo, con riguardo, tra l’altro, alle pubblicazioni, alla promozione e all’attrazione di risorse per la ricerca.
Dobbiamo alla coerenza con tali principi ispiratori delle nostre politiche se questo Ateneo ha potuto sinora assicurare, con i risultati di eccellenza prima illustrati, costante rigore nella tenuta dei conti – mai in rosso – e il risanamento di squilibri nella spesa per il personale ereditati dal passato.
A quest’ultimo proposito, se un anno fa avevo potuto esporre i progressi segnati nella direzione del rientro verso l’equilibrio della spesa stipendiale, perseguito mediante una coraggiosa azione di “prepensionamento” del personale docente e tecnico-amministrativo, oggi posso confermare che il traguardo è stato raggiunto, con la discesa del rapporto tra massa stipendiale e fondo statale di finanziamento ordinario, al di sotto della percentuale del 90%. Un risultato, questo, che senza enfasi si può definire straordinario, se si considera che il nostro Ateneo è stato l’unico a conseguirlo, mentre si è allargata la cerchia delle università non “virtuose”.
Ebbene, grazie al risanamento in parola – conseguito, è bene sottolinearlo, esclusivamente con le nostre forze e a dispetto di una congiuntura contrassegnata da risorse calanti – è stato possibile riprendere le assunzioni: in particolare, è stato pubblicato, nello scorso agosto, un bando per 34 di posti di ricercatore e si è proceduto alla stabilizzazione di 27 posizioni di personale tecnico-amministrativo “stabilizzando”.
Un risultato, questo, che sebbene insufficiente, in cifra assoluta, a contrastare il forte decremento patito dal nostro organico negli ultimi anni, si pone obiettivamente in netta controtendenza rispetto a un quadro dell’occupazione che registra, nel nostro Paese, indici di preoccupante flessione, tanto nel settore pubblico, quanto in quello privato.

Il quadro descritto sinora, con i suoi risultati e con i rilevanti traguardi conseguiti, parla del lavoro, tenace e spesso nascosto, di migliaia di persone che, in questa comunità, operano ogni giorno. Uso ripetere – e lo faccio anche in questa occasione – che nessun contributo, per quanto apparentemente marginale, è irrilevante ai fini del benessere e del progresso collettivo cui l’azione di ciascuno concorre.
Non vorremmo tuttavia che l’efficienza e l’innovazione organizzativa di cui siamo stati capaci come comunità, facesse passare in second’ordine, quasi rendendolo incomprensibile, l’allarme più volte lanciato, anche nelle ultime settimane, da questo Ateneo – così come coralmente dall’intero sistema universitario nazionale – circa l’immediato futuro di ricerca ed alta formazione.
Per parte nostra, elencare risultati e riconoscimenti equivale, qui, a denunciare la scarsa o nulla sensibilità che troppe volte abbiamo registrato nelle alte sedi istituzionali e dissuadere da facili suggestioni, come quella, in voga in certa stampa, secondo la quale il sistema universitario recupererebbe competitività una volta costretto, a colpi di tagli, a una sorta di lotta darwiniana per la sopravvivenza.
L’esperienza mostra semmai il contrario. E cioè che gli sforzi autoriformatori delle singole comunità, per quanto efficaci, non possono avere la meglio su linee politiche generali che vi si pongano in contrasto, vuoi sotto il profilo delle strategie perseguite, vuoi sotto quello delle risorse allocate.
I due piani – strategie e risorse – non sono, all’evidenza, indipendenti l’uno dall’altro, essendo storicamente dimostrato che nessun governo della cosa pubblica è credibile, senza adeguati investimenti e che, d’altro canto, l’entità del sostegno in parola è specchio del grado di priorità che, a una determinata funzione, le istituzioni responsabili dell’indirizzo politico assegnano.
Ebbene, una spassionata ricognizione degli sviluppi dell’ultimo anno giustifica il nostro allarme e la nostra denuncia.
Quanto alle riforme, l’anno che ci lasciamo alle spalle ha registrato, sul piano nazionale, esiti che oscillano tra l’inavvedutezza dell’azione riformatrice e l’ennesima penalizzazione del sistema universitario.
D’inavvedutezza si deve parlare con riguardo al disegno di legge n. 1905, cosiddetto “Gelmini”, destinato a riformare il sistema di governo delle università, a introdurre un nuovo sistema di valutazione e a ridisegnare gli istituti del diritto allo studio, nonché i meccanismi di reclutamento della docenza. Al di là delle scelte d’indirizzo recepite nella manovra, non sempre condivisibili, preme qui notare come il disegno di legge abbia dovuto fare i conti con l’assenza di copertura finanziaria. Già lo scorso anno, avevamo ammonito, in questa stessa aula, circa i rischi connessi alla sottovalutazione delle implicazioni di spesa indotte da un manovra di tale portata: considerazioni non peregrine, se, come si è visto, l’iniziativa di legge ha subito, nelle scorse settimane, una battuta d’arresto in sede parlamentare, sotto i vincoli dell’art. 81 della Costituzione e dei troppi incisi “senza oneri per la finanza pubblica”.
Una sottovalutazione, va detto, difficilmente giustificabile, ove si riconosca che riformare i concorsi universitari senza risorse, ovvero introdurre inediti congegni di valutazione della produttività di strutture e persone o, ancora, parlare di diritto allo studio a costo zero, equivale, nella sostanza, a candidare al naufragio qualsiasi riforma, ponendo le premesse per un aggravio di quelle patologie o disfunzioni del sistema che, negli intenti, si vorrebbero contrastare.
L’unica normativa varata dal Parlamento in materia di università è, dunque, quella uscita dalla conversione in legge del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”), con il quale, tra l’altro, si è introdotto, in modo indiscriminato, il blocco triennale delle progressioni stipendiali, con conseguenze di odiosa iniquità nei confronti dei più giovani, soprattutto ricercatori, titolari di trattamenti retributivi modesti, nonché del personale tecnico-amministrativo, e con l’ulteriore, paradossale effetto di neutralizzare i meccanismi premiali, voluti dallo stesso ministro Gelmini, con il precedente decreto-legge n. 180 del 2008.
Anche sul fronte regionale, non costituisce un segnale incoraggiante il ritardo subito, negli ultimi mesi, dall’iter di discussione del disegno di legge in materia di finanziamento al sistema universitario regionale. L’effetto, a questo punto irreversibile, di tale ritardo è che le università saranno assoggettate, anche per il 2011, al finanziamento su base storica, senza peraltro che ne sia, a oggi, ancora noto l’importo. Ma il prezzo più gravoso del ritardo è di ordine sistemico: da tempo, le università regionali vengono sollecitate a lavorare in ottica di integrazione reciproca ed è ciò che gli Atenei di Trieste e di Udine stanno facendo, con realizzazioni – l’ultima delle quali segnata dalla messa in comune dei rispettivi sistemi bibliotecari – portate a compimento senza neppure attendere interventi incentivanti dall’alto. Deve tuttavia essere chiaro che ritardi e battute d’arresto hanno un prezzo, perché solo da una coraggiosa spinta riformatrice, impressa da chi detiene la regia del finanziamento, può venire il superamento di vecchi assetti distributivi, ormai anacronistici, e di antiche rendite di posizione, tuttora largamente riscontrabili nella spesa regionale finalizzata a ricerca ed alta formazione.
Non si tratta, infatti, di limitarsi a intervenire sulla rete regionale delle università, ma è urgente una ponderata riconsiderazione del complessivo sistema di finanziamento regionale a ricerca e ad alta formazione, che va affrancato da ogni logica di distribuzione a pioggia, ridefinendo, con rigore e oggettività, la mappa dei numerosi enti beneficiari.
In termini non dissimili, il tema dell’eventuale trasferimento delle competenze in materia di università dallo Stato alla Regione, nel quadro del processo di attuazione del federalismo fiscale, avviato dopo il varo del nuovo titolo quinto della Costituzione, si è affacciato al dibattito politico delle ultime settimane con il preoccupante lessico dell’operazione meramente contabile, disgiunta da un’assunzione di responsabilità politica su una materia di tale portata e da una connessa espressione di strategia. Nostro malgrado, abbiamo dovuto registrare, ancora una volta, il perpetuarsi, nel dibattito politico sulla questione, di stereotipi campanilistici, incapaci di prefigurare adeguate risposte alle sfide del mercato globale della conoscenza e del tutto sterili, anzi perniciosi, per le sorti delle future generazioni.

La questione cruciale rimane, tuttavia, quella del finanziamento statale. Nei giorni scorsi, chi vi parla ha lanciato un forte allarme sugli organi di stampa, per ciò che concerne i rischi di paralisi cui questo Ateneo, come la maggior parte di quelli italiani, andrebbe incontro, ove restassero immutati i tagli inferti al fondo di finanziamento statale, a opera della legge n. 133 del 2008 e dalle successive manovre finanziarie: tagli quantificabili, sommando la percentuale del 2010 a quella del 2011, nel 18%. In particolare, le simulazioni fatte dai nostri uffici finanziari hanno reso evidente che, ove di tale entità si trattasse, il trasferimento statale precipiterebbe dagli oltre 100 milioni di euro del 2009, a 88 milioni per il 2011, mettendo così a repentaglio, oltre alla funzionalità essenziale dell’istituzione, la stessa massa stipendiale, quantificata oggi in oltre 92 milioni l’anno.
Abbiamo appreso, da ultimo, dell’iniziativa del Governo, di inserire, nel cosiddetto maxiemendamento al disegno di legge di stabilità 2011, uno stanziamento di circa un miliardo di euro, a integrazione del fondo di finanziamento ordinario per le università. Al riguardo, occorre fare alcune precisazioni che, senza nulla togliere alla rilevanza del passo politico, evitino fraintendimenti.
Anzitutto, non deve passare inosservato come, per il second’anno, la correzione dei tagli giunga all’estrema vigilia dell’esercizio su cui essi andrebbero a incombere e, peraltro, nel tipico quadro di fluidità di ogni manovra finanziaria in itinere: ciò comporta, per le università, l’impossibilità di elaborare, con adeguata consapevolezza, i propri documenti di previsione e, quel che è peggio, di programmare le proprie strategie, con quella gittata pluriennale, che solo una congrua stabilità finanziaria può consentire. Stretti tra le cifre dettate dalla legge n. 133 e i correttivi che, mese dopo mese, si fanno oggetto di spasmodica attesa, gli Atenei sono infatti costretti a una programmazione di corto respiro, trovandosi nell’obiettiva impossibilità di intraprendere quelle azioni di più ambizioso orizzonte, che pure si imporrebbero, in una logica di competizione internazionale.
Ancora, non deve sfuggire, in termini quantitativi, che si tratta di un importo neppure sufficiente a mantenere invariate le risorse attese per il 2010, già peraltro assoggettate a un taglio di circa il 4,5%. Dunque, denaro che garantirebbe sì la sopravvivenza del sistema, ma non certo il rilancio o lo sviluppo nella misura auspicabile, almeno guardando ai modelli europei più avanzati.
A quest’ultimo proposito, può valer la pena rammentare che il nostro Paese continua a distinguersi per l’insufficiente finanziamento devoluto a formazione e ricerca. Da ultimo, e limitandosi alla fonte più recente, il rapporto OCSE del 2010, reso noto nel settembre scorso, mostra impietosamente come, tra i 33 paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, l’Italia si collochi al penultimo posto, per spesa nell’istruzione pubblica, in ciò seguita solamente dalla Slovacchia.
Dunque, il nodo delle politiche che in Italia investono l’università è profondo ed esige che l’azione di governo sia spostata dal piano della mera sopravvivenza del sistema a quello della ridefinizione dell’agenda di priorità per il Paese: il quale non è sprovvisto di risorse, ma semmai necessita di vedere queste ultime orientate secondo una ridefinita scala di valori e conseguenti priorità.
Siamo ben consci che le ragioni ultime di questo stato di cose sono storicamente assai remote e, in ultima analisi, di ordine culturale. È stato scritto, con cruda efficacia, che “l’istruzione è il capitolo più triste della storia sociale italiana, un capitolo di penosa avanzata, d’indifferenza nazionale a un bisogno primario, di un ritardo presente” e, analogamente, che “poche cose in Italia hanno bisogno più urgente di riforma che non l’istruzione secondaria e universitaria”. È imbarazzante che queste parole portino la firma di due osservatori stranieri, autori di un rapporto dal titolo “L’Italia d’oggi”, pubblicato nel 1904.
Eppure siamo convinti che da queste considerazioni occorra muovere, proprio nel momento in cui il Paese si accinge alla ricorrenza dei centocinquant’anni della sua unità, turbato da una temperie densa di incertezze e di lacerazioni.
Per chi non intenda quella ricorrenza come vuoto esercizio retorico, ritornare alle ragioni fondanti della nostra identità nazionale può essere occasione preziosa per ritrovare, in un innovato patto di cittadinanza universale, il senso profondo dell’appartenenza a un comune destino.
Ebbene, affrontare il presente con questa consapevolezza, significa convenire che scuola, università e ricerca sono funzioni connettive di ogni comunità e che dalla loro forza, ovvero debolezza, dipende la capacità collettiva di fronteggiare le sfide del domani.

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