2 Novembre 2010

Un triestino in Macedonia: cronache da un cultural dumping

Viaggi Nuova puntata del diario di Pietro Della Rocca, triestino 23enne che ha trascorso due mesi in Macedonia, come insegnante di italiano all’Università di Prilep. Qui le puntate precedenti del racconto.

5 maggio

Oggi è il mio penultimo giorno in cui tengo lezione a Prilep.
Domani è la mia ultima volta da professore universitario in Macedonia. Anzi: l’ultima volta da professore universitario e basta, probabilmente. Almeno per un bel po’.
Mi dispiace. Per il lavoro, e anche per la Macedonia. E mentre la guardo dai finestrini che corrono nel consueto viaggio tra Bitola e Prilep vedo tutt’altre sensazioni rispetto a quelle dell’inizio della storia. E sì, il mio vicino in bus mi parla, usa francese inglese spagnolo mescolati a macedone. Come il primo vicino di viaggio e tutti quelli dopo. Bhè il migliore era senza dubbio quello che mi parlava in latino: un buon latino. Mi pare avesse una ditta di import-export. Poi c’era la ragazza che lavorava nella tutunska (fabbrica di tabacco) come responsabile risorse umane, e il tecnico informatico che cercava lavoro, o il programmatore che voleva cambiarlo, l’aspirante cameriere su navi da crociera e l’appassionato di pallavolo femminile… Così faccio fatica, adesso nell’abitudine, a ricordarmi quelle che eran le mie impressioni del primo impatto: sul treno da Skopje a Prilep un mese e mezzo fa – un anno fa.
Fuori, attorno all’autobus – che ha un enorme scritta Lavazza sulla fiancata – si svolge il solito teatro, dove asini e contadini son attori di una semplicissima commedia che tratta di miseria con stanca allegria.
Ma non mi soffermo più a guardar la magrezza delle poche mucche – confrontandole invano con le loro pasciute colleghe tedesche – guardo piuttosto i movimenti dei contadini. Intenti con la pompa a far bere il tabacco, o a eliminare dal campo i clandestini: sempre chini a strappar fogliette pattugliando metro per metro.
Cresce in fretta il tutun, mi avevan detto quando son arrivato a Prilep, in una città interamente marrone. Marroni le vie tracciate nel fango. Marroni gli edifici per le gabbiette del tabacco che li nascondono. Marroni le pietre brulle di Marko vi Kuli, dalle quali vedevo sotto di me marroni i campi dove qua e là passeggiavano asini – marroni anche quelli. Ma ora, dopo un’ora in cui mi son riempito dall’autobus del verde del tabacco, ne contemplo a piedi le piantine ormai alte 20cm: sono ovunque, verdi e brillanti. Verdi e brillanti come la speranza che da qualche parte han tirato fuori gli abitanti di questa città ormai completamente verde in cui solo gli asini non hanno cambiato colore tra le vie di terriccio illuminato sotto erba e foglie che segnano la strada verso i prati di Marko vi Kuli, scoscesi su piantagioni smeraldo.
Finisco le mie lezioni di oggi, e ridiscendo dalla facoltà verso la stazione per la strada principale: quella dove in mezzo ai carretti trainati da asini o cavalli sfrecciano lada e zastava – entrambe leste a inchiodare di botto prima dei dissuasori di velocità, quanto a buttarsi con impeto contro i marciapiedi.
L’autobus è in ritardo di 45minuti. ‘non mi sorprende’ dico a Dimitar, che subito dopo si diverte con la mia faccia allibita nel veder che oggi pei tanti pendolari c’è solo un vecchio transit bianco a 10 posti. Ma entriamo in parecchi, stivati in piedi appoggiati gli uni agli altri. Dentro la gente urla e ride forte mentre son schiacciato contro il sedile di un uomo con un parrucchino piuttosto ridicolo e una camicia gialla a quadri. Gli occhietti piccoli e offuscati tradiscono un eccesso nel bere che giustifica i pantaloni completamente aperti.

6 maggio

Mai stato a mangiare nella macedonian hause? Ok, ti ci porto io adesso a pranzo
Mi fa Irena. In effetti sarebbe stato un peccato non andarci. Mi guida per Prilep per stradine decentrate, alle spalle degli edifici, tra giardini poco curati e il vociare della piazza del mercato – un ampio spiazzo di ghiaia e terra pullulante di vecchi baracchini mobili, mezzi vuoti di mele arance semi e ben poco altro misto a cianfrusaglie.
Qualche svolta ancora e vedo sullo sfondo stagliarsi un campanile beige con una guglia nera
– Non l’ho mai visto!
– E’ greco, lascia stare
Ancora pochi minuti tra i clacson e lo sferragliare delle vecchie yugo e siamo davanti a un’aia. E’ chiusa da una ringhiera in ferro battuto e un portale in pietre bianche completato da un tetto di tegole rosse con un’insegna vagamente liberty ‘нашионален ресторан македонска куќа’ che lo sovrasta.
Varchiamo il portale, lo stargate, e tutto tace.
In un angolo dell’aia – dietro a bauli e vecchie casse accatastate – c’è un antico carro in legno tarlato. Fa il paio con quello sfasciato dall’altro lato, del quale ormai rimane solo lo scheletro: come i relitti delle navi romane. Tendoni verdi fanno ombra su dei tavolini davanti a noi, che costeggiano un edificio basso con archi e decorazioni in mattoni rossi. Altri bauli, altre vecchie casse, varie ruote di legno son appoggiate all’ingresso. Dentro la radio manda canzoni folk macedoni nel buio. Nel sole accecante dell’aia non riesco a ottenere nessun preludio di quei che vedrò una volta entrato.
Rimango a bocca aperta nella penombra, tanto che Irena mi deride, dice che mi guardo attorno come un bambino. Ma sono come un bambino: guardo i muri grezzi, coperti a trequarti da antico legno scuro, e guardo i strani abiti storici appesi lassopra assieme alle armi e – come un bambino – sono rapito in un altro mondo di fantasticherie, che si moltiplicano quando mio sguardo avido trova icone annerite poggiate alle mensole stracariche di vecchi arnesi da cucina e crocefissi impolverati. E vago tra gli archi e la piccola fontanella, i tavoli colla tovaglia rossa ruvida davanti alle panche costruite con tronchi legati assieme e giusto un asse. Mi siedo. E a quel punto vedo le lampade e gli orologi, un tamburo alla parete che nasconde altre pentole o cucchiai. L’odore del cibo è intenso, anche troppo, la musica mi culla.
Sfoglio il menù, in cirillico, e fermo Irena prima che mi aiuti: ormai col mangiare me la cavo abbastanza. Cerco skara, eccola, kebapi ok, plejskavica ok, golbas domasinka ok, USTIPEC. Ustipez?
– Cos’è?
Nesdam (non so)
Lo provo. Una specie di plejskavica fatta a forma di salsiccia: un enorme cevapcicio in mezzo alle patate. Assieme arriva un cesto di ‘NEFORA’: fette di pane appena tostato coperte di paprika origano e sirenje (formaggio bianco) grattugiato.
Prendo anche un bicchiere di crveno vino (vino rosso) che nonostante sia dolce si sente esser decisamente forte. Pago in tutto 150dn. Per divertimento provo a tradurre in euro: 2,45€

7 maggio – cronache da un cultural dumping

Eppure ero uscito solo per comperar il latte…e adesso son immerso tra bandiere dell’Unione Europea.
Ero quasi arrivato a Vero – il negozio che tra tutti è il più simile a un supermercato – quando 2 lampeggianti blu su una moto han tagliato la solita ressa della Sirok Sokak. Sul sellino il passeggero brandiva la bandiera gialla e rossa macedone, dietro lo rincorrevano una cinquantina di biciclette: ragazzi e ragazze tutti colla bandiera europea attorno al collo – la stessa che sventolava dietro alla moto di retroguardia. Mi son incuriosito, e invece di prender la porta a vetri e la sua scritta влез ho tirato dritto verso Sato. Ed eccomi qua, ad ascoltar un coro di bambini: in mezzo a bancarelle spagnole slovene ceche cipriote francesi tedesche slovacche…tutte colla brava bandierona blu stellata. Ah, la patria!
Dal palco – dove i piccoli coristi sventolano bandierine dell’Unione – si susseguono senza tregua canzoni in francese, tedesco, spagnolo: ogni volta un bambino o bambina differente, che canta nella propria lingua. Un’allegra escalation che non cessa mai: mentre si passano microfono e postazione da solista gli altri a voce unica proseguono in un giocoso ‘trallallallà’ che tiene per mano polke e ritmi mediterranei. Un megafono ripete alla folla la bellissima parola d’ordine impegnativa per tutti. ‘we together!’. Una flotta di bambini, bambine, ragazzi e ragazze – tutti bellissimi e tutti con divisa cobalto e schiena stellata – offron tortillas, dolci alle mele, bretzel, crostate e bomboni. Tra una canzone che credo olandese e una forse slovena esplode il pezzo da novanta: ‘O sole mio’. A cantarla è un ragazzo più grande degli altri e un po’ tutti i macedoni che riempion la piazza gli mugolano dietro.
Sul palco i coristi son giallo vivo e arancione: sotto al sole brillano e splendono. Come brilla e splende il grande pannello azzurro sullo sfondo, col suo cerchio di specchi a 5 punte nel mezzo.
Il palco è sul confine del museo, la cui facciata ospita varie bandiere: macedoni e bianche rosse e blu. Alle spalle parte il grande minareto. Oggi si regge vecchio e decrepito. L’ottone della cima è di colpo annerito, come annerito è l’ormai vetusto palazzo del museo colle sue bandiere sbiadite e accartocciate: non come le stelle sventolanti sotto la vitalità di un esercito di bambini. Un esercito non convenzionale del quale tra la gente infuria la cavalleria leggera: piccole Heidi dai pometti rossi – lontane dal peso delle caprette – piroettano sui rollerblade, mentre palleggiatori funamboli in maglietta di Real Madrid, Inter, Barcellona, Bayern Monaco e Milan conquistano una nazione di invidiosi appassionati. WE TOGHETER! e poi il rush finale: lo regala Beethoven. L’inno alla gioia cantato da tutto il coro mentre nel fragore decollano palloncini blu. Da ovunque nella piazza, senza lasciare un angolo libero di cielo – prima troppo poco azzurro.

12 maggio

Stasera vado a Prilep: a trovar Stance e Nikola che tra domani e sabato tornano a casa – Probistip e Resen. Per intanto vado a studiare nel parco, qua ormai fa caldissimo, anche all’ombra. E in effetti son curioso di veder la casa di Stanka col caldo: me la ricordo gelida attorno alla piccola stufetta tra gli spifferi, e col bagno fuori – abbandonato nell’inverno. Ed è incredibile come 2 mesi possan cambiar tutto. Ero acquattato scomodamente stretto tra tavolo e letto, che mangiavo una minestra calda avvolto nel maglione implorando la stufa. Ora ci riposiamo fuori nel vialetto, maniche corte tra le piante di fragole, rinfrescandoci con un bicchiere di Pelisterka Cola. C’è ancora la stufetta, ma rigorosamente spenta, a servire da tavolo. Domando loro se si son accorti di quanto tutto sia diverso. Mi canzonano chiedendomi se voglio farmi una doccia. Si ricordan dell’altra volta. ‘you exit after less than 5 minutes, saying “i had a strong motivation to be fast”’. E cavolo, me la ricordo anch’io! Ma sembra lontanissima…un altro bicchiere di pelisterka.
– così torni a Trieste la prossima settimana, mi fa Stanka chissà come saran contenti i tuoi genitori: pensa che mio papà ha fatto un prestito in banca per spedirmi i soldi del biglietto da Prilep a Probistip. Così mi vede questi 10 giorni prima dei prossimi esami, non tornavo a casa da 2 settimane.
Arriva un amico di Stanka. Ha sentito parlar di me e mi offre un lavoro. ‘dobra pari (buoni soldi): government!’ . Vuole farsi capire da solo, e rifiuta di farsi tradurre da Stanka, ci mette la volontà: ma quasi solo macedone. Non si sa mai, gli lascio la mail.
BOOM! BOOOOMM! BOOBOMM…sordi e secchi.
Entrano in casa e mi fan cenno di seguirli: a me che ero già quasi dentro.
Qualcuno non ha l’umore di far festa stasera!
Ah! Non dico altro. Quando sei un professore d’italiano, abituato al lusso tanto che senti sparare e pensi a fuochi d’artificio, cosa puoi dire? Ti senti un cretino e basta.
D’altraparte il rumore era esattamente quello, ma Ivan ormai son 2 mesi che mi ripete il suo ‘Brat taz Balcans’. Un mantra fondamentale.

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3 commenti a Un triestino in Macedonia: cronache da un cultural dumping

  1. maurizio zupin ha detto:

    Nesdam? forse ,ma in particolere si dice Nesnam(non sò)
    asta siempre

  2. maurizio zupin ha detto:

    Crveno Vino = vino rosso ?
    Crveno vino = vino nero

  3. maurizio zupin ha detto:

    Crveno vino =vino scuro

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