13 Ottobre 2010

Scampoli di storia: Il problema dell’acqua attraverso i secoli a Trieste. I mulini della Val Rosandra e le cisterne cittadine

Siamo arrivati all’ ultimo articolo sul tema dell’ approvvigionamento idrico cittadino attraverso i secoli. Abbiamo visto le sorgenti e i pozzi pubblici o “fontanoni”; oggi parliamo delle cisterne cittadine, ma prima una breve divagazione sul torrente Rosandra che a partire dall’ epoca romana ha costituito una delle poche fonti di acqua esistenti sul nostro territorio anche se non ha mai contribuito al rifornimento idrico della città in considerazione della sua distanza dal centro abitato. Durante il II secolo prima di Cristo, Trieste riceveva l’ acqua da due acquedotti costruiti dai Romani. Il primo è quello di Timignano, con un tracciato che si snoda dal Monte Spaccato al Teatro Romano, all’ epoca situato sul fronte mare. Il secondo convogliava le acque del torrente Rosandra, trasportandole dalla località di Bagnoli fino al centro cittadino: ancora oggi, alcuni resti di quest’ opera sono visibili in Val Rosandra. Questi impianti furono distrutti dai Longobardi nel VI secolo dopo Cristo e, per molti secoli, gli abitanti della città furono costretti ad attingere l’ acqua potabile solo dai pozzi e da piccole sorgenti. Presso la foce del Rosandra una volta si estendevano grandi saline, fonte di notevole ricchezza fino al tardo Medio Evo. Proprio queste saline furono la causa delle guerre secolari con Venezia che causarono più volte la rovina della città ed in ultimo anche la sua decisione di mettersi sotto la protezione dell’ Austria piuttosto che sottomettersi alla Serenissima. Si può comprendere l’ eccezionale importanza di queste saline se si considera che l’ unico collegamento di Trieste con il retroterra era la via commerciale che iniziava appunto presso le saline e proseguiva, attraverso la valle della Rosandra, verso l’ interno. Contemporaneamente con il commercio del sale, sulla Rosandra crebbero anche i mulini per le spezie che raggiungevano per mare il porto di Trieste. Questi mulini in effetti trattavano i cereali solo marginalmente, in quanto vennero costruiti proprio per elaborare le droghe e le spezie che viaggiavano poi con il sale verso l’ Europa centrale. Il primo dato che si ha su questi mulini è un contratto di compravendita del 1276 dal quale si apprende che allora ve ne erano in funzione tre. Ma considerando che in tutto il circondario il Rosandra era l’unico corso d’ acqua in grado di azionare le pale di un mulino, si può capire che in breve tempo ve ne furono costruiti altri. Nel 1757 erano ben sedici, di cui uno a tre ruote. Sulla grande piazza che è tuttora il centro del paese di Bagnoli (Boljunec) all’ ingresso della valle, c’ era all’epoca un tipo di terminal per i carri che trasportavano le merci dalle barche e qui aspettavano il turno per la molitura. Sebbene gli ultimi mulini funzionassero ancora nel XX secolo, oggi praticamente non ne esiste più traccia. Quanto non venne demolito dalla guerra, rimase devastato dal tempo. Le gore, scavate con tanta fatica nella roccia, sono state ricoperte dalla vegetazione incolta o addirittura riempite da terra e detriti; le enormi macine furono fatte a pezzi ed impiegate, assieme alle pietre murarie dei possenti muri, nei rifugi durante l’ ultima guerra.
Torniamo adesso alle cisterne cittadine. Le cisterne sono vasche coperte che, secondo il luogo dove sono state realizzate, hanno assunto la forma che più si adattava alla configurazione del terreno o alla presenza d’ altre costruzioni limitrofe. Risulta strano che un sistema di raccolta dell’ acqua come quello delle cisterne sia stato usato abbastanza raramente a Trieste. La vasta presenza di tetti e di grondaie avrebbe reso facile, durante i periodi piovosi, l’ accumulo dell’ acqua che, conservata in serbatoi sotterranei, avrebbe potuto essere poi usata nei periodi di siccità. Nonostante la semplicità del procedimento, però, sono state ben poche le cisterne costruite in città. Si parlò svariate volte, infatti, della realizzazione di vasti serbatoi nella valle di San Giovanni ed un ampio contenitore sotterraneo era stato progettato nel 1847 davanti alla chiesa di San Giacomo, nell’ omonimo rione. Tali soluzioni furono però scartate, perchè i sistemi di filtraggio e di decantazione necessari per rendere potabile e sicura l’ acqua di questi grandi impianti, avrebbero comportato costi troppo elevati. Nei documenti consultati sono citate, infatti, solamente la cisterna sul colle della Fornace e quella nel cortile del Collegio dei Gesuiti. La prima risulta costruita sul colle di San Giusto, nei pressi della chiesa di Montuzza, e su una pianta topografica viene indicata con il nome “serbatoio dell’ Aurisina”, probabilmente in relazione ad un suo collegamento, in un secondo tempo, con l’ acquedotto cittadino.
Altre cisterne siano solitamente presenti, assieme ai pozzi, anche nelle maggiori fortificazioni militari cittadine. Il castello di San Giusto, per esempio, è dotato di un’ ampia cisterna, sita lungo il lato ovest del Piazzale delle Milizie. In molte occasioni per questo manufatto è stata usata, per semplicità, la definizione “pozzo”, ma una attenta verifica della struttura ha permesso di constatare che si tratta invece di un grande serbatoio di oltre duecentocinquanta metri cubi di capacità, profondo sedici metri, con un diametro massimo di quasi cinque metri, usato per la raccolta e la conservazione dell’ acqua. Le pareti perfettamente intonacate e la presenza di canalette originariamente collegate alle grondaie, non lasciano oggi alcun dubbio a proposito. Nel parco di villa Engelman si trovano altre due cisterne. Un’ altra cisterna molto interessante è stata rinvenuta lungo le pendici del colle di Scorcola all’ interno del cortile del convento delle “Figlie di San Giuseppe”.
(Le notizie riportate sono tratte dagli Atti dell’ VIII convegno Regionale di speleologia del Friuli-Venezia Giulia del 1999).

Tag: , , .

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *