23 Giugno 2010

Scampoli di storia: le case di tolleranza nella Trieste del Novecento

Rubrica a cura di Paolo Geri

La Città Vecchia ai tempi di Joyce contava circa 20.000 abitanti, che vivevano in condizioni di estremo sovraffollamento e disagio, spesso senza acqua corrente e servizi igienici. Questa, di tutta la città, era l’ area maggiormente abitata da gente di nazionalità italiana e religione cattolica (circa il 90 %) ed essendo prossima al porto ospitava perennemente un grande numero di gente di passaggio (900-1000, in media), per lo più marinai. In Città Vecchia si trovava anche la zona dei bordelli di Trieste, divisa tra il ghetto ebraico e l’area vicina al mare conosciuta come Cavana: vi operavano non meno di 40, 45 bordelli regolarmente registrati in cui almeno 250-300 prostitute offrivano i loro servigi a qualsiasi ora. Inoltre l’area vantava un altissimo numero di caffè a prezzi economici, trattorie, osterie e “petesserie” (bar che servivano economici superalcolici, tra cui anche l’ assenzio), che smerciavano giornalmente ingentissimi quantitativi di alcolici, ventiquattro ore su ventiquattro. Come risultato, spesso, si avevano in questa zona risse, aggressioni a scopo di rapina, accoltellamenti e omicidi come quello del 1904 compiuto da Antonio Freno di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Nel secondo dopoguerra ai tempi del Territorio Libero di Trieste, con la presenza di migliaia di soldati inglesi e americani, la zona di Cavana era frequentatissima e luogo di violentissime scazzottate fra i militari dei due eserciti (fra i quali – almeno a Trieste – non corse mai buon sangue) interrotte a fatica dalla Military Police che in quei vicoli stretti non poteva utilizzare le sue jeep. Cavana rimase, anche dopo la chiusura “ufficiale” delle case chiuse la zona della prostituzione “povera” che si trasferì in case private o direttamente in piazza Cavana.
Tra i triestini che rifornivano i tenutari delle case, spicca il nome di Antonio Frenich, detto Totò lo Slavo. Nel 1928 gestiva nove ragazze. Cinque italiane tra cui alcune concittadine, una francese e tre di lingua tedesca. A questo personaggio lo scrittore Giancarlo Fusco, autore dell’ indimenticato saggio “Quando l’Italia tollerava”, ha dedicato un paio di pagine del suo libro. Antonio Frenich fumava 80 sigarette al giorno ed era sempre in viaggio, per questioni di “lavoro”. Aveva sparpagliato le sue ragazze per tutta Italia. Era così costretto a passare le giornate in treno. Certe volte ne aveva una a Milano, una a Napoli, una a Cagliari e un’altra a Bari. Tra rapidi e piroscafi non faceva una piega. Sempre fresco, ben sbarbato, profumato, stirato col suo brillante sul mignolo, il suo portasigarette d’oro da un etto e mezzo, coi suoi gemelli coi rubini. Aveva una sua “filosofia di vita” ben distinta da quella dei padroni delle case chiuse. “Te vol la panza piena, le braghe stirade come rasori, donne de sultan, alzarse alle undese, tutto senza cali sule man? Te pretendi che la zente che campa la vita sudando te guardi ben? Ma va là ! Lassa che i te guardi mal, mentre ti te magni ben” (“Vuoi avere la pancia piena, i pantaloni stirati come rasoi, donne che neanche un sultano, alzarti alle undici e tutto senza avere i calli alle mani ? E pretendi che la gente che tira avanti sudando ti guardi bene ? Ma va là. Lascia che ti guardi male mentre tu mangi bene”). Totò lo Slavo sparò le sue ultime cartucce nella tolleranza crepuscolare della Repubblica di Salò. Aveva ormai passato i cinquant’ anni. Trovava ancora ragazze da collocare, finchè tanto per restare nell’ambiente divenne l’amante di una ricchissima tenutaria di Vercelli. Per la prima volta dormì tre notti di seguito sotto lo stesso tetto e con la stessa donna. Si dette anche alla borsa nera, per morire di infarto pochi mesi dopo la Liberazione, in quella che si sarebbe rivelata una stagione d’oro per le case e per le pensionanti.
Trieste ha un posto d’onore nella piccola storia della “tolleranza italiana”. Tra le pensionanti delle novecento case di tutta Italia che il 20 settembre 1958 chiusero i battenti in forza alle disposizioni della legge Merlin, c’erano alcuni tipi di ragazze che andavano per la maggiore: la bolognese, la romana, la triestina, la fiumana, la polesana, la tripolina. Così le chiamavano le maitresse, cercando di suggestionare i clienti meno focosi. Del resto Trieste era entrata prepotentemente nel giro delle “quindicine” delle città italiane subito dopo la fine della prima guerra mondiale nel 1918. Bersaglieri e case chiuse, sessualità mitteleuropea e tricolori. Per qualche anno nelle case di lusso della penisola il tipo triestino – alta, bionda, magra, disinibita – aveva spopolato, spiazzando la concorrenza e suscitando entusiasmi erotico-patriottici. Nei quarant’anni successivi la fama delle “signorine” triestine non si era mai offuscata. Poco importava la vera origine anagrafica delle pensionanti, nate a Rovigo, Napoli o Cuneo. Piaceva quel nome, e quel nome veniva esibito assieme alle loro grazie.
Anche lo scrittore Piero Chiara nel suo romanzo “Vedrò Singapore ?” dedica alcuni paragrafi alle case chiuse triestine. Cita “El restel de fero”, tra via dell ‘Arcata e del Sapone ma soprattutto descrive “Villa Orientale”, la più lussuosa della città. “In via Bonomo, angolo viale XX settembre, davanti all ‘entrata dello stabilimento Dreher. E’ una villa a tre piani. Ci si arriva facilmente risalendo il viale fino in cima, dove c’ è una breve scalinata di marmo bianco. La villa lavora specialmente di sera perché ha dei clienti che tengono a non farsi vedere. Nessuno infatti ci andava a piedi”. Altri, meno noti di Piero Chiara indicavano invece all’epoca la villa come “El regno delle oche”. Non alludevano al personale femminile sempre di altissimo livello ma ad alcune perversioni che avevano reso famoso il bordello. Il gioco con l’anatra o con l’oca. Quale gioco fosse, visto l’ambiente, non è difficile capire. Basta dire che nel momento dell’estasi del cliente, la ragazza decapitava il povero pennuto.

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10 commenti a Scampoli di storia: le case di tolleranza nella Trieste del Novecento

  1. sindelar ha detto:

    Sinceramente mi sfugge ancora lo svolgimento di questo gioco dell’oca. 😉
    Sarà che son cresciuto nell’era digitale e ormai tutto ha una colorazione anglosassone con definizioni che evocano al limite canzoni heavy metal. 😀

  2. piero vis'ciada ha detto:

    – “…vietato molestare prima…”

    me sfuggi el senso de “molestare” 🙂

  3. piero vis'ciada ha detto:

    – eco, anche su bora.la co la scusa dele “taconere” se comincia a infilar immagini de stemmi sabaudi e fasci littori…

  4. Flores ha detto:

    …e pensar che tra via del Fortino e Capitelli. in quei storici casini ristrutturadi a cinquemila euri al mq. in sù, oggi risiedi rispettabili damazze tutte euforizzade all’idea che “proprio là”…

  5. jacum ha detto:

    segnalazion: manca un zero sul numero dela popolazion triestina al’inizio riportada.

  6. piero vis'ciada ha detto:

    – qualcossa no me quadra…
    “ai tempi de joyce…” lui riva a Trieste nel ottobre nel 1904 el peridodo più bel e più nostalgicamente ricordado da tanti triestini, quando tuti stava ben e tuto funzionava:

    “La Città Vecchia ai tempi di Joyce contava circa 20.000 abitanti, che vivevano in condizioni di estremo sovraffollamento e disagio, spesso senza acqua corrente e servizi igienici.”

    boh…

  7. piero vis'ciada ha detto:

    – “si avevano in questa zona risse, aggressioni a scopo di rapina, accoltellamenti e omicidi…”

    orpo de baco ! un vero casin !

    bon, ma no go letto delle legendarie “greghe”
    qualchidun sa ? quele del famoso modo de dirghe a un: “tu mare quela grega…”

  8. arlon ha detto:

    Piero: far finta che i canoni de quela volta e quei de desso fosi i stessi, me par bastanza inutile.

    No credo che se possi negar la florida situazion citadina, sia cultural che economica, de quei tempi, su..

  9. maja ha detto:

    … go leto canòni inveze de cànoni… 😀

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