Domenica sera vado a vedere un documentario del Trieste Film Festival.
Fuori dall’Ariston c’è un po’ di fila, devo dire che con questo freddo non me l’aspettavo: credevo fossero rimasti tutti a casa. E invece all’interno trovo una discreta folla: da compatti ci si scalda di più.
Si proietta Uomini e vino di Giampaolo Penco. Un giro tra i produttori di vino della nostra regione, con qualche sconfinamento, e con i salti nel tempo offerti da foto di famiglia, registri storici d’azienda, e recensioni sui passi dell’enologo Mario Soldati ripercorsi trent’anni dopo.
Si va dai vigneti centenari di Rosazzo ai pregiati ettari di “superficie vitata” presso Bosco Romagno; dal “vino di quattro anni che è come un bambino non ancora cresciuto”, al Terrano acido che buca le tovaglie; dall’artista che si nasconde tra le “vigne che attutiscono il mondo”, alla mularia che canta in osmizza da Ferluga a Pis’cianzi.
Il lavoro mi sembra abbastanza genuino e ingenuo. La varietà dei quadretti è ottenuta con interviste brevi, e rivela le contraddizioni di un mondo che sta passando. Indimenticabile l’esempio del vino prodotto in anfora alla “vecchia maniera”, trattato con antiparassitari fuori moda e dai nomi che fan venire i brividi…
Lunedì sera, torno al Festival al teatro Miela.
Al pomeriggio, un film greco. Alla sera, un corto tedesco e dei lavori sloveni.
Durante la pausa delle otto cerco di andare al bar, ma le maschere mi impediscono di uscire dalla sala da quel lato: “C’è un muro di gente che sta per entrare, di qua non riesci a passare, riprova dopo”.
Hanno ragione.
All’apertura delle porte, la sala si riempie tutta.
Le storie del giorno sono legate a personaggi in cerca di una vita migliore, ma in realtà non se la possono permettere.
Tralascio il giovanotto greco de La fotografia, che costruisce un intrico crescente di equivoci ed inganni (“meglio essere in una fossa di leoni ben sfamati, che in una fossa di leoni affamati”, gli suggerisce la vecchia mamma).
Cito un solo personaggio per tutti: il mitico criceto del cortometraggio animato intitolato Bob, di J. Frey e H. Fast. Il tipico criceto nella ruota, il criceto che corre e corre e corre.
(Attenzione: spoiler!).
L’inizio è furbo: la ruota sembra un’optional, un accessorio di cui poter fare a meno. Identificandoci col criceto, anche noi corriamo sulla ruota, corriamo fino a Roma, a Parigi, a New York…
Senonchè riappaiono Roma, Parigi, New York…
Troppo circolare questo viaggio.
Un viaggio che sa di gabbia.
Ma questo è il meno.
Il problema è passare la vita ad inseguire la criceta della gabbietta vicina.
Alla fine dell’inseguimento, l’incontro.
E la criceta si presenta: “il mio nome è Bob”…
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