22 Gennaio 2010

“L’atto di guerra verso la biosfera non può più lasciarci inerti”. Intervista a Luca Tornatore

Trieste Non chiamatelo non violento, potrebbe arrabbiarsi. “I discorsi astratti sulla violenza sono inutili. A mia figlia ho scritto ‘può pur sempre esser meno violenta una rivolta che l’obbedienza a chi ti strozza tutta la vita ma un po’ alla volta’. In italia si dice precario, in Francia intermittente, in Spagna eventuale.. come possono questi aggettivi descrivere una vita senza che ne nasca una rabbia degna? La violenza in sé non porta a nulla, ma è inutile negare che l’autodifesa richiede alle volte l’uso della forza, specie quando è minacciata l’integrità fisica o la dignità di chi ti sta intorno”. A Copenhagen ci si è andati vicino: “è avvenuta la rottura del patto sociale per cui lo Stato ti garantisce l’inviolabilità del tuo corpo. Sono stati bloccati interi cortei senza che fosse successe qualcosa”. E ancora:“C’era un controllo ossessivo, ho assistito a migliaia di arresti precauzionali”. Tra cui il suo. Con la differenza che lui, Luca Tornatore, il 38enne ricercatore dell’Università di Trieste, non è stato rilasciato dopo quella notte del 14 dicembre. Più di un mese dopo, il 13 gennaio, il giudice danese ha sentenziato la sua innocenza. Non è stato lui a lanciare le bottiglie verso la Politi durante gli scontri avvenuti a Christiania. Bora.la l’ha incontrato nella sede dell’Osservatorio Astronomico, e gli ha proposto le domande dei suoi lettori per ricostruire tutta la vicenda: dalla rete di disobbedienza al processo, passando per l’arresto e il periodo di prigionia.

See you in Copenhagen

A metà dicembre ti trovavi in Danimarca per partecipare agli incontri e alle attività organizzate dalla rete See you in Copenhagen (Vediamoci a Copenhagen, ndr), mobilitatasi in opposizione alla conferenza sul clima “dei grandi” (il COP 15, ndr). Di quali inziative si è fatta portavoce questo movimento?
See you in Copenhagen era una rete di centri sociali e attivisti di varia provenienza che ha organizzato il viaggio verso la capitale danese. Lì, il soggetto con cui abbiamo collaborato nel pensare, strutturare ed organizzare le iniziative era un collettivo internazionale, il CJA – acronimo di Climate, Justice, Action (Clima, Giustizia, Azione). In particolare, l’obiettivo principale era una manifestazione di disobbedienza civile di massa.

Praticamente, in cosa consisteva questa disobbedienza?

In un’azione da svolgere il 16 dicembre, giorno in cui a Copenhagen sono arrivati i più alti rappresentanti del COP 15 tra cui il presidente Obama, chiamata Reclaim the Power il cui punto qualificante era una dinamica Inside – Outside. Con una marcia avremmo dovuto oltrepassare le linee della polizia schierate attorno al Bella Centre, entrare dentro (inside) l’area dove stava avvenendo la conferenza per incontrarci con i delegati delle Ong e di altri rappresentanti ufficiali che sarebbero usciti fuori (outside), venendoci incontro nel cortile e dando vita ad un’assemblea libera dai tentativi di hackeraggio dei soliti potenti. Il nostro non era un assalto alla fortezza.

Perché tale iniziativa?
Volevamo boicottare una conferenza dove si cercava, sotto l’egida delle Nazioni Unite, di legittimare un sistema in cui il clima è diventato una questione di mercato. Volevamo ricordare che, oltre alla razionalità del mercato, c’è una razionalità della vita. E su questa vogliamo ancora dire la nostra: ormai, tutte le decisioni non sono prese dai luoghi che dovrebbero essere deputati a farlo, penso ai parlamenti, ma dal mercato internazionale e dagli organismi che lo controllano, vedi Wto e Banca Mondiale. Le genti, a buon diritto, chiedono indietro la sovranità. E non solo per quanto riguarda il clima. L’iniziativa si chiamava Reclaim the power, e il potere deve intendersi sia come potere energetico che come potere democratico.

Tu il 16 dicembre eri già in carcere, ma la marcia ha avuto successo?
Non nel senso che sia riuscita ad fare disruption della sessione, ma questo era prevedibile: c’eano 12000 poliziotti e i caschi blu.. Ma il nostro non voleva essere – e non è stato – un confronto sul piano militare, quanto piuttosto sul piano politico.

Come definiresti l’esito del COP15?

Esilarante. Si è manifestata una crisi di controllo istituzionale. Non solo all’interno, tra i rappresentanti partecipanti alla conferenza, con tensioni tra nuovi Paesi energicamente forti e le vecchie potenze del G8. Ma anche all’esterno, dove il controllo è degenerato in ossessione.

Come definiresti l’esito del COP15 per il vostro movimento?

Suggestivo. E’ stato e sarà foriero di nuove suggestioni. Copenhagen è un punto di non ritorno. Si è manifestato il nodo cruciale della conflittualità attuale: la crisi energetica che si delinea e l’atto di guerra che si sta perpetuando nei confronti della biosfera non possono più lasciarci inerti: l’over exploitation (il sovrasfruttamento, ndr) della biosfera non è una necessità ma una razionalità portata avanti da chi oggi governa la crescita.

L’arresto

Torniamo alla serata del 14 dicembre. Naomi Klein in un suo articolo apparso sull’Espresso online ha parlato di arresti preventivi di massa con persone legate alle mani e ai piedi. Hai assistito anche te a queste scene nel quartiere di Christiania? Ci sono stati arresti preventivi?
Non ho visto persone legate ai piedi ma ho assistito a migliaia di arresti precauzionali. Torniamo all’ossessione del controllo: quando questo è ossessivo allora diventa preventivo. C’è la rottura del patto sociale per cui lo Stato ti garantisce l’inviolabilità del tuo corpo. Sono stati bloccati per via cautelare interi cortei senza che fosse successo qualcosa.

Tra la folle dei manifestanti c’erano elementi del cosiddetto black block?
Ho visto persone mascherate e che vestivano di nero,non so se chiamarle o meno black block. Ma niente di paragonabile a ciò che si è visto durante il G8 di Genova.

Come ti hanno fermato? (domanda di Era)
La sera del 14 dicembre, dopo un dibattito con Naomi Klein e Micheal Hardt, il nostro gruppo, eravamo circa una 70ina, si è fermato a Christiania – quartiere che definirei “uno squat a cielo aperto” – per bere una birra e per continuare la discussione con gli altri. Ad un tratto dal Woodstock, il pub in cui c’eravamo sistemati, ci accorgiamo che fuori sta succedendo qualcosa. Della folla corre sulla strada urlando. Io e una decina d’altri andiamo a fare un sopralluogo verso le porte d’accesso del quartiere per capire cosa stava accadendo. Ignoro il motivo, ma qualcuno avevo costruito delle barricate nei due passaggi principali, impedendo così l’ingresso a Christiania. Non sapendo dove andare siamo tornati al pub e nel giro di mezz’ora la polizia, intervenuta in forze – si parla di circa 2000 agenti- ci ha arrestati in blocco. Non solo noi italiani ma anche gli altri di Climate Justice Action, migliaia legati alle mani con delle striscioline metalliche e fatti sedere “a trenino” con le gambe divaricate e incastrati l’uno dopo l’altro. Senza opporre resistenza, ce ne siamo stati lì, scomodamente seduti, per un’ora e mezza, fino a quando sono arrivate le corriere per spostarci dal quartiere. A differenza degli altri fermati non sono stato caricato nei mezzi ma sono stato tenuto in disparte e caricato in una camionetta penitenziaria.

Perché?
E’ quello che ho chiesto io al poliziotto, sentendomi dire di rimando: “Tu lo sai perché”. In realtà, non lo sapevo. Ho saputo, solo in seguito, che ero stato identificato come l’uomo che aveva lanciato delle bottiglie contro la Politi. Come se uno che decide di lanciare molotov si mettesse in testa il mio riconoscibilissimo berretto verde.

E cos’è successo poi? (Era)

Poi ho passato la notte in tre luoghi di detenzione diversi. Dapprima con tutti gli altri fermati in una sorta di “Guantanamo”, un capannone riconvertito a carcere di massa con tanto di gabbie e reti metalliche. Ma a differenza degli altri prigionieri, sono stato trasferito in un altro luogo, per poi finire in una stanza completamente bianca e priva di finestre dove ho perso la concezione del tempo. Lì dopo qualche ora, quattro o otto chissà, è rientrata una guardia chiedendomi se volevo parlare con la polizia. Gli ho risposto che volevo parlare con il mio avvocato e che avevo diritto alla mia chiamata.

Ci sono stati altri arrestati? (Pier)

I migliaia fermati quella notte sono stati rilasciati dopo alcune ore. Mentre io, unico italiano, e un’altra ventina di persone siamo stati incarcerati. Tutti arresti preventivi. L’udienza che ha confermato la mia carcerazione cautelare ha fatto leva su due motivi: il primo era il pericolo di fuga, il secondo era il rischio che continuassi “l’attività criminale”. Come se per sfuggire a qualche mese di carcere uno si rovinasse la vita faceno il latitante. È interessante notare che le “attività criminali” cui il pm si riferiva non erano i riots ma manifestazioni pacifiche, alle quali avevo “ammesso” di aver partecipato.

La prigionia

Hai avuto paura che la tua innocenza non venisse riconosciuta, considerando che ad accusarti erano alcuni poliziotti e che sei finito in carcere per aver espresso un dissenso ? (Pier)
Sì, era la mia preoccupazione: la vera colpa che mi veniva contestata era la manifestazione di dissenso e il pericolo che potessi continuare a dissentire. In più, essendo dei poliziotti ad avermi accusato, la testimonianza avrebbe potuto essere considerata inconfutabile dalla giustizia.

Hai potuto seguire notiziari, farti tradurre i giornali? A tuo modo di vedere, c’è stata speculazione su queste vicende e pressione sui processi? (Pier)
Potevo vedere i telegiornali, ma nessuno me li traduceva, se non gli altri detenuti nell’ora di libertà. La speculazione c’è stata nel senso che, in Danimarca, prima del Cop15, era stato approvato un pacchetto di sicurezza, ancora oggi in vigore, tale da dover giustificare l’intervento della polizia. Senza degli arresti contro dei presunti facinorosi, l’opinione pubblica non avrebbe capito la necessità di quelle misure repressive.

Qual è stato il ruolo dei rappresentanti diplomatici italiani in Danimarca durante la tua prigionia?

Ovviamente non potevano intervenire sul procedimento giudiziario, ma hanno fatto avere le petizioni per la mia liberazione ai giudici e ai pari rappresentanti danesi. In più hanno vigilato sul rispetto dei miei diritti in carcere e sono stati squisiti con la mia famiglia.

Il Governo Italiano si è attivato per ottenere la tua liberazione? Se sì, in che misura? (Lrs)
Il Governo non ha fatto nulla. In fondo, penso che non gli dispiacesse sapere di un ricercatore “sovversivo” in carcere…


Pensi che se ci fosse stato un governo diverso sarebbe cambiato qualcosa? (Diego)

Qualche sfumatura. Ma non bisogna dimenticare che Genova era stata preparata nel 2001 e poco prima in occasione del vertice di Napoli c’era stata una vera e propria mattanza, all’epoca al governo c’era il centro-sinistra. Istituzionalmente, in questi casi, fa poca differenza tra destra e sinistra: c’è in gioco un sistema di auto-mantenimento del potere.

Quanti e quali erano i tuoi contatti con il mondo esterno? E’ vero che in un primo momento ti avevano precluso di ricevere il materiale di studio inviato dai tuoi colleghi italiani?

Ho fatto tre chiamate alla mia compagna. E un’altra, il 22 dicembre, a due amici che erano restati ad aspettarmi fuori dal carcere a Copenhagen per dirgli che potevano tornarsene tranquillamente a casa per le vacanze. Del resto in carcere non stavo male: potevo leggere e scrivere lettere cartacee, anche se fino ai primi di gennaio non ho potuto leggere i miei libri. “La nostra biblioteca è fornita” mi hanno risposto. D’altronde è anche questo il carcere: la mortificazione dei tuoi desideri.

Qual è stato il trattamento che hai ricevuto all’interno del carcere? (Lrs, Richi)
A parte queste mortificazioni, il trattamento è stato formalmente buono. Non sono stato maltrattato fisicamente.

La sentenza d’assoluzione

Scarcerato dopo l’udienza del 13 gennaio perché innocente, hai espresso ai microfoni di globalproject il tuo stupore. Hai dichiarato “Il riconoscimento del fatto che i poliziotti possono sbagliare è una cosa importantissima”. Puoi spiegare meglio questa affermazione?

Culturalmente in Danimarca la polizia è inattaccabile. Almeno stando a quello che diceva la mia esperta avvocata, dove sulla parola “esperta” leggi “60enne”: nella sua lunga e fortunata carriera, non aveva ricordi di un verdetto di assoluzione quando a testimoniare per l’accusa era la polizia. Il fatto è che il mio, come gli altri processi, sono stati costruiti su ipotesi accusatorie assurde. La mia sentenza è importante proprio per questo: rompe il taboo per il quale in tribunale la parola della polizia è inconfutabile qualsiasi cosa dica.

Nel caso concreto la testimonianza dei due poliziotti non combaciava. Nel procinto di lanciare queste presunte bottiglie, uno mi aveva visto con un cappello nero simile a quello dei pirati e l’altro con il mio berretto verde. In più c’era un filmato che, seppur non riprendeva in modo netto il colpevole, indicava un’ora in cui io risultavo essere già stato arrestato fuori dal pub Woodstock.

Credi che anche lassù vada di moda infiltrare casinisti alle manifestazioni – come in uso da diversi decenni in Italia – per poi arrestare i manifestanti pacifici? (Richi)

Non so dirlo. Dico solo che un reporter del giornale danese “Politiken” ha denunciato un caso simile: ossia un rapporto di “amicizia” tra frange del balck block e la Politi. Con questo non voglio dire che tutti i black block lavorassero con la polizia danese ovviamente, ma solo che è piuttosto facile per chiunque infilarsi un passamontagna.

A parte la tua assoluzione, vi sono state condanne per gli scontri? (Pier)
Sì, un ragazzo francese è stato condannato a 3 mesi, il giorno della mia udienza. E un altro ragazzo canadese è stato condannato ad un mese per aver lanciato un pezzo di legno sopra ad una barricata. Un altro ragazzo bielorusso uscirà il 22 gennaio. Ma ci sono diversi altri processi a venire, alcuni dei quali  puramente politici.


Il pm danese ha fatto ricorso sulla tua sentenza chiedendo la ripetizione del processo? Se non ciò non avvenisse, chiederai il risarcimento per aver passato oltre un mese in carcere da innocente? (Diego)

Devo ancora sentire il mio avvocato, in qualsiasi caso chiederò il risarcimento. Ci sono state delle spese oltre alle mie personali: penso agli amici che sono venuti a Copenhagen per starmi più vicino e alle spese legali degli altri nella capitale danese.

L’esperienza

(la sede dell'osservatorio astronomico di Trieste)

Dopo essere stato arrestato, hai un’opinione diversa su uno stato come la Danimarca, considerato tra i migliori nel campo dei diritti umani, rispetto alle aspettative che avevi prima di andarci? (Arlon)
Prima di tornarci mi leggerei accuratamente il rapporto di Amnesty International sulla Danimarca. Il quadro che ne esce non è così positivo. C’è una sorta di deseparacion democratica, frutto di un controllo sociale esasperato.

Un tuo pensiero sulla giustizia danese ed un paragone con quella italiana (Richi)
Qualcuno mi ha detto che dovrei essere grato alla giustizia danese perché alla fine mi ha scarcerato vista la mia innocenza. E io dico: “Col ca…!”. Il fatto che loro avessero gli strumenti e la cultura giuridica per liberare un innocente non è un regalo, ma il frutto di secoli di lotte. Anzi, se sento queste frasi, penso ancor di più che la democrazia debba essere difesa, giorno dopo giorno.

Un tuo bilancio generale sulla vicenda senza peli sulla lingua. In ogni caso, bentornato. (LRS e Richi)
Vi ringrazio del bentornato e vi rimando alla lettera che ho inoltrato, via facebook, alla “famiglia”.

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10 commenti a “L’atto di guerra verso la biosfera non può più lasciarci inerti”. Intervista a Luca Tornatore

  1. bagarino ha detto:

    >“Col ca…!”

    Se Luca fosse un danese arrestato ad una manifestazione italiano (per la stessa accusa) sarebbe ancora dentro, e chissà fin quando, in 6 in una cella fatiscente costruita x 3.
    Luca, dai! Questa volta è andata bene. Di repressione in Europa fin’ora in questo secolo non abbiamo visto NIENTE.
    E’, in più, la testimonianza della polizia alla fine avrebbe prevalsa.

  2. arlon ha detto:

    Ottima intervista!
    Efetivamente, la impresion xe che per la gestion/organizazion dela polizia nei stati scandinavi e baltici ghe sia un certo grado de ossession che deriva dal nulla.

    Me ricordo ben a Helsinki de gaver visto una manifestazion de studenti con tipo 1000 studenti e qualcossa come 500 polizioti e una quarantina tra camionette e bus de la polizia al seguito, ridicolo a dir poco.

  3. bagarino ha detto:

    >>”Me ricordo ben a Helsinki de gaver visto una manifestazion de studenti con tipo 1000 studenti e qualcossa come 500 polizioti e una quarantina tra camionette e bus de la polizia al seguito, ridicolo a dir poco.”

    C’è una battuta danese che dice che tutte le donne danesi tornano a lavorare 6 mesi dopo il parto … per lavorare negli asili e asili nidi curando i propri figli. (Quelle scandinave) sono società (con altissimi livelli di divorzio e nascite fuori matrimonio) che richiedono un grande livello di coesione sociale per funzionare. In breve lo Stato è felice di sostituire il ruolo svolto in Italia dalla famiglia. Questo spiega la paura delle autorità se il disenso esce dai livelli da loro consentiti. Basta fare un giro di Helsinki il sabato sera per trovare la valvola di sicurezza (alcool). Sarà interessante seguire l’evoluzione di queste società in un mondo globalizzato dove una buona parte della popolazione della Svezia, la Danimarca ecc. è nata in posti meno scandinavi come la Somalia o a genitori nati altrove.

  4. enrico maria milic ha detto:

    per me è una bella intervista e interessante.

    mi trovo vicino a molte cose di quanto dice tornatore sulla sua analisi sul potere nelle relazioni economiche e sull’impatto dei grandi poteri sulla biosfera.

    non mi trovo per nulla vicino a quello che mi pare sia un suo modo di intendere le relazioni sociali e politiche: in sintesi e semplificando, la sua retorica e la sua prassi mi paiono autoreferenziali e poco inclusive.

  5. bulow ha detto:

    allora: i paesi scandinavi sono sempre stati un modello per quanto riguarda lo stato sociale. inoltre sono sempre stati molto liberi nel costume. pero’ non si deve dimenticare, ad esempio, che dal ’40 al ’60 in svezia e’ stata applicata massicciamente la lobotomia, anche sui bambini.

    http://www.informaworld.com/smpp/content~db=all?content=10.1080/096470490897692

    quando pensiamo alla svezia, abbiamo in mente (almeno: io ho in mente) pippi calzelunghe, cioe’ un’ idea libera e gioiosa della vita. ma astrid lindgren, l’ autrice di pippi calzelunghe, ha scritto cio’ che ha scritto soprattutto CONTRO lo stile di vita puritano degli svedesi. lei era una ragazza madre, a cui le autorita’ avevano tolto la figlia, per “internarla” in un istituto.

    allora: per molte cose, diciamo pure “viva la svezia” e “viva la scandinavia”. ma ricordiamoci che il paradiso in terra NON ESISTE.

  6. ciccio beppe ha detto:

    Come non esiste? E l’isola di Bora Bora?

  7. LRS ha detto:

    Un’ intervista molto interessante, vi ringrazio d’aver usufruito delle mie domande!

  8. Richi ha detto:

    @ Bagarino

    Da un lato sono d’accordo, credo che Tornatore sotto le alpi se la sarebbe vista ben piu’ brutta. Le polizie in tutto il mondo non amano i movimenti antagonisti, ma ci sono paesi e paesi e i metodi cambiano.

    Pero’ sul fatto che di repressione in Europa non se ne sia vista in questo secolo…..Genova 2001?

  9. bagarino ha detto:

    >>Genova 2001?

    Hai ragione. Anche a Londra qualche evento è andato ‘storto’. Quando ho detto ‘non abbiamo visto NIENTE’ (fin’ora) volevo indicare regimi repressivi (tranne, ovviamente la Belarus) e non repressione ‘a la carte’ (Genova, Londra, Copenhagen).

  10. luca tornatore ha detto:

    mi avvertono che il link postato da davide alla fine del pezzo non funziona perché appartiene al gruppo di fb della casa delle culture.
    In realtà il testo cui si allude non era propriamente pubblico (erano parole per coloro che sento sorelle e fratelli), ma essendo ormai girato, ho pensato che possa essere messo anche qui come risposta a quell’ultima domanda. Lo metto di seguito.

    ————————-

    Gracias a la vida,
    Que me ha dado tanto,
    Me ha dado la risa
    Y me ha dado el llanto
    [Me ha dado la rabia
    Y me ha dado la dignidad]
    Asi yo distingo
    Dicha de quebranto
    Los dos materiales
    que forman mi canto
    y el canto de ustedes
    que es el mismo canto,
    y el canto de todos,
    que es mi propio canto

    Gracias a la vida,
    Que me ha dado tanto

    [lo so, è un po’ bizzarramente eretico]

    Ero sommerso dagli abbracci mentre ero in galera e mi raggiungeva quello che in tant*, tantissim* mi avete scritto, lo sono stato non appena fuori e continuo ad esserlo mentre leggo tutto quello che avete scritto, detto e fatto, immaginato e pensato.

    Quello che tutti noi avremmo fatto per ognuno, perché di noi ognuno è ciascuno, è un canto, ed è lo stesso canto di tutti.

    Se – anche quando ero convinto che sarei stato dentro tre, quattro o più mesi, per dovermi poi reinventare un lavoro di crisi – ho mantenuto 2 pences di dignità lo devo a questo canto, di tutti e di ognuno, a “la family” nordestina che ha
    firmato quel (vigliacco 🙂 ) manifesto con la mia
    faccialinguaccia sui muri di Trieste e al fatto che non avevo colto che chi lava i piatti nelle galere danesi guadagna 1700 euro al mese (se lo scoprivo prima.. era ovvio che le avevo buttate io le bocce).

    Ora quel canto è di rabbia, di lotta, di pianto per rosarno, per la shock economy di haiti, per la vita di ogni giorno nella crisi e in ogni dove, che in italiano si dice “precaria”, in francese “intermittente”, in spagnolo “eventuale” (in danese “fanculo”). Un canto con i denti di fuori e con i bastoni, ma pur sempre di abbracci e di sorrisi a chi ti è compagn*, fratello e sorella in ogni
    luogo: perché l’unica “giustizia giusta” è la conquista delle lotte e dell’intelligenza comuni e mai è un regalo.

    E pure, in questo che è un fottuto mondo non facile, gracias a la vida che mi ha regalato qualche oretta di galera (di lusso per di più) per provare la meraviglia di questo canto collettivo che, non me ne vergogno, risuona anche di amore.

    grazie. adelante “with a wind stronger than ever”.

    (e mo’, che sono tornato al sole, basta con ‘sta drammaticità indotta dal fatto che l’ora d’aria coincideva con la pioggia da un cielo color noia costante).

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