3 Dicembre 2009

Dalla Carnia ai tamadà georgiani: il gastronomade Gori racconta

Alessandro Gori La scorsa estate ha compiuto uno straordinario viaggio di “due mesi senza prendere aerei, partendo dalla Carnia per arrivare fino in Caucaso”. Alessandro Gori, giornalista indipendente, nato in Carnia nel 1970 è stato intervistato via email da Bora.La sulle culture del cibo che ha incontrato in questa impresa. Il cibo non solo come escamotage narrativo – ma come rivelatore della socialità delle comunità, dei miti che sul cibo vengono tramandati così rivelando l’anima di un popolo. Dal kajmak alla mangulica serbi, dai khinkali ai mtsvadi georgiani, passando per le tradizioni alcooliche friulane e giuliane, Gori è l’esperto per eccellenza della narrazioni di questi odori e sapori.

Racconta il giornalista friulano, con la memoria al percorso di quest’estate: “Il percorso era nettamente diviso in due, quasi a metà: la prima parte balkanica in avvicinamento al festival di Guča; la seconda, accompagnato da alcuni amici, in movimento più o meno lineare da Beograd al Caucaso, attraversando tutta la Turchia e concentrandoci soprattutto sulla Georgia. Dopo il ritorno dei miei compagni in Italia, ho concluso il mio periplo visitando Abkhazia e Nagorno Karabakh”.

– Mi racconti, prima di tutto, cosa legano le culture del cibo carniche a quelle che hai incontrato in questo viaggio, fino a Tbilisi?

Cevapi a Sarajevo“Probabilmente sia in Carnia che in molti dei posti visitati durante questo giro il filo rosso è stata la genuinità del cibo. Da noi si possono ancora trovare molte specialità naturali. Lo stesso si può dire per i Balkani, la Turchia ed i paesi caucasici, dove la globalizzazione con la sua omogeneizzazione di sapori è arrivata solo in parte”.

– Qual è stato il piatto più intrigante di questo viaggio?

“Ce ne sono stati vari, anche perché muovendosi in certi paesi l’esperienza enogastronomica è parte integrante ed importante del viaggio. A Sarajevo i classici burek e ćevapi, poi delle fantastiche sarmice preparate dalla mamma di un mio amico per il matrimonio del figlio, continuando con le prelibatezze serbe cui siamo abituati e con cui abbiamo banchettato nelle lunghe ore di treno da Beograd fino ad İstanbul: il kajmak (formaggio cremoso e grassissimo), l’ajvar rigorosamente fatto in casa, il prosciutto di Zlatibor, il salame di mangulica (una razza autoctona di maiale, comune con l’Ungheria, una specie di cinta locale o di Pata Negra pannonica, i cui insaccati sarebbero a basso contenuto di colesterolo), lo slatko (confettura di fragoline di bosco che in questa o altre fogge si offre agli ospiti quando arrivano nelle case serbe).

Ajvar serbo fatto in casa!Poi, nelle vicinanze del Bazar delle Spezie di İstanbul abbiamo trovato per caso una specialità porcellosa (anche se non di maiale) che ricorda gli ‘mboti pugliesi (tipici involtini fatti con polmoni e fegato di agnello): varie frattaglie racchiuse in un budello vengono cucinate allo spiedo, poi tagliuzzate e quindi servite in un panino.

Poi i tipici piatti georgiani: khinkali (grandi ravioli ripieni di carne e brodo), khachapuri (una specie di pizza georgiana al formaggio), mtsvadi (più che spiedini delle vere e proprie spade di carne). Ma forse la sorpresa sono state le deliziose melanzane con le noci, assaggiate in tutte le case georgiane che abbiamo visitato”.

– E la bevanda indimenticabile?

Guca 2009“Già sai che la mia preferita è la rakija serba, cioè il distillato di frutta, uno dei prodotti più tipici e genuini dei Balkani. Da secoli i segreti della lavorazione vengono gelosamente tramandati di generazione in generazione e praticamente in ogni villaggio si può trovare dell’eccellente rakija fatta in casa. In Serbia il 90% della rakija è šljivovica, cioè distillato di prugne, divenuto uno dei simboli del paese, tanto che durante l’embargo si scherzava sulla (parziale) autarchia alla quale i serbi erano stati costretti dicendo «Fuck the coca, fuck the pizza, all we need is šljivovica».

Mi era anche capitato di “adottare” il nonno di un mio amico, deda Ljuba, mancato un anno fa all’età di 80 anni. Abitava a Boljkovci, un selo (villaggio) sulle colline sopra Gornji Milanovac, in piena Šumadija, cuore geografico e storico della Serbia.

L'alambicco di DedaDeda possedeva un alambicco stratosferico con cui produceva, aiutato dalla famiglia, ettolitri di rakija, per la gran parte šljivovica. Nel 2004 si raggiunse forse l’apoteosi, con i rami che spezzavano per il loro peso. Di solito negli anni buoni si arriva a 1500 litri (!). Ora sono il figlio Miro e il nipote Boban a farla.

Il vino georgiano merita comunque un posto speciale, anche per le profondissime tradizioni ad esso legate”.

– Come resiste la cucina domača alle globali mescolanze di genti e alle pressioni commerciali?

Salamino di mangulica“Insieme ad altri amici abbiamo ribattezzato la Serbia un’Ekozemlja, cioè un paese gastronomicamente ecologico, nel senso che è ancora normale trovare cibi genuini, preparati in casa o con piccole produzioni

Il cuore della Serbia risiede nei villaggi, dove si trovano i personaggi più interessanti ed i prodotti più genuini, ed è nei seli che ci sono capitate le avventure più assurde. È curioso notare che negli ultimi anni il mondo rurale serbo era percepito, specie da alcune élites intellettuali belgradesi, come espressione negativa di un mondo al quale non appartenevano, portatore di valori culturali lontani dai loro, soprattutto durante gli anni durissimi di Milošević che conservava la base del suo potere proprio nelle campagne, tagliate fuori dai pochissimi mezzi di comunicazione indipendenti.

Ma anche la megalopoli Beograd funge da trampolino, soprattutto per i prodotti che si trovano nei mercati locali, le famose pijace [pronuncia “pìaze”] che rappresentano sempre un richiamo importante”.

– Sei partito dal Friuli, una delle zone d’Italia dove si beve di più. E sono certo che la competitività etilica dei tuoi ospiti nel corso del viaggio non si sarà certo abbassata. Cosa significa per la gente che hai incontrato la “bevuta assieme”, che sia di trappa Nonino, travarica carsolina o dunja serba?

Svaneti Etseri vakhtanguri a 4 “Esistono molte similitudini, anche se magari le quantità sono diverse. In Friuli ma anche a Trieste sul Carso o in Istria il vino o la grappa sono spesso una scusa per ritrovarsi. Spostandosi più a Est, ormai da anni la Serbia ed i Balkani in generale rappresentano per me un luogo in cui ci si trova a condividere molti aspetti della vita insieme a una (o varie) rakije.

Dopo il buco nero della Turchia, in cui non è così facile trovare da bere, la Georgia ha rappresentato un’accelerazione sparata. Nel paese caucasico non mancano occasioni per incontrarsi con decine di persone intorno a banchetti pieni di un’infinità di prodotti genuini, un modo per dimenticare momentaneamente i gravi problemi economici, politici e sociali.

Il popolo georgiano non teme concorrenza per calore ed ospitalità, aspetti che si rivelano con tutta la loro forza intorno ad un tavolo, il vero centro della vita comunitaria in cui il vino è il protagonista assoluto.

Gurjaani arriva il vinoSecondo la leggenda le tradizioni vinicole sarebbero nate proprio qui e la radice indoeuropea della parola “vino” proverrebbe dal georgiano. Sia vero o no, il vino è il protagonista della tavola e del paese. Non ci sono sicuramente dubbi invece su dove se ne beve di più.

Laggiù il culto per Bacco è antichissimo ed il vino è parte integrante della storia e dell’identità georgiana, anche perché la Georgia si è sempre ritrovata a stretto contatto con popoli musulmani. Si racconta che nella loro avanzata i soldati persiani distruggevano tutte le vigne che trovavano sul loro cammino, ma i georgiani le ripiantavano regolarmente.

Non ci vuole molto per capire che da queste parti il brindisi assume delle caratteristiche tradizionali divenendo qualcosa di sacro. La figura principale è il tamadà, la persona scelta per essere il capo della tavola. È colui che dà il ritmo ai brindisi che si susseguono continuamente per ore e ore: deve possedere quindi capacità dialettiche non comuni, senso dell’umorismo e, evidentemente, essere in grado di ingerire svariati litri di vino nello stesso incontro. Gli ospiti, la patria, la famiglia, l’amicizia, i morti, l’amore sono tra gli infiniti temi ai quali si brinda. Dopo un’introduzione del tamadà che può durare qualche minuto, tutti i commensali bevono d’un fiato il loro bicchiere di vino, o i tipici corni (khanci), in entrambi i casi sempre colmi fino all’orlo.

Svaneti Etseri corni Questa operazione si ripete durante ore e ore in cui appaiono anche altri recipienti, regolarmente riempiti e svuotati in un colpo solo. Anche se ci sono solo due persone fino all’infinito, c’è sempre un tamadà. Di solito è il padrone di casa, o chi invita, o il capo famiglia: è riconosciuto come tale da tutti e può contare sul potere assoluto sulla tavola. Diverse le varianti e le figure retoriche: quando il tamadà dice «Alaverdi!» rivolgendosi ad un ospite, significa che sarà quest’ultimo ad avere il diritto di proporre un brindisi. Poi escono altre variazioni sul tema, come il vakhtanguri: si beve incrociando le braccia tra due (come ai matrimoni da noi) o tre o quattro persone (che ho visto solo qui). Oppure l’iglibatsuri, quando io faccio bere un altro e quello fa lo stesso con me”.

– Che valore ha la commensalità, per quelli con cui hai avuto a che fare?

Gurjaani zia Makhvala“Grazie ai nostri amici georgiani abbiamo avuto la possibilità di entrare in molte case ed apprezzare al massimo l’ospitalità del loro paese, concentrata nella supra, l’incontro a tavola che costituisce una delle colonne portanti della società georgiana, con il citato tamadà come figura centrale.

Durante la supra ci si conosce, ci si guarda negli occhi, si chiacchiera (se il ritmo lo permette), si impara qualcosa degli altri, si beve molto e si mangia anche, per mantenersi in vita. È spesso impegnativo, i brindisi si susseguono ogni pochi minuti, per ore e ore. Normalmente si beve solo vino o chacha (grappa) di solito fatti in casa: tutti hanno parenti in campagna che producono vino. Si dice invece che con la birra si brinda solo con i nemici.

Alcuni tamadà sono più brillanti, altri meno. Alcuni usano la poesia, o si orientano più verso le arti o le canzoni. Ognuno ha un suo modo particolare di espletare la sua funzione. I temi a cui brindare sono infiniti, con rivoli di sub brindisi elaborati dagli astanti. Più si entra nell’alcool più i soggetti vengono sviscerati, con domande e discussioni.

Nel frattempo i piatti continuano ad arrivare in tavola; di questo si occupano le donne, che di solito rivestono, salvo eccezioni, un ruolo più marginale”.

(non solo i testi di tutte le risposte sono di Alessandro Gori ma anche le foto)

Per approfondire su Alessandro Gori:
Il blog “Via terra dalla CARNIA al CASPIO (se mai ci arriverò)”, curato da Gori e soci
Il documentario sul Festival di Guča a cura di Gori e Stefano Missio
“Una vodka alle sei di mattina”: intervista a Gori di TolmezzoNews

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4 commenti a Dalla Carnia ai tamadà georgiani: il gastronomade Gori racconta

  1. michele ha detto:

    Per chi volesse informazioni ancor più dettagliate sul maiale Mangalica, presente in Serbia e in Ungheria, riporto qui un link al sito della Fondazione Slow Food. In Ungheria, infatti il maiale mangalica è un Presidio, e partecipa regolarmente a tutti i nostri eventi.
    Confermo che la carne (e soprattutto i salumi) ottenuti con questa razza suina sono strepitosi.
    Alcuni (saggi) produttori di San Daniele (non ricordo i nomi, scusate) hanno incominciato a produrre prosciutti utilizzando maiali del Presidio con risultati da capriole. Il grasso del maiale letteralmente evapora dalle mani.
    Grandissimo prodotto.

    http://www.fondazioneslowfood.it/ita/presidi/dettaglio.lasso?cod=214

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