24 Novembre 2009

Il testo della lectio magistralis di Fini all’inaugurazione dell’anno accademico

univ inaugurazione

“Costituzione, mutamento sociale, processi di riforma”

Magnifico Rettore, Signor Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Signor Presidente della Provincia di Trieste, Signor Sindaco, Autorità, Illustri Professori, Signore e Signori, Cari studenti!

Sono particolarmente lieto di partecipare alla cerimonia d’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università degli Studi di Trieste, prestigioso Ateneo che rappresenta, anche per la sua particolare e felice collocazione geografica, un presidio della cultura italiana nel cuore dell’

La vostra Università, istituita nel 1924, ha sempre coltivato un percorso di internazionalizzazione, in sintonia con lo spirito della città che la ospita.

Oggi, finita la guerra fredda, il Golfo di Trieste si configura sempre di più come un approdo naturale non solo per gli scambi commerciali, ma anche per i rapporti culturali con i paesi della “nuova Europa”, ed è significativo al riguardo il numero degli studenti stranieri che hanno scelto di frequentare questa istituzione di alta formazione che opera in stretta sinergia con le migliori Università europee ed internazionali.

E’ pensando anche a loro che ho scelto di trattare, nel corso del mio intervento, il tema dell’attualità della Costituzione italiana che, dopo sessant’anni dalla sua entrata in vigore, “dimostra ancora di possedere” – prendendo a prestito una bella frase di Leopoldo Elia – “una prudente elasticità ed attitudine a comprendere con i suoi principi anche fenomeni che i Costituenti non potevano prevedere”.

Al riguardo, inizierò con una constatazione di ordine storico-sociale. Il cambiamento più importante avvenuto in Italia in questi sessant’anni è quello comune a tutti i paesi che sono passati da uno stato prevalente di arretratezza pre-industriale alla condizione di paesi evoluti e nell’insieme ricchi.

L’Italia, in cui fu scritta la Costituzione, quella uscita dalla seconda guerra mondiale, aveva due fondamentali caratteristiche che oggi non sono più riscontrabili: era una società molto compatta da un punto di vista sociale, ma profondamente divisa nelle ideologie e nelle culture politiche. Quella di oggi, invece, è una società più uniforme per quanto riguarda le sue idee e i suoi valori, ma assai più articolata nella dinamica dei suoi interessi sociali.

Tale evoluzione sociale è stata segnata dalla progressiva crescita economica. Il reddito pro capite è molto più alto di quanto non lo fosse allora; le istituzioni sociali, ancorché spesso mal funzionanti, assicurano comunque prestazioni che possiamo definire dignitose; i livelli educativi e di istruzione della nostra collettività sono, inoltre, sensibilmente cresciuti.

Certo, persiste ancora, e ci inquieta, il problema della scarsa mobilità sociale e della disoccupazione; certamente permane l’arretratezza di vaste aree del Paese, prevalentemente localizzate nel meridione e nelle isole, ma anche al Sud la società è profondamente cambiata. E proprio perché tutta la società nazionale si è evoluta, sia pure con le sue storiche contraddizioni, si sono molto affievolite le divisioni ideologiche di sessant’anni fa.

Del resto, la “forza” della Costituzione e, quindi, la sua attualità, si fondano ambedue su un’idea pluralistica della democrazia, che supera la contrapposizione fra una democrazia troppo spesso formale, di stampo liberale, ed una cosiddetta democrazia sostanziale di impronta socialista.

La mia opinione è che i principi racchiusi nella prima parte della Costituzione si siano ormai fortemente radicati nella coscienza degli italiani. Tali principi rappresentano, del resto, i valori fondanti dell’intero nostro ordine sociale e appaiono ormai consolidati e destinati a durare, come dimostra il fatto che nessuna riforma costituzionale, per quanto incisiva e radicale, ha mai messo in discussione le disposizioni costituzionali dedicate ai diritti e ai doveri dei cittadini.

Credo sia lecito e largamente condiviso affermare che l’eclettismo politico e culturale di cui sono espressione i principi della Costituzione del ’48 nel tempo non si è rivelato un limite, ma, anzi, ha consentito di non subire i contraccolpi della crisi delle tradizionali ideologie politiche, acceleratasi con la caduta del muro di Berlino.

Il rispetto delle libertà civili, la pari dignità delle persone, l’eguale libertà delle confessioni religiose, la piena libertà di espressione, l’autonomia delle formazioni sociali, la dimensione “universalistica” dei diritti sociali, le varie declinazioni del principio di sussidiarietà fanno ormai parte di un patrimonio davvero condiviso. E ciò anche grazie alla maturazione e alla trasformazione delle culture politiche che, proprio perché si sono riconosciute in questi valori, hanno assicurato nel tempo il mantenimento della cosiddetta “Costituzione materiale”.

“La consonanza fra i valori espressi nella Costituzione e i valori di cui sono state portatrici le forze politiche dominanti”, per usare un’espressione di Costantino Mortati, ha favorito la nascita di un “diritto obiettivo”, vale a dire di un sistema di garanzie sostanziali, tendenzialmente più stabile e meno dipendente dalle “variabili” storiche.

Tutto ciò, ovviamente, non significa che la Prima parte della Costituzione non debba essere quotidianamente difesa dai rischi insiti nei meccanismi che determinano il consenso politico e l’esercizio del potere.

Di fronte alla crescente complessità dei problemi che le moderne società devono affrontare, all’intrecciarsi e al contrapporsi degli interessi individuali e di categoria, alle difficoltà del “decidere” e del “governare”, tornano ad affiorare, in molti paesi europei, e anche nel nostro, sentimenti quali la sfiducia nella democrazia partecipativa e nei suoi processi decisionali, la diffidenza e l’avversione nei confronti della politica. Tende così ad accentuarsi, in altre parole, la contrapposizione o addirittura la frattura fra “paese reale” e “paese legale”.

Per contrastare questi sentimenti diffusi, che attestano come nella relazione tra il “demos” e la “polis” molto stia cambiando, c’è bisogno di aprire una vera stagione di riforme delle nostre istituzioni.

Il principale problema che ci troviamo di fronte, a mio avviso, è quello di come conciliare l’incremento della capacità deliberativa del Parlamento e del Governo, senza la quale non si regge il confronto con gli altri centri di potere economico e con i grandi centri di potere transazionale, con la valorizzazione della democrazia partecipativa la sola in grado di consentire la riappropriazione, da parte dei singoli membri della comunità, di spazi di coinvolgimento decisionale non limitati al momento del voto.

A volte, invece, si ha l’impressione che la tentazione più ricorrente e più forte sia quella di ritenere che il principio della sovranità popolare si affermi solo con il varo di riforme più o meno strutturali, concepite soprattutto come rimedio ai mali e alle difficoltà di un sistema democratico percepito sia come scarsamente partecipato che come scarsamente governante.

Così facendo, il rischio è quello di limitarsi ad adottare i pur importanti correttivi necessari al funzionamento delle regole istituzionali, senza contemporaneamente rilanciare, in un contesto di partecipazione democratica rafforzata, quel sentimento di appartenenza ad una unica comunità di destino, che vive solo quando si condivide un comune “etos” civile. E’ il grande tema del cosiddetto “patriottismo repubblicano”, formula che personalmente preferisco a quella più in voga di “patriottismo costituzionale”.

È proprio nell’ambito di questo rinnovato patto tra cittadini consapevoli della comune appartenenza, che si possono distinguere chiaramente i doveri “inderogabili”, sanciti dalla Costituzione, da tutti gli altri obblighi giuridici che il legislatore ha previsto o può prevedere.

Tali doveri trovano, infatti, il loro fondamento nella realizzazione del principio primario di solidarietà tra cittadini che rappresenta la ratio giustificatrice e più profonda di una democrazia compiuta.

Ciò è tanto più vero se si pensa che, attraverso il richiamo alle forme della solidarietà, come la dottrina giuspubblicistica più attenta ha spesso osservato, la Costituzione non si è posta solo l’obiettivo di realizzare la completa omogeneità sociale, ma, anche, di rafforzare quel livello di integrazione necessario ad evitare le spinte disgregatrici in un contesto sociale che mantiene, e deve mantenere, il suo carattere pluralistico.

In altre parole, la “comunità di diritti e doveri” presuppone, come giustamente osserva Popper, una comunità “aperta” fondata sul principio ed il dovere di garantire l’effettiva tutela dei diritti fondamentali attraverso l’adempimento degli obblighi di solidarietà.

Solidarietà che, calata nei nostri giorni, non deve venir meno di fronte alla crescita dei problemi posti dalla società multiculturale, anche se questi fanno riemergere o riacutizzano, nel corpo sociale, rivendicazioni identitarie e particolaristiche.

Viviamo in un’epoca in cui, più o meno inconsapevolmente, da più parti si tende a posporre la tutela di fondamentali diritti civili ed umani alla conclamata esigenza di combattere pericoli, nuovi o presunti, per la società.

Credo sia necessario riflettere sul fatto che in realtà l’era della globalizzazione ci pone di fronte ad un processo di radicale trasformazione dei concetti giuridici di “popolo” e di “popolazione”. Da quest’ottica, la cittadinanza appare sempre di più determinata non tanto come status, ma come relazione tra il soggetto individuale e la comunità alla quale appartiene o della quale è venuto a far parte, accettandone le regole e condividendone i valori.

Da un punto di vista più politico, occorre capire come il quadro costituzionale italiano possa interagire con i cambiamenti in corso e quali possano essere le strade per governare questi profondi processi di trasformazione della composizione della società, e come sia possibile inquadrarli in una nuova concezione giuridica aperta alla considerazione dei diritti politici del “non ancora cittadino”.

Credo sia davvero innegabile, al di là delle forti divergenze che si registrano tra le forze politiche sul tema, che la convivenza con tutti coloro che non sono cittadini italiani appartenga allo scenario che dovremo inevitabilmente affrontare nel nostro futuro.

È in questo quadro che la nostra Costituzione è chiamata ad evolversi per rispondere a queste concrete ed odierne dinamiche ed è chiamata a farlo nel quadro saldo dei princìpi che i Costituenti hanno voluto a suo fondamento.

E’ proprio, infatti, la Costituzione ad offrire gli strumenti per salvaguardare la nostra convivenza dalle spinte distruttive, assicurando ad una società sempre più pluralistica la via per mantenere la coesione e consolidare la sua prosperità.

Anche per questo è doveroso, prima ancora che necessario, richiedere a coloro che vivono fra noi, e non sono ancora cittadini italiani, l’adempimento di tutti i doveri che le leggi e la Costituzione prescrivono.

Si tratta di chiedere loro di coltivare quegli obblighi di rispetto e di solidarietà cui essi stessi hanno pieno diritto in quanto persona, al di là di essere o meno cittadini.

Solo così si può dare piena attuazione a politiche basate sul “pieno sviluppo della persona umana”, secondo quanto sancisce l’articolo 3 della nostra Costituzione.

Solo tenendo vive le radici della Costituzione sarà possibile riconoscere le ragioni degli altri, rispettare le identità e le memorie collettive e favorire così la convivenza tra culture diverse. E’ motivo di conforto il fatto che le nuove generazioni europee lo hanno già saputo fare, seppellendo gli odi e le rivalità che hanno avvelenato in passato la convivenza fra i popoli, di cui Trieste e il nostro confine orientale serbano ancora dolorosa memoria.

Oggi le Università, che, per definizione, sono il luogo di diffusione della conoscenza e del sapere, sono chiamate a svolgere ulteriori ed importanti compiti, a favorire l’incontro tra le persone – penso, ad esempio, ai programmi Erasmus e Leonardo – ma soprattutto a costruire quel patrimonio comune di valori e princìpi che non devono e non possono conoscere limiti di frontiera, proprio perché valori di carattere universale.

Cari studenti, mi tornano in mente le parole che Piero Calamandrei pronunciò nel novembre 1945 all’indomani della fine della guerra: “Questa – cito testualmente – è la grande funzione che nei prossimi decenni l’Università dovrà avere in Italia e nel mondo: dare a questi giovani, dai quali per forza deve uscire la classe dirigente di domani, il modo di trovarsi nella cultura e nella ragione, cioè in quel campo spirituale e morale in cui ogni uomo si abitua a prendere coscienza di sé e a vivere con gli altri.”.

Nella cultura, dunque, e nella ragione. Da questo punto di vista, l’Europa che dobbiamo costruire è proprio quella che già Voltaire definì più di due secoli fa l’“Europe raisonnable”.

Ma, proprio perché è ragionevole, è anche un’Europa umana, libera da pregiudizi e fiduciosa delle proprie nuove opportunità.

Un’Europa, per dirla con Dahrendorf, autenticamente democratica perché capace di avere sì istituzioni comuni, ma soprattutto perché capace di nutrire dei medesimi valori il proprio demos.

Grazie.

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