26 Ottobre 2009

“Lo dice anche Tremonti: la ricerca non può essere precaria!”, la parola a due ricercatori dell’Università di Trieste

daniele andreozzi luca bortolussi

Trieste. L’informatico Luca Bortolussi (foto a destra) con i suoi 29 anni è il più giovane ricercatore dell’Ateneo triestino. Lo storico Daniele Andreozzi (a sinistra), 50enne con una robusta convinzione: “Noi ricercatori ci manteniamo giovani”. Entrambi con alle spalle decine e decine di pubblicazioni nei rispettivi settori. Un faccia a faccia sul reclutamento, sulla ricerca in Italia e all’estero, e sullo stato di salute dell’Università di Trieste: “Rischiamo il collasso finanziario. E non tra 4-5 anni ma tra 2 o 3”. Dopo l’intervista al rettore Francesco Peroni, continua l’approfondimeno di bora.la sull’istruzione a Trieste, città universitaria.

RECLUTAMENTO. Quando e come siete stati reclutati dall’Università di Trieste?

Daniele Andreozzi (D.A.): Nel ’97, se ricordo bene. Con concorso.
Luca Bartolussi (L.B.): Ho vinto un concorso nel 2006.

Mi risulta che il reclutamento in Italia sia basato su un sistema misto, nazionale e università locale, che deresponsabilizza sui risultati del ricercatore. E’ così?

D.A: Io credo di essere passato con la vecchia legge, quella nazionale, un concorso di vecchio tipo…
L.B: Storicamente le modalità di reclutamento hanno conosciuto un cambiamento: prima del ’98, se non sbaglio, c’erano dei concorsi nazionali e poi i vincitori venivano chiamati dall università; dopo il ’98, e qui sono sicuro, i concorsi venivano banditi da ogni singola università in base alle sue necessità. Una volta bandito il concorso, per la valutazione c’era un commissario interno e due esterni. Potenzialmente i candidati potenzialmente potevano essere da tutto il mondo, per di più erano italiani e spesso locali. C’era un vincitore unico che poi era assunto dall’Università. (Luca usa il passato perché i concorsi, per quanto riguarda Trieste, sono bloccati, ndr).

D.A: Bisogna dire che prima, negli anni ’80, c’erano all’interno dell’Università delle logiche feudali: all’epoca poche persone venivano ritenute adatte alla docenza e queste si circondavano di un gruppo discrezionale di collaboratori che forniva un’attività di supporto. Valeva ancora la differenza tra professori ordinari, dediti anche ad aspetti finanziari e amministrativi, e quelli associati, più concentrati sulla didattica. I ricercatori, invece, erano dei collaboratori che potevano aspirare di crescere internamente al sistema fino a raggiungere la titolarità della cattedra.

Meglio queste logiche feudali o il concorso?

D.A: Guardi, per come la vedo io, lo strumento scientifico che ti permette di individuare Maradona non c’è. E’ giusto chiedersi: è utile avere una squadra di soli Maradona? Io non credo che sia funzionale ad un lavoro di ricerca universitario, dove il gruppo deve essere concepito come un team. Non è detto che determinate funzioni le faccia meglio il più bravo, delle volte l’Università ha bisogno di persone con capacità specifiche. Possiamo anche immaginare un’università di massimi ricercatori che però non sono capaci di fare didattica, il sistema non funzionerebbe. La valutazione è difficile ma quello che manca è il principio di responsabilità.

L.B.: Il concorso per sua natura deresponsabilizza perché nel momento in cui uno è dichiarato vincitore, l’atto di responsabilità termina. Dopo di che non c’è nessuna valutazione ex post perché non è prevista dalla legge. Ma condivido l’idea che in una squadra non puoi avere solo prime donne. Il problema è, come dice Daniele, il principio di responsabilità.

ESSERE RICERCATORI in ITALIA e ALL’UNIVERSITA’ DI TRIESTE. Come valutate l’inserimento, a partire da quest’anno accademico, del contratto che retribuisce i ricercatori per la loro attività di insegnamento frontale?
D.A: Parto da una premessa: i ricercatori, inizialmente, avevano solo obblighi di ricerca ed erano inseriti in un sistema piramidale, nel senso che solo chi si trovava al vertice insegnava. Quando è stata fatta la riforma del 3+2 (la divisione dei corsi in triennali e biennio specialistico, ndr) è aumentato il bisogno d’insegnanti.
C’era bisogno di maggior insegnanti, la risposta è stata quella di far insegnare i ricercatori.

Perché i ricercatori hanno accettato di insegnare?
D.A: Speranza di carriera, da un lato, ubbidienza, dall’altro. E poi, il veder riconosciute delle proprie professionalità e tentar di uscire da meccanismi di controllo a volte feudale che esistevano nell’Università. In questo marasma tutti, docenti e ricercatori, si sono ritrovati a fare le stesse cose.

I ricercatori di fatto sono diventati docenti, con tutti i problemi del caso. Ora ci sono docenti unici per una determinata materia e, molto spesso, ad essere titolare della cattedra è un ricercatore. Con tutti le difficoltà connesse: la commissione d’esame, ad esempio, non può essere costituita da personale strutturato visto che non c’è, le supplenze restano tante volte vacanti….

E’ dentro questo discorso che si sono inseriti i tagli dello scorso anno che hanno colpito in maniera diversa la docenza universitaria e la non docenza. Non siamo stati considerati per quello che siamo per la legge, cioè non docenti. Allora ci siamo detti: noi veniamo considerati docenti quando ci sono gli oneri e non quando ci sono gli onori…

Ma la retribuzione delle lezioni frontali è un riconoscimento della vostra attività o sbaglio?
D.A: E’ passata l’idea di dire che il nostro insegnamento non era di nostra competenza e dovevamo farlo a parte. E’ passata l’idea di pagarci. Stiamo attenti, in realtà, è stata una richiesta per marcare questa nostra diversità, che noi non accettiamo: sono 20 euro lordi d’insegnamento, un corso di 60 ore vale 1200 euro, per un’attività che poi dura un anno tra preparazione del corso, esami, ricevimento con gli studenti e tutto il resto. C’è pagata solo l’ora frontale.

Certo, è un riconoscimento di un problema perché prende in considerazione il fatto che non ci sia più un’organizzazione del lavoro adatta e che ci siano più persone, giuridicamente considerate diverse pur facendo la stessa cosa. (Tanto che oggi c’è un problema: gran parte del lavoro amministrativo è sempre più in mano ai ricercatori, senza prospettive culturale e di carriera, e con possibili problemi di non sostenibilità di svolgimento dei ruoli amministrativi).

Qualcosa da aggiungere, Luca?
LB: Due puntualizzazioni. Il processo che porta i ricercatori ad essere docenti sul campo nasce prima della 509 (la legge che ha inserito il 3+2 ndr). C’era stato un aumento dell’offerta formativa a cui non è corrisposto un aumento del corpo docente. Le leggi che permettono di fare ai ricercatori attività frontale, dovrebbero essere dei primi anni ’90. Il cambio d’ordinamento ha aumentato ancor di più la domanda di docenza, e l’apporto nella didattica dei ricercatori è diventato fondamentale. Non più una scelta ma una necessità. Se noi non facessimo lezioni s’incastrerebbe tutta la macchina universitaria.

La seconda è un’osservazione di sistema: la struttura dell’università è cambiata in modo profondo, non è più quella degli anni ’80, eppure le 3 figure, associati, ordinari e ricercatori, pur con status giuridici diversi – a dire il vero i ricercatori non l’hanno proprio – fanno le stesse cose. Le differenze sono solo per gli stipendi e i minor diritti e garanzie dei ricercatori.

I NUMERI DELLA RICERCA IN ITALIA. I docenti di ruolo nell’Università italiana sono 62.768 (dati Miur 2008), di cui 18.929 sono professori ordinari, 18.256 professori associati e 25.583 ricercatori. A questi si aggiungono 49.000 cattedre a contratto, circa il 44% dei docenti universitari totali.

Andando oltre alla differenza di trattamento economico, un nostro assiduo commentatore –tale “bulow” – ha sottolineato come questo nuovo contratto sia, cito testualmente, “un’inculata colossale”. Un modo per evitare la definizione di uno status giuridico del ricercatore e per bypassare il tema dell’inserimento della docenza di 3za fascia. Siete d’accordo con queste affermazioni?
LB: Rispondo a questo bulow: prima di tutto la definizione dello status giuridico non dipende all’università di Trieste, non è una cosa che le compete. Essa si muove all’interno di un quadro normativo nazionale.
Questo pagamento – non è un contratto, anche perché noi siamo figure decontrattualizate senza tavoli di contrattazioni – è una misura simbolica, il riconoscimento di un ruolo che svolgiamo nei fatti. Tanto è vero che laddove conviene veniamo trattati come non docenti, ad esempio nella legge sui pensionamenti sono esclusi i docenti di 1ma e 2nda fascia (ordinari e associati, ndr), ma non i ricercatori.

D.A: Secondo me, è sbagliato questo diverso trattamento, anche perché, visto che l’Università vive di fatto con la nostra docenza, penso che avendone la possibilità dovrebbe riconoscerla. Tenendo conto di una cosa: come ricercatori non siamo contenti della situazione ma credo che ci debba essere riconosciuta la nostra responsabilità, sono anni che consentiamo gratuitamente e adesso con 10 euro, che gli studenti di Trieste si laureino.

Quindi, avete un potere di ricatto sull’istituzione. Perché non utilizzarlo?
D.A: Mi sembra che da parte nostra non ci sia un atteggiamento ricattatorio, ma la volontà d’essere istituzione e di dimostrare il nostro attaccamento all’università. MI piacerebbe sentirlo dire. Il fatto che insegno gratis da 10 anni, vorrei che mi fosse riconosciuto. Mi piace andare in aula. Mi dispiacerebbe se i miei studenti non proseguissero gli studi per causa mia e degli altri colleghi. Vorrei solo un grazie.

Un grazie e la terza fascia?
D.A: Se mi chiedessero da libero cittadino di scrivere un progetto di legge da presentare in parlamento, lo farei basato sulla fascia unica con delle diversificazioni interne per le funzioni svolte, con inserito il principio di responsabilità. Con questo non voglio dire che tutti i ricercatori sono santi, ma bisogna decidere se sono diavoli, secondo quello che fanno.

L.B: Sono assolutamente d’accordo. Sarebbe una presa d’atto della realtà esistente. Non vedo il motivo per mantenere una distinzione netta per cui per passare da una fascia all’altra devi fare dei concorsi. Il passaggio di grado dovrebbe avvenire sul campo e non sancito da qualche decreto del ministero.

Il rettore Francesco Peroni, nell’intervista rilasciata a bora.la, ha ammesso di aver attuato una politica di svecchiamento e quindi, lasciando spazio al nuovo che avanza, ha preso le parti dei ricercatori più giovani. Vi sentite effettivamente appoggiati dal Rettore? E come valutate la sua rielezione?

D.A: Sarò moderatissimo: io non mi riconosco assolutamente in una guerra baroni-ricercatori. Non stiamo facendo guerra a nessuno e vorremmo che tutti lo facessero…

Non tutti fanno il loro dovere, quindi…
D.A: I problemi sono tali che meriterebbero anche da parte dei ricercatori un grado d’interessamento e coinvolgimento che non c’è. Perché sta cambiando il nostro modo di lavorare e di essere in un contesto apatico e disinteressato.

Quanto allo svecchiamento e alla rielezione del rettore?
Lo svecchiamento, purtroppo, non è mirato ad obiettivi di qualità ma deve rispondere a delle necessità finanziarie.
Il discorso “rettore sì rettore no” penso sia inutile. Mi fa venire in mente il dibattito del Pd: “Franceschini o Bersani”. Il problema è cosa, non chi.

Ma scusi, il Rettore essendo in carica da tre anni, avrà pur dato una linea d’indirizzo alla sua politica di governo dell’università. Non crede?
D.A: Credo che il Rettore sia una figura istituzionale con il suo ruolo ben preciso. Ma questo dibattito è banale, stupido, sbagliato. E’ con questo Rettore che dobbiamo far uscire l’Università di Trieste dalle secche in cui è finita. E ce la faremo solo se siamo tutti d’accordo: associati, ordinari, ricercatori e studenti…

L.B: Tornando allo svecchiamento, Peroni ha avuto la possibilità di assumere 12 ricercatori su dei fondi ministeriali ad hoc stanziati dall’allora Ministro Mussi. Ha preso atto della situazione. Qui non ci sono state assunzioni negli ultimi 3 anni a parte questi ricercatori, per la banale questione che non ci sono risorse finanziare e ci sono meccanismi tecnici, come il FFO (fondo di finanziamento ordinario, ndr) che non rispecchiano la reale situazione dell’università in Italia.


Pro o contro la rielezione?

L.B:Condivido con Daniele l’idea che in un momento di grandissima crisi – è a rischio l’esistenza stessa dell’università pubblica così come l’abbiamo conosciuta finora – è necessario che le scelte siano condivise e partecipate dall’intera comunità universitaria.

Scusate se insisto, in 3 anni, questo rettore avrà pur fatto qualcosa contro o pro i ricercatori?

D.A: Ha fatto scelte positive e altre negative, come quella, approvata anche dal Senato accademico, sul prepensionamento dei ricercatori. Ma non è questo il problema. Recentemente si è anche parlato di “distruzione creatrice”, la quale sarebbe un’ipotesi legittima. Il punto è essere coscienti delle diverse ipotesi.

Perché ci siano delle ipotesi bisogna che ci sia una massa critica che le formuli, un dibattito all’interno dell’università. Lei stesso ha qui sopra denunciato la debolezza di tale dibattito. La sua assenza è stata sottolineata da un altro nostro commentatore, Duccio Galimberti, sempre in riferimento all’intervista al rettore. Insomma c’è o non c’è questo dibattito all’interno dell’Ateneo triestino?

D.A: C’è una parte delle persone che dice “io faccio il mio lavoro” e vado avanti così. Un’altra parte dice “non c’è niente da fare”, quello che succederà, succederà. Una terza parte ha poca sensibilità istituzionale.

Lei in che categoria si metterebbe?

D.A:Non sono qui per dare giudizi morali, è compito di altri. Ma ci deve essere un’università consapevole di quello che succede.

Non è consapevole?
D.A: No, per me no.

E per un rappresentante dei ricercatori in Consiglio di amministrazione dell’Università?

L.B: Anch’io vedo un interesse poco vivo sui problemi che dovrebbero essere affrontati. Poca partecipazione, in una fase in cui mi sembra incredibile che ce ne sia così poco. Rebus sic stantibus, con l’attuale legge dello stato, noi rischiamo il collasso finanziario. E non tra quattro-cinque anni ma tra 2 o 3.

Parli dell’università di Trieste o italiana?
L.B:L’università italiana rischia grosso, Trieste è in prima linea. Perché i tagli imposti all’interno dei vincoli di spesa che dobbiamo sostenere – non è che possiamo non pagare gli stipendi – e di meccanismi perversi legati all’autonomia universitaria…

Puoi spiegare cosa si riferisce con “autonomia universitaria”?
L.B: Hanno creato l’autonomia universitaria intorno al 1994, da allora è passato il principio per cui lo Stato ti passa un tot di soldi all’anno che l’università può spendere con i vincoli legati agli stipendi dei dipendenti. E’ successo che all’aumento di spesa, legato ai meccanismi automatici di crescita dei salari adeguati all’inflazione e ai meccanismi di scatti legati alla carriera per quanto riguarda il personale docente (mentre per il personale tecnico amministrativo c’è la contrattazione), non è corrisposto un aumento di finanziamento. Per cui le quote di stipendio crescenti sono andate ad erodere sempre di più il finanziamento, arrivando quasi a coincidere la quantità di soldi che arrivano dal ministero (il parametro da non sfondare in stipendi per il personale –docente e amministrativo- è del 90%. Trieste lo supera, ndr).

Ma come rappresentante dei ricercatori quali sono i mezzi che ha messo in atto per coinvolgere maggiormente gli altri colleghi?
L.B: Cerchiamo, con difficoltà, di trovarci ogni tanto e di dialogare con i mezzi informatici, creando delle mailing list, ma anche lì la partecipazione è limitata

Quanti ricercatori sono iscritti?
L.B: Non tutti i 300, solo il 25%-30%.
D.A: Sì, al massimo della nostra attività abbiamo coinvolto circa un 30% dei ricercatori dell’Università di Trieste.

I NUMERI DELLA RICERCA A TRIESTE. I docenti di ruolo nell’Università di Trieste sono 860 (fonte sito Miur), di cui 276 sono professori ordinari, 300 professori associati e 284 ricercatori.
A questi si aggiungono 1065 cattedre a contratto (dato anno accademico 2008/2009, fonte: www.units.it)

RICERCATORI ALL’ESTERO.Che prospettive avete, vista questa profezia catastrofica, dal punto di vista della carriera?
D.A: Binario morto!
L.B: Adesso, binario morto. Il reclutamento è chiuso ma anche se si riaprirà non ci sono le risorse.
Sarebbe d’andare in altre sedi, ma è difficile visto che nel corso degli anni si è creato un sistema che tende a privilegiare i passaggi di carriera interni.

Pensate di andarvene all’estero?

D.A: Detto brutalmente, lavorare all’università per noi ricercatori è un atto d’amore per una vita che era quella che immaginavi da piccolino.Per noi è un atto alla Tafazzi (il masochista personaggio messo in scena da Aldo, Giovanni e Giacomo, quello che si tira botte sui genitali, ndr). Togliamo spazio alla ricerca che è quella che poi ti valutano all’estero in termini di lavori scientifici.
In Italia penso che avrò ancora possibilità di far carriera se si proseguirà con l’indicazione del Ministero di procedere per selezione meritocratica. Allo stesso modo per l’estero. Detto questo, ho la fortuna o la sfortuna di essere storico nel senso che occupandomi di storia d’Italia andare all’estero per me significherebbe complicarmi la vita. D’altro lato penso di essere uno che ha prodotto e che produce. Se chiude l’università credo che da qualche parte andrò.

Per un ricercatore informatico?

L.B: Per un informatico è ancora più facile, credo. Sono entrato in università perché nel corso del dottorato mi sono innamorato dell’attività di ricerca. E credo di condividerlo con gran parte dei miei colleghi. Cerco di far ricerca anche nei weekend. Un po’ di contatti all’estero li ho, e potrei trovare facilmente trovare una posizione. Fuori dall’Italia, forse anche stabile.

Una nota positiva: l’European Resarch Council ha assegnato fondi per la ricerca primariamente ad italiani. Una nota negativa: la maggior parte di loro vive e lavora all’estero.
D.A.: Altra nota negativa è che all’estero hanno più disponibilità economiche: ho avuto l’opportunità di lavorare con dei colleghi svizzeri che erano pagati anche per partecipare ai convegni internazionali…

Proprio restando in Svizzera, un certo Michele Cascella, ex dottorando alla SISSA di Trieste, ha raccontato la sua esperienza a “Il Fatto”. Michele studia e lavora a Berna. Lì esiste un fondo unico nazionale per la ricerca che finanzia, stando a quanto riporta il quotidiando di Padellaro, 45 borse di 1 milione di euro destinate ai ricercatori. C’è qualcosa di simile in Italia?

D.A: Io sono storico e per mia fortuna ho bisogno di pochi soldi (sorride, ndr). Nel senso che cifre di quel genere nella mente di uno storico non esistono..
L.B: In Italia non c’è. Anche se abbiamo fatto una caricatura all’italiana con questo grande progetto FIRB (fondo italiano per la ricerca di base)…
D.A: FIRB, sembra una malattia (ride)
L.B: Hanno messo questo progetto destinato a dei capi unità di ricerca giovani, magari anche non strutturati. A parte il fatto che avrebbero dovuto già rispondermi (ho mandato la domanda a febbraio), e questo ti lascia immaginare la serietà della faccenda.

Insomma dove trovate i fondi per la vostra attività di ricerca?D.A: E’ una guerra. Personalmente conosco i FIRB, gli INTERREG, i fondi europei, le fondazioni locali.

Non c’è un fondo unico come in Svizzera?
D.A: Ci sarà, magari. Noi ricercatori chiederemo da parte dell’ammitrazione dell’università un maggiore supporto a chi cerca fondi per finanziare la sua attività di ricerca. Devo dire che fino adesso io ne ho trovati, ma è sempre stata una guerra. Ma il rischio è che possa essere fuorviata.

Può chiarire questo rischio…
D.A: L’interesse ricerca potrebbe seguire la moda, andare dove c’è il soldo. Questa è una logica distorisiva.

Insomma si è privati della propria libertà di ricerca..

D.A: Potresti seguire temi che non sono tra i tuoi campi di interesse, e questo potrebbe anche andar bene. Ma molto spesso anche le logiche non sono le tue. Un altro grande problema è quello dei fondi finalizzati ad un obiettivo x. Se mentre faccio ricerca per x, si apre la possibilità di y ma per approfondire devo andare a Londra, non posso andarci perché i soldi devo spenderli in x. Come ricercatore anziano, con due figli a carico, sui 2 mila euro. Non so, mi devo tagliare il midollo spinale?

Non solo, si parla di internazionalizzazione ma io, credo come molti colleghi, le lezioni di aggiornamento di inglese me le pago con i miei soldi. Da quando ero bocia, l’inglese non l’ho più studiato. In quante amministrazioni pubbliche o private, il personale si forma autonomamente in questo modo?

L.B: Il problema dei fondi è complicato, dipendendo da molti fattori e non tutti sono collegati al merito. Devi essere nel carrozzone buono a livello nazionale.

Dove sono i carrozzoni buoni in Italia? Sono localizzati in particolari università?
L.B.: Sono trasversali e riguardano le persone. Metto in chiaro che non sono in nessun carrozzone. Però collaboro con un gruppo di colleghi di Udine e Trieste in ambito bio-informatico, l’applicazione dell’informatica alla biologia. Questo è stato un settore trainante negli ultimi anni e non c’era il problema delle risorse. Avevamo assegni di ricerca, la possibilità di viaggiare, ma adesso l’indicatore di benzina è arrivato a 0. Per dirti, abbiamo in corso un progetto FIRB (vedi sopra, ndr), e da due anni il ministero ha smesso di pagarci le quote mentre noi dobbiamo rendicontare sulle attività fatte senza essere finanziate. Questo è molto interessante per capire come funzioni in Italia. Anche noi ci mobilitiamo come possiamo, ma non ci sono i soldi.

Allora siete a favore di un fondo unico come in Svizzera?

L.B: Sì io sarei favorevole ad un’agenzia centrale.
D.A: La questione, secondo me, è secondario alla responsabilità personale. Faccio un esempio di mia competenza. I veneziani per le loro elezioni facevano ricorso all’estrazione a sorte di un nome collocato dentro palline poste in un’urna. Quando i nobili iniziarono a diventare degli attori di prestigio, vengono sostituiti da un bambino innocente: il ballottino. Anche lui, se adeguatamente sollecitato, può diventare un prestigiatore. Se andate al museo potete vedere le sue mani finte, di legno. La soluzione tecnica non basta se non c’è un principio di responsabilità..

Si può obbligare le persone alla responsabilità?

D. A: E’ come un po’ per la cintura di sicurezza, una volta non la metteva nessuno e adesso, forse la mette più gente. Dovremmo fare lo stesso. Non sarei così pessimista, credo che, nell’università, gran parte delle persone sia convinta di fare il proprio lavoro con serietà. Dico questo perché l’Università italiana, dal punto di vista storico, è stata importantissima per la modernizzazione e per l’avanzamento sociale del paese. Il fatto che oggi non ci sia risposta, dibattito, si spiega perché tutti continuano a fare quello che fanno come meglio riescono, ma ciò in una situazione di cambiamento non può bastare.

L.B: Concordo, non è che l’università è formata da banditi, ci sono molte persone che cercano di realizzare questo principio di responsabilità ogni giorno. Ma se questa prassi non diventa obbligatoria per legge, paradossalmente vieni svantaggiato rispetto a chi gioca sporco. Tutti, facendo parte di un’istituzione, dovremmo essere motori e parte integrante di questo cambiamento per indirizzarlo in una direzione virtuosa.

Un’altra citazione, sempre quel Michele Cascella, ex dottorando della SISSA ora impegnato nella ricerca a Berna, ha dichiarato: “In Italia chi fa il ricercatore è identificato come un precario, per di più sfigato”. Vi sentite sfigati o questa è la percezione che gli italiani hanno di voi?

D.A: (Parte in quarta) Posso sentirmi su un binario morto, obsoleto, ma non mi sento uno sfigato. Un’amica di mia figlia che mi conosce da anni, un giorno mi ha chiesto: “Daniele, io non ho ancora capito: lavori o studi?”. Sì, questa è l’idea della percezione che c’è in Italia. Passiamo per quelli che non fanno niente, quante litigate col mio vicino di casa, un bancario. Siamo dei parassiti e dei baroni, questo è quello che è passato per la stampa. D’altro canto credo che se uno valuta se stesso per la ricerca che fa, poi se ne frega…

Anche “me ne frego” è una citazione…

E’ per dire che se ami la ricerca, il giudizio degli altri passa in secondo piano.

Precario sfigato?

L.B.: Non precario, sono di ruolo. Però è vero che culturalmente chi si occupa di conoscenza è visto come marginale. Non essendo veline, non mostrando le nostre tette e i nostri culi – non avendo tette e culi da mostrare – non siamo attrattivi dal punto di vista culturale. Dopodiché un problema di comunicazione: non è facile capire cosa facciamo e perché questo è necessario.

“Precari sfigati” può essere riferito a quella bella fetta di ricercatori che probabilmente non sono “sfigati”, ma precari lo sono certamente. Perché ormai, a parte la mia eccezione di 29enne di ruolo, tutti i miei coetanei che fanno ricerca hanno contratti di 3 anni, se va bene, di 6 mesi, se va male, e non è detto che siano continuati. In Italia si è innescato un meccanismo per cui fai lavorare i giovani in modo precario, e questo vale nei settori scientifici –chirurgia, fisica, medicina – dove gli investimenti sono abbastanza consistenti e dove la manodopera è fondamentale. Nell’immaginario collettivo il ricercatore è visto come uno scienziato sperimentale e tra questi di precari ce ne sono tanti. C’è un sistema che sta macinando in questa direzione, verso l’incremento esponenziale della precarietà…

D.A: La ricerca non deve essere precaria. Oggi possiamo dirlo con più forza visto che anche il ministro Tremonti concorda con noi…(sorride, ndr)

Per concludere: se dovreste dirmi qual è il frutto più importante della vostra attività di ricerca fino ad oggi? Una pubblicazione, un libro, un articolo scientifico…

L.B: In prospettiva vedo la possibilità di scrivere una monografia, ma dovrò prendermi un anno sabbatico per farlo.
D.A: Un libro? Quello che non ho ancora scritto…

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12 commenti a “Lo dice anche Tremonti: la ricerca non può essere precaria!”, la parola a due ricercatori dell’Università di Trieste

  1. martino "bulow" prizzi ha detto:

    visto che sono stato chiamato in causa, ribadisco che per me il pagamento della didattica dei ricercatori e’ una fregatura. e poco importa se lo status giuridico rientra nel quadro nazionale, mentre i 10 euro all’ ora sono una scelta locale. e’ la solita questione, che ricorda in un certo senso quella della contrattazione collettiva. quanto si deve lasciare alla contrattazione di secondo livello (quella aziendale, per capirci)? e’ conveniente barattare diritti con agevolazioni economiche? (parlo per similitudini, ovviamente).

  2. rodolfo toè ha detto:

    Io, a mio modesto parere, mi lancio in una domanda un pò retorica. E’ che sto cercando lavoro e, da buon giovane italiano (precario) mi sono sentito rispondere anche che per lavorare in un CALL CENTER occorre AVER FATTO ESPERIENZA – tanto per dire che sono giusto un pò frustrato.
    La domanda è: scusate, ma visto che all’estero le opportunità sono migliori, perché non prendete e ve ne andate? L’Italia non vi ha mai dato niente. Fate fagotto e partite. Lasciate che questo paese vada affan**lo. Tra sessant’anni, quando qualcuno si troverà a doverne scrivere la storia, forse si renderanno conto di tutte le stronzate che hanno combinato.
    Io la favola del patriottismo, scusate tanto, ma non me la bevo più. Hanno riformato il mio corso di laurea almeno tre o quattro volte in cinque anni. Muoia Sansone, lui con tutti i filistei.

  3. lanfur ha detto:

    Fatevi la partita IVA. E’ il momento storico giusto.

  4. bulow ha detto:

    @ rodolfo

    tieni presente che in italia si tende a confondere i “ricercatori” con i “contrattisti di ricerca”. questi ultimi sono precari, e se possono se ne vanno via. i primi invece sono personale strutturato, con una busta paga di 2000 euro al mese.

    io, in tutta onesta’, di fronte a chi e’ veramente precario, non me la sentirei di dire che la didattica che faccio e’ gratis. a duemila euro al mese non ci trovo niente di sbagliato a svolgere anche attivita’ didattica. la mia attivita’ di ricerca produce lucro solo per le grosse case editrici internazionali. trovo giusto che una parte del mio lavoro resti “sul territorio”, come molti amano dire in questo blog.

  5. Luca B. ha detto:

    @ Bulow

    Il problema, infatti, non è il pagamento della didattica sì, pagamento della didattica no. In fondo tutti noi abbiamo fatto didattica gratis fino a ieri.
    Il problema è il riconoscimento del nostro ruolo nell’ateneo. Nel presente e, aggiungo, nel futuro, visto che il nuovo disegno di legge sull’università ci cancella definitivamente dalla faccia della terra… Altro che terza fascia… a calci in culo ci prenderanno…

    Per quanto riguarda l’estero, se ne possono andare anche i ricercatori di ruolo… Ovvio che se non sei di ruolo ti conviene enormemente di più andartene, che rimanere qui a fare il precario a vita.
    Ma avendo la fortuna di essere di ruolo, preferisco rimanere qui e “resistere”, agendo nella speranza che qualcosa possa cambiare.
    Lamentarsi e basta non serve a niente.

  6. bulow ha detto:

    eh caro luca, sento gia’ un frullar d’ ali di uccello padulo…

  7. rodolfo toè ha detto:

    Tranquilli, non volevo alimentare sterili polemiche. Ho il massimo rispetto per chiunque resti in Italia a lavorare come ricercatore – o anche solo come docente, intendiamoci: la situazione non è rosea per nessuno – anche perché immagino che tutti abbiano le loro ottime motivazioni per non andarsene.
    La mia era solo una domanda senza intenti provocatori, semplicemente mi chiedo se in tanta tenacia ci sia anche la speranza che cambino le cose, oppure è una decisione presa con la consapevolezza di aver fallito una grande occasione (cosa che, nel nostro paese, non mi sentirei di definire improbabile). Nel qual caso, la vedo – tristemente – come una scelta umiliante. Per tutti, me compreso. A chi comunque decide di credere non solo nella ricerca, ma nella carriera accademica in generale, auguro buona fortuna perché al di là di piccoli cambiamenti strutturali la situazione non è per niente rosea …

  8. bulow ha detto:

    @ rodolfo

    il fatto e’ che ha ragione luca: lamentarsi non serve a niente. bisogna darsi da fare per migliorare le cose. e gli spazi ci sono, basta essere persone libere.

  9. brancovig ha detto:

    Divertente anche perchè i due ricercatori rappresentano un po’ delle anomalie rispeto al sistema europeo-statunitense.

    Difficile trovare negli Stati Uniti ma anche in Europa un giovane di 29 anni con il posto fisso a vita nel campo della ricerca che poi in verità ha vinto un concorso nel 2006 quindi a 26 anni

    Come difficile trovare un ricercatore di 50 anni.

    Sono entrambe delle anomalie del sistema. Ma non vorrei entrare nei casi specifici che non conosco minimamente e che non mi sembra siano lo scopo della discussione che invece dovrebbe rifarsi al precariato nella ricerca.

    In genere nel mondo anglosassone a 26 anni uno deve ancora concludere il suo post-doct. Se poi pubblicherà con successo dei buoni lavori potrà ambire ad un 5+5 anni (da precario dignitosamente retribuito) a capo di un piccolo gruppo di ricerca e dai li poi partire con una tenure track per la sua stabilizzazione.

    Quindi in verità prima di una posizione permanente c’e’ una lunga fase di dignitoso precariato e sottolineo dignitoso. La famosa fase del publish or perish perchè i posti per scienziati sono dei posti privilegiati e fondamentali per la società. Bisogna selezionare le persone che hanno ampiamente dimostrato una elevata qualità nella ricerca ed una forte determinazione.Il famoso merito.

    In italia abbiamo una lunga fase di precariato senza certezze di stabilizzazione e soprattutto senza aver chiaro quali siano i criteri di riferimento Molte volte il tutto si risolve con un essere al posto giusto nel momento giusto alla faccia del famoso merito.

    In sostanza è giusto un certo precariato se l’intenzione è capire quali sono i giovani che entro 10 anni dal dottorato mi dimostrano le necessarie qualità di ricercatori. Poi immissione direttamente come professori associati oramai completamente indipendenti nella loro attività di ricerca da qualsiasi barone.

  10. Luca B. ha detto:

    @ brancovig

    Considera che il sistema italiano non è quello anglosassone. E che io sono un’anomalia anche per il sistema italiano (anche se ci sono ricercatori/assistant professor della mia età anche nel resto del mondo).
    Daniele, invece, è la norma in Italia. L’età media in cui uno diventa ricercatore di ruolo è elevatissima. E non hai certezza di diventarlo.

    Questa è una differenza cruciale con il sistema anglosassone. Li se sei bravo sai di poter ambire ad una posizione stabile in tempi ragionevolmente brevi. Qui no.

    Comunque il sistema anglosassone non è applicabile in toto e da subito alla situazione italiana, perchè non puoi ignorare il pregresso, cioè il fatto che ad oggi hai una massa di precari della ricerca sui 40 anni, bravi, che vorrebbero giustamente diventare di ruolo. Quelli che non se ne sono andati, of course.

    Poi, anche un professore associato è ricattabile, perchè sono i suoi colleghi ordinari a decidere se potrà diventare ordinario oppure no…
    A parer mio, il problema della ricattabilità lo risolvi solo con la fascia unica, cioè svincolando la progressione di carriera da scelte locali, ma affidandola a commissioni, possibilmente internazionali.

  11. brancovig ha detto:

    @il mio non voleva essere un appunto personale ma semplicemente la constatazione di una situazione perlomento particolarmente unusual

    Nella mia esperienza internazionale (in genere mi confronto con quelli che sono meglio di me) non ho mai incontrato neo dottorati con una permanent position. Ma va bene cosi almeno si ringiovanisce un p’ il corpo accademico

    Il problema italiano è la mancanza di percorsi limpidi per la stabilizzazione dei precari della ricerca che sono poi le colonne portanti del sistema ricerca di questo paese. Questo è anche il motivo per il quale pochi docenti stranieri lavorano nelle nostre università

    Certo è difficile pensare che un percorso del genere venga codificato visto che i quadri alti e più anziani hanno beneficiato in passato di ope legis oppure si sono trovati in periodi di vacche grasse. Ci sono ordanari anziani che lo sono divenuti prima dei 30 anni e sono abituati a ragionare per interesse di scuola e non per interesse della ricerca.

    Ora comunque bisognerebbe riformare il tutto abrogando i concorsi lasciando liberi i dipartimenti di assumere chi vogliono ma metterli poi con le spalle al muro con una verifica dell’attiva scientifica scrupolosa. E se le cose vanno male tagliare i fondi ed anche gli stipendi.

    Lo so che è un sogno ma dobbiamo raggiungere questo obiettivo

  12. Daniele Andreozzi ha detto:

    penso che il discorso sulla ricerca e l’università non sia un discorso ‘individuale’, ma ‘complessivo’ … e che a riguardo girano tante idee di ‘moda’ ma confuse e assai semplicistiche … in ogni caso, tutto sommato sono fiero di essere un ‘anomalia’ (anche se purtroppo non lo sono … in Italia il precariato, e spesso non dignitoso, dura molto più che all’estero e a volte non finisce mai … se la competitività risiedesse in questo saremmo tra i paesi più competitivi e liberisti del mondo … per chi è contento di esserlo … :-)). Per il resto ci si può lo stesso divertire (bisogna senz’altro divertirsi) , ma c’è poco di divertente …

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