Sergio Sozi ci invia la sua rubrica letteraria mensile, originariamente titolata: E che pluralismo sia, ora, finalmente! – osservazioni a margine sui racconti di Carla Rotta in ”Femminile singolare” (Edit, Fiume 2006)
Le emozioni sono materia difficile da trattare letterariamente: potrei affermare che piú se ne possieda e meno si riesca a scrivere bene – beninteso: solo quando le proprie emozioni non possano essere filtrate dal confronto quotidiano con altri letterati di piú vasta esperienza; insomma quando lo scrittore (o la scrittrice, in questo caso) si ritrovi sovente da solo al cospetto della pagina bianca e poi ancora da solo dopo che l’abbia scritta, giú giú fino al libro a stampa (e questa penso fermamente che sia oggi, nel ventunesimo secolo, la triste condizione generale degli scrittori italiani dell’Adriatico Orientale – mosche bianche a parte, certo, ma Carla Rotta purtroppo non mi sembra voli con ali albine, a giudicare dal misto di artificiosità, colloquialità stereotipata ed eccessiva attenzione al trend italiano attuale, tutti confluenti nella sua lingua letteraria).
D’altro canto, guai anche alla sopraffina aridità dei maghi delle parole compiutamente peninsular-italici, i quali, del tutto vuoti di battiti cardiaci, si concentrino, attorniati da untuosi caporioni delle patrie lettere, sui bassorilievi estetici dei testi narrativi per modellare colonne traiane fatte di arzigogoli e azioni frenetiche (accadimenti, questi, altrettanto insignificanti o pletorici, o spesso ammiccanti alle sceneggiature di pellicole decisamente americane).
Ecco. Questo lo dico in linea generale e dunque chiudo subito i battenti della specie di parentesi non scritta con la quale ho esordito: spero si sia capito che intendevasi porre in rapporto speculare due fra le peggiori abitudini degli scrittori italiani di oggidí: la chiusura in sé e l’imitazione dei prodi statunitensi – tutti gli appartenenti alla seconda di queste categorie, quella dei frenetici creatori di eventi, sbandierano (!!) Carver o Poe ma scrivono come lo sceneggiatore provinciale che imita il telefilmetto nerastro di Mediaset: sintetico e fuggitivo, telefonino docet; invece tutti gli appartenenti alla prima classe, quella degli intimisti psicoqualcosa, ricordano compiaciuti Svevo o Pirandello ma vanno sul rosa pallido, o sull’azzurrino stinto per i maschietti, masturbatori e inconcludenti entrambi – e spesso anche mal scritti, ché hanno fretta, costoro, mica possono guardare le virgole, per carità. Poi ci sarebbero i revivalisti del romanzo storico, (con)fuso con la saga familiare o gli altri che scrivono sotto l’ala del Realismo Magico sudamericano, ma qui andremmo fuori tema e li lasciamo stare, impietosendoci per furbate come Mal di pietre della Agus o cose parzialmente disarmoniche tipo Mille anni che sto qui di tal altra Venezia, per non dire del Dolore perfetto di Riccarelli. Pluripremiato, questi, solo perché sa leggere bene Marquez, vero?
Per venire, stavolta appieno e senza divagazioni, a Singolare femminile, il caso di Carla Rotta è in parte, dico in parte, diverso, sí, ma risente di un paio di pecche: la prima d’ordine stilistico, nella fattispecie lessicale e strutturale; la seconda riguardante il significato (la prima pecca eludibile e correggibile e l’altra invece direi proprio di no).
Vediamole brevemente, iniziando con la seconda, quella dei significati – in secondo luogo, come già detto, andremo a dirigerci sull’estetica e sulla struttura di un libro di racconti che, come il presente, voglia mettere l’accento sull’ego dell’eterno femminino senza avere una chiara idea né del proprio ego né del proprio stile.
I significati. Carla Rotta è nata in Istria e ivi ha vissuto, membro di una sparuta comunità italiana che ormai ha perso almeno una metà dei modi di fare e di essere tipici degli italiani di quei luoghi. I significati dei racconti che ho letto, appunto, son pertinenti a quelli di un cittadino del tutto croato che abbia sempre letto in italiano, abbia fatto studi nella stessa lingua e abbia mantenuto una propria lingua familiare magari perpetuatasi finora in italiano o in un dialetto romanzo di radice veneziana. Però questi racconti non parlano di una donna ”singolare”, di una autentica straniera che viva in Croazia, ma parlano di una donna croata, anzi iugoslava, in abiti estetici italiani. Tali abiti, certo, si compenetrano all’anima. In parte. In minima parte. E l’atteggiamento generale delle diverse protagoniste delle sue storie dice, e secondo me è, questo: quello di un’anima che si traveste e cerca, disperatamente, delle sicurezze. Certo, le similitudini comportamentali con le donne italiane sono molte, ma tali somiglianze sarebbero, al giorno d’oggi, riscontrabili anche in una svedese o in una polacca, in una spagnola. I modi di sentire, insomma, di Carla Rotta, sono iugoslavi (ovvio: l’autrice è classe 1960: se cosí non fosse sarebbe come se Moravia non fosse stato sottilmente tentato dall’Italia fascista, mutatis mutandis). Ma proseguiamo: le sue modalità di sentire e di essere profonde, lo vedo chiaramente, non vivono le stesse peculiarità delle donne italiane, le stesse loro scissioni fra cattolicesimo e individualità, fra sensualità preponderante e rifiuto del maschio. No. Non con la stessa violenza, ottusità e lunaticità, non con la follia raziocinante e il materialismo parossistico delle italiane d’Italia. O almeno sí, ma solo filtrate col prisma di quella distante, tenera e tiepida ragionevolezza tipica della Iugoslavia. Questo è inevitabile, per questa autrice dolce e ripiegata, che induce fratellanza e fa strabiliare per il dominio pressoché (pressoché dico) completo della nostra lingua; anzi della sua lingua madre, certo, non lo negherò – e ne son felice, da italiano. Ma la distanza storica che ci separa resta tutta perché sta nelle cose e nei confini che abbiamo avuto e anzi si evidenzia nella lingua, in quella struttura inapparente della lingua che ci rivela, insegna Eco, la nostra vera natura storica – e nazionale, aggiungerei io immodestamente. La Letteratura è luogo di travestitismi e di spogliarelli… spesso involontari e tanto piú ammirabili – oppure deprecabili – quanto piú involontari essi siano.
Ed ora la nostra seconda pecca (modificabile): il lessico e la struttura della raccolta di racconti.
Il lessico utilizzato e il tipo di discorso – anche rimanendo in prima persona – sarebbero stati migliori, piú omogenei e diciamo veraci, umani, incarnati ma anche piú letterari, se l’autrice avesse cercato di evitare un tantino l’eccessiva colloquialità in presa diretta, l’ostentato giovanilismo del piglio e del tono, pertanto prendendo piuttosto ad esempio qualche autore letterario italiano moderno veramente buono – mettiamo un Tabucchi, un Consolo, o meglio ancora il Bontempelli, anche Buzzati o qualche vecchio tosto come il Landolfi dei racconti. Il Pellico, perché no. Ma la Letteratura italiana è timida ed insicura, cara Rotta: in prima persona parla poco e quando lo fa spara forte con la poesia, non è capace di far racconti moderati e tuttologici, ragionevoli e dotati di buonsenso come i suoi. No, ohibò. Va be’: bisogna avere dei buoni maestri, credo, se ci si sporge con audacia su questo tipo di racconti in prima persona. Se no, si vada su altre metodologie e si leggano i classici latini e greci. Luciano di Samosata è eccellente. Tutti i nostri antenati greci o latini erano potenti, nel parlare in prima persona – almeno nei secoli dopo Cristo, non certo ai tempi di Omero, benché Esiodo sia stato il primo a farlo… ma era un audace, Esiodo di Ascra, a volersi mettere in mostra otto secoli prima della nostra era.
La struttura. Ecco: sarebbe stata auspicabile una dimensione narrativa unica dell’intera raccolta di racconti, cioè un qualche tratto che unisse le varie situazioni sotto il cappello di un solo personaggio – ma capisco di chiedere troppo ad una serie di racconti puri come questa. Bene. Vediamo un poco: altrimenti suggerirei affettuosamente (con affetto parlo sempre, sia chiaro!) all’autrice di differenziare maggiormente gli io narranti delle varie sue storie. Al limite di mantenere la stessa voce ma ampliandola con qualche manciata di fantasia in piú. Non solo linguistica, ma sostanziale.
E questo – lo voglio qui mettere a caratteri cubitali – io lo sussurro con il massimo della complicità che il mio cuore esige per chi sia, leone da onorare, rimasto in quelle terre a soffrire un’italianità parziale e frustrata, scissa. D’altronde noi italiani già, della nostra italianità miserella e sciocca, ne soffriamo anche se non ci muoviamo da Roma, credetemi. Credimi, Carla, e continua a scrivere… magari elidendo qualche provincialistica tentazione retorica ed autobiografica dell’anima – bella – che si sa, si intuisce, tu hai.
Sergio Sozi
Mi permetterei solo una piccola aggiunta: tra gli autori ”forti” nello scrivere racconti narrati in prima persona da un personaggio fittizio, metterei in primo piano (oltre ai sovracitati) l’Italo Calvino del ”Barone rampante”, dove la vita di Cosimo Piovasco di Rondo’ viene magnificamente raccontata dalla voce del fratello minore Biagio. In questo caso, la parziale identificazione (ammessa dall’autore stesso) fra Calvino e il suo Barone viene filtrata dal fratellino, cosi’ evitando allo scrittore ligure le difficolta’ oggettive di una narrazione fatta dal protagonista.
Trucchetti del mestiere, questi, che consiglio caldamente a tutti – anche se, in verita’, anche il sottoscritto, in veste di narratore, non sempre e’ stato capace di approfittarne, ohibo’: medice cura te ipsum, direi a me stesso, sapete?
Saluti Cari