9 Maggio 2009

Trieste, di passaggio

Si sono di certo già spesi fiumi di parole sulle prospettive concrete aperte dal completamento della Grande Viabilità di Trieste, con la galleria Carso e il collegamento rapido con Muggia. Ma come cambierà la percezione di Trieste da parte dei viaggiatori e, soprattutto, sapranno i residenti dare un senso a questo cambiamento?

Ogni percorso genera una storia: non sto pensando necessariamente alla forma del road-movie, dove l’essere in movimento aiuta i significati a emergere: mi riferisco proprio alla sequenza materiale, ai manufatti e agli elementi naturali accanto ai quali transitiamo, agli esseri che notiamo nel nostro procedere e infine ai punti di vista sul territorio circostante, vicino e lontano, che acquisiamo nel nostro spostarci da un punto all’altro. Così, camminando in un bosco, una minuscola decisione quale quella di passare a destra di un albero piuttosto che a sinistra potrà scatenare degli imprevisti tali da cambiare radicalmente la storia della nostra passeggiata oppure, più probabilmente, rivelarci qualche particolare in sé insignificante, ma tale da colpire la nostra immaginazione e – attraverso qualche casuale simmetria o una fortuita analogia di forme, luci e colori – far affiorare qualche sensazione, ricordo, pensiero.

Ma se invece di vagare in un bosco seguiamo una strada, tutto cambia: perché c’è dietro la mano di un narratore. Invisibile e inconsapevole nella grande maggioranza dei casi, impersonale e privo di intenzioni narrative – fatto salvo qualche isolato caso monumentale – eppure, per casuale e involontario che sia il motivo che determina la sequenza, è pur sempre una successione ben definita quella che compone il testo che la strada ci legge, specialmente se percorsa a una velocità sufficiente a farci perdere di vista i dettagli e per di più nella relativa impermeabilità agli incontri garantita dallo stare nella scatola di lamiera di un’autovettura.

Se ripenso ai tempi in cui Trieste era per me ancora una destinazione e non il territorio domestico, il ricordo più lontano che riesco a evocare è di una giornata grigia, sul sedile posteriore di una 500 e con le raffiche di bora che sembravano poterla scaraventare giù da quello che mi pareva un precipizio (scendevamo alla Fiera, lungo la strada che ora chiamo “camionale”). Se considero anche i ricordi di arrivi successivi, automobilistici o ferroviari che fossero, hanno tutti in comune due fattori che chiamerò il lungo rallentare e lo spettacolare capolinea.

Prenderò a titolo di esempio l’arrivo in treno, con una miriade di stazioncine che si susseguono tra Monfalcone e Miramare, la lunga discesa verso il mare a velocità ridotta ma con la vista che si fa via via più spettacolare. E, alla fine, i binari che terminano contro un respingente e il treno che non potrà far altro che ripartire in direzione opposta, come avviene di norma in stazioni ben più importanti (Roma, Milano…) o con una situazione territoriale che dice molto chiaramente, come a Venezia, “qui oltre non c’è strada”. Ma sono due fattori che ritroviamo arrivando anche in auto o in corriera, dalla Costiera o scendendo la Strada Nuova per Opicina.

Solo negli ultimi 10-15 anni, con l’arrivo dell’autostrada fino a Padriciano, s’era introdotta la possibilità di arrivare fin quasi in città ed eliminare significativamente la lentezza degli ultimi chilometri – sebbene la brusca svolta a destra che sanciva la fine dell’autostrada in prossimità dell’Area di Ricerca e la seguente discesa panoramica rafforzassero ancor di più l’effetto capolinea.

Sono due fattori così evidenti e tali da caratterizzare l’esperienza che non esito a considerarli veri e propri meccanismi narrativi: tornando all’idea di strada come narrazione, quindi, sono due temi che ci raccontano una storia comune a tutti gli arrivi: il mondo finisce qui (o a Muggia, per chi a Trieste ci vive e può permettersi di badare alle sottigliezze).

Ma il completamento della grande viabilità con la galleria Padriciano-Cattinara e il collegamento veloce fino a Rabuiese ha introdotto una nuova possibilità: quella di passare accanto a Trieste, intravedendola tra le bande del guard-rail o in qualche rapido scorcio dall’alto, suggerendo anche a chi ci abita la possibilità di guardarla con gli occhi di chi è di passaggio – quanto di più lontano dalla retorica dell’avamposto – e di proseguire verso altre destinazioni, anche se non poi così remote, o magari anche solo per consegnare a Capodistria il ruolo di capolinea e il compito di dare ad esso un nuovo significato.

Non è certo un cambiamento epocale. Forse in tanti non lo troveranno nemmeno degno di nota: è solo un minuscolo segno – un inizio, forse, che promette però di schiudere la possibilità di sapersi immaginare e raccontare come punto di passaggio, di snodo. Fosse anche solo per il desiderio di cogliere un suggerimento e iniziare a costruire – attraverso una qualche casuale simmetria o una fortuita analogia geopolitica – l’ossatura di una storia più convincente di quella che ci ostiniamo a raccontare per questi luoghi.

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3 commenti a Trieste, di passaggio

  1. enrico maria milic ha detto:

    gran pezzo.
    complimenti davvero, sentiti.

  2. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    Veramente bell’articolo.

    Quando ero mooolto piccolo (avevo credo 4-6 anni) cominciarono a costruire l’autostrada Lisert-Trieste proprio sopra la mia dolina carsica preferita, dove passavo le domeniche con la mia famiglia a fare picnic…

    Ricordo ancora oggi con nostalgia i miei pericolosissimi ed efficacissimi (!!!) tentativi di sabotaggio con i miei amici di allora, spostando i paletti delle misurazioni di alcune decine di metri (nella speranza che l’autostrada venisse tutta storta!!!) pur di preservare il mio angolo di paradiso…

  3. Fabio ha detto:

    Grazie Giorgio, il tuo aneddoto è splendido! Mi sa che se qualche giovanissimo contemporaneo avesse diretto simili tentativi di deviazione alla galleria, vista l’estrema complessità dell’opera, magari sarebbe anche riuscito a causare effetti macroscopici…

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