8 Aprile 2009

L’uovo e la gallina globale

Stamattina mi sono fatto una passeggiata all’interno dello stabilimento della ditta per la quale lavoro. Su una delle moderne linee principali dell’impianto, fusioni da trecento chili provenienti da fonderie del Sudafrica vengono lavorate su macchine giapponesi qui in Germania per essere poi spedite via mare negli Stati Uniti, dove poi avverrà l’assemblaggio presso il cliente finale. Su un’altra linea piccoli componenti prodotti in Germania, Italia, Francia, Cina, Stati Uniti e India vanno a formare un altro prodotto high-tech che poi sarà venduto in tutto il mondo.
Sono arrivato alla mia postazione di lavoro e ho aperto il mio laptop Lenovo prodotto in Cina, su cui gira software americano Microsoft e software di gestione SAP prodotto in Germania.

Ingarbugliato in questo mare di connessioni globali, mi sono fermato per un istante a osservare il mondo dalla mia prospettiva. Che cosa vuol dire per me globalizzazione?
A mio parere la globalizzazione non è solamente una questione di velocità ma di come vengono fatte le cose. Mi spiego.

Attraverso la linea di produzione e prendo in mano un pezzo qualunque. Il pezzo è composto di un materiale (mettiamo alluminio), ma anche da una serie di caratteristiche che lo rendono qualcosa di utilizzabile: ciò è, per cominciare, un numero di pezzo e di magazzino, una lavorazione, un assemblaggio, un prodotto in cui va a essere montato; ma è anche un livello di qualità, un prezzo, uno o più fornitori della materia prima, un fornitore del prodotto finale, uno speditore, un numero di conto, una banca. Si potrebbe anche andare avanti all’infinito e riscrivere un libro di reminescenze pirsigiane.

In definitiva il pezzo dovrà rispondere al tipico triangolo prezzo-qualità-funzione per andare poi anche a concorrere in un prodotto, il quale a sua volta dovrà rispondere agli stessi criteri. È interesse dell’impresa dunque ricorrere ai fornitori che possano rispondere al meglio a questi criteri. Ovviamente nella ricerca del fornitore si privilegiano per praticità le ditte che a livello locale possano fornire tali pezzi. Tuttavia ciò non è sempre possibile. Capita che ditte locali non riescano a fornire la qualità o il prezzo; o piuttosto che non riescano a sfruttare strutture, sinergie e volumi per rendere il prezzo competitivo. L’impresa allora si rivolge all’estero al solo scopo di rendere il proprio prodotto appetibile e interessante al cliente finale.

Ciò è in primo luogo possibile al giorno d’oggi per via della tecnologia disponibile: posso cercare il fornitore su internet, scambiare e-mail, organizzare conferenze telefoniche, scambiare disegni e modelli in formato digitale, farmi spedire i pezzi per la via più economica, controllare le consegne e registrare gli scarti, spedire le reclami ed effettuare i pagamenti restando comodamente seduto nel mio ufficio e facendo girare il mondo attorno a me.

Aprendo Wikipedia (ne consiglio la versione americana en.wikipedia.org/wiki/Globalization) ho dato un’occhiata alla definizione di globalizzazione. “Globalization in its literal sense is the process of transformation of local or regional phenomena into global ones. It can be described as a process by which the people of the world are unified into a single society and function together”.
Esistono due diverse scuole di pensiero: quella di “processo” che vede la globalizzazione come la descrizione di un processo di forze culturali, tecnologiche, socioculturali e politiche; quella “economico-politica” che vede la globalizzazione come una scelta politica e dunque solo riferibile alla caduta di restrizioni agli scambi commerciali, di capitali, di servizi e di manodopera (regimi di scambio GATT/WTO, NAFTA, EU…).
Forse è in realtà una questione dell’uovo o della gallina, tuttavia a mio parere le conseguenze delle differenti interpretazioni sono non trascurabili.
L’interpretazione “processo” implica un passaggio da uno stato pre-globale ad uno post-globale, ossia da uno stato in cui gli scambi erano omeopatici ad uno in cui gli scambi sono diffusi a livello globale ed economicamente vantaggiosi. Le tecnologie attuali permettono tale processo e pertanto il processo può avvenire, i singoli ne hanno accesso, le imprese si inseriscono in questo processo, le nazioni ne prendono parte e il processo si autoalimenta. Nello stesso modo in cui è avvenuto il processo di domizzazione, di agricolizzazione e d’industrializzazione. La politica in pratica qui è fornisce gli strumenti di gestione della globalizzazione.

L’interpretazione “economica” implica che la globalizzazione sia dipendente da una decisione politico-economica delle nazioni e non che sia un naturale progresso dell’umanità. In altre parole che sia uno stato di cose reversibile con il semplice cambiamento delle regole dei regimi di scambio, ossia che la globalizzazione sia spegnibile rispondendo alla domanda “shut down the globalization YES/NO?” con un click. In questo scenario la politica è il deus ex machina e dona lo spirito alla globalizzazione.

A mio parere bisogna opporsi fortemente a questa interpretazione ed evitare che l’opinione pubblica si orienti su tale interpretazione, dato che essa consente ai governi di effettuare politiche contro i propri cittadini.
In questi giorni ci sono segnali molto preoccupanti per quanto riguarda il futuro.

Il presidente americano Obama ha focalizzato il suo piano di salvataggio sul sistema degli stimoli. Bisogna ringraziare al contrario Sarkosy e la Merkel per aver evidenziato innanzitutto la necessità di costruire regole, prima ancora di parlare di stimoli. Infatti l’attuale crisi non è tanto dovuta alla globalizzazione in sé, quanto alla mancanza di regole del gioco (vedi paradisi fiscali, segreto bancario, speculazione), ossia la politica non ha saputo gestire la globalizzazione.

Prevedo già che il grosso entusiasmo europeo per Obama sia destinato a scemare piuttosto rapidamente (per carità, magari averlo in Italia): egli infatti sta già agendo in direzione antiglobalizzazione. Di fronte ad un’industria americana che si è adagiata su se stessa e nell’illusione che le finanze bastino a produrre benessere, i prodotti dell’industria americana sono invecchiati (fino a due anni fa i veicoli più popolari erano pesanti SUV con grosse motorizzazioni V6 o V8) e non ci sono stati ulteriori sviluppi nelle tecnologie; gli uffici di ricerca e sviluppo sono stati mortificati.

Le clausole del tipo “Buy American” sono una pessima concorrenza nei confronti di ditte europee che coraggiosamente hanno investito in nuovi prodotti a proprie spese in modo da renderli più moderni, attraenti e appetibili a livello mondiale. Le conseguenze saranno non tanto drammatiche nei confronti dei colletti bianchi europei (i quali probabilmente continueranno a sviluppare prodotti per i mercati americani), quanto per gli operai e per l’indotto, dato che il protezionismo obbliga già a livello di singoli stati americani e obbligerà a livello federale a spostare le linee di produzione europee oltre oceano per mantenere i prodotti a livelli di prezzi concorrenziali.

Altra conseguenza dell’interpretazione “economica” della globalizzazione è che lo Stato vorrà sempre di più controllare i mezzi della globalizzazione. Dopo le proposte inglesi e italiane di regolamentare Internet, è del 1 aprile la proposta Cyber security Act 2009, con la quale si cercherà, con la scusa del terrorismo, di imbavagliare la rete, controllare i singoli (statunitensi e non). Praticamente come viene fatto correntemente in tutti i paesi non democratici.

La risposta alla crisi non è nello staccare la spina al progresso della globalizzazione ma nell’investimento nel futuro dei cittadini globali, per i quali le parole chiave sono, tra le altre, istruzione, sanità, ambiente e informazione. Solo così si genereranno cittadini capaci di gestire il mondo globale al meglio.

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28 commenti a L’uovo e la gallina globale

  1. Armando ha detto:

    Scusa, ma credo che tu faccia un po’ di confusione.
    Ho già abbondantemente spiegato in un altro post che quella che tu chiami “interpretazione ‘politico economica'” non è un’interpretazione, ma la realtà storica.
    Prima esistevano certe regole; poi in certi luoghi e a certi intervalli i decisori politici si sono seduti intorno a un tavolo e hanno cambiato le regole. Si tratta di regole scritte, si parla di Accordi, Trattati, cose concrete, reali, che dicono che certe cose che prima non si potevano fare oggi si possono fare e certe cose che prima si potevano fare oggi invece sono proibite (ad esempio, i paesi in via di sviluppo non possono proteggere le loro industrie nascenti e quindi sono bloccati per sempre nei settori tecnologicamente più arretrati e meno remunerativi).
    Cosa c’è di tanto strano in questo semplice dato di realtà, che ormai appartiene alla storia e sul quale si sono scritti decine, forse centinaia di libri, non lo capisco.
    Poi la tua lode della globalizzazione mi sembra davvero fuori luogo.
    Nell’ultimo quarto di secolo, cioè nell’arco di tempo in cui si è dispiegata la cosiddetta “seconda globalizzazione”, la crescita economica è diminuita, e non aumentata, rispetto al periodo precedente.
    Anche questo un fatto, notorio per chi si occupa di questi argomenti, taciuto praticamente da tutti i commentatori.
    Ma anche qui non ci si può fare nulla. Anche questo è un fatto, è un dato di realtà.
    Anche se molti giornalisti pubblicano dati falsi, addomesticati o privi di contestualizzazione o di termini di paragone, il dato di realtà dice che con la globalizzazione la crescita economica è diminuita (e in alcune aree ad alto tasso di povertà si è in pratica quasi azzerata.)

  2. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    Caro Armando,

    so che non ti posso convincere e che con le seguenti parole non ti convincerò. Come puoi ben leggere nell’articolo ho sottolineato il mio punto di vista personale riguardo la globalizzazione. Del resto così come faccio io, anche tu dai una interpretazione condivisibile o meno della storia come la conosciamo. Non per niente il titolo ironico “L’uovo e la gallina globale”.

    Del resto per quanto mi riguarda anche le tue fonti (che non citi, ma che mi farebbe piacere conoscere) potrebbero essere edulcorate. Per altro l’economia è una scienza a posteriori e, dato che è molto complessa, (similmente alla metereologia) riesce a fare previsioni su grande scala solo sul breve-brevissimo periodo. Pertanto ogni analisi di tipo economico mi lascia piuttosto tiepido (non per altro il nome di Greenspan, il quale era considerato una divinità fino a ieri, oggi è inpronunciabile).

    Nell’articolo ho sottolineato il fatto che per il mio tipo di lavoro, la globalizzazione comporta solo vantaggi (il business case della mia ditta si basa sulla vendita dei prodotti a livello globale – e lavoro “solo” per una ditta di dimensioni medie). Il mio prodotto è vendibile con profitto (il profitto è la base dell’impresa) solo se venduto in determinati numeri e reperendo pezzi con scarso valore aggiunto a livello mondiale (o vuoi produrti da solo la bulloneria M8???)

    Senza la globalizzazione che tu tanto disprezzi potrei restare a casa a girare i pollici. E probabilmente resteranno a girare i pollici i qualificatissimi operai di ditte come la mia se il protezionismo americano dovesse prendere il sopravvento; e questo a favore di una pessima (ma veramente pessima) manovalanza americana, sulla quale gli USA non hanno investito un soldo in qualificazione professionali, reti di sicurezza per la disoccupazione, pensioni.

    E qui torna il discorso della indecente geszione della globalizzazione effettuata da alcune nazioni (USA e Italia in primis per alcuni aspetti, Cina per altri) contro quella eccellente di altri (Germania).
    Tra l’altro gli unici che possono essere interessati al protezionismo sono i paesi importatori (USA) a danno di paesi che hanno basato la loro economia sull’esport (Germania, Italia e Cina).
    Non capisco pertanto il tuo livore nei confronti della globalizzazione, dato che sia tu che io ne siamo immersi fino al collo e ne godiamo i benefici.

    Se poi tu sei del partito di quelli che ricordano con nostalgia i bei vecchi tempi in cui noi Italiani producevamo t-shirt (prima che i cinesi ne spazzassero via l’intera industria mondiale), forse faresti bene a pensare quale valore aggiunto possa contenere una t-shirt da 2€ come costo di produzione e che salario saresti disposto a percepire come manovale del tessile.

    Come ho anche scritto nell’articolo dal mio punto di vista è una questione di regole del gioco: fintanto che esisteranno paradisi fiscali dove nascondere i denari delle speculazioni, fintanto che in alcune zone del mondo la concorrenza sarà sleale perchè il mio prodotto ottimizzato per un livello di prezzo verrà ucciso da sleale competizione protezionista (e non si tratta solo di dazi, ma anche degli incentivi regionali a installare ditte in determinate località del mondo), allora non si potrà parlare di globalizzazione compiuta ma di un surrogato di essa.

    Concludo dicendo che il fatto che l’affermazione “con la globalizzazione la crescita economica è diminuita” mi lascia tiepidissimo per due motivi: 1. la crescita economica ai tempi della speculazione è edulcorata e grazie a dio stiamo uscendo da questa ubriacatura da “crescita economica”, 2. crescita e recessione sono ciclici e indipendenti dal sistema economico adottato dall’economia (confondi meteorologia con clima)

    Grazie comunque del dialogo molto interessante.
    Cordialmente,
    Giorgio

  3. Marisa ha detto:

    Globalizzazione = nuovo colonialismo = sfruttamento?
    Sul piano economico sicuramente SI.

    Sta creando tantissimi problemi non solo nei paesi in via di sviluppo ma anche nei paesi dall’alto sviluppo economico.

    Nei paesi in via di sviluppo c’è lo sfruttamento della mano d’opera. Nei paesi già sviluppati c’è la disoccupazione causata dalla delocalizzazione dell’industria verso paesi dove la mano d’opera costa molto poco. Un giro vizioso dove ci guadagna solo chi possiede il capitale. Il Dio denaro non ha Patria, nè coscienza etica.

  4. Armando ha detto:

    Giustamente chiedi le fonti.
    Bene, per quanto riguarda i dati sulla crescita economica (aggregabili per aree geografiche) una serie che va indietro fino al 1960 è reperibile sul sito della Banca Mondiale (a pagamento) sotto la dizione World Development Indicators. Un’altra serie di dati è reperibile sul sito di Angus Maddison, che va ancora più indietro fino al 1800.
    Perché i dati sulla crescita economica sono importanti, soprattutto se aggregati per macro aree geografiche.
    Perché lì si vede benissimo come la globalizzazione neoliberale abbia fallito: aree come l’Africa e l’America Latina che negli anni ’60 e ’70 (ma già prima per quanto riguarda l’America Latina) avevano tassi di crescita robuti e in certi casi notevoli, a partire dagli anni ’80 hanno visto la crescita rallentare, ristagnare o addirittura andare indietro.
    Quindi i vecchi tempi dove vigevano quelle cose oggi considerate criminali come le barriere tariffarie e le politiche indistriali non erano poi così male, visto che questi paesi stavano uscendo dal sottosviluppo a grandi falcate.
    Chi invece ce l’ha fatta? I paesi asiatici, quelli cioè che non hanno seguito le ricette neoliberali e hanno potuto fino a ieri proteggere le loro economie.

    Il discorso che fai sul fatto che senza la globalizzazione saresti a casa a girarti i pollici, scusami, ma non ha assolutamente senso. C’è chi potrebbe dirti, seguendo la tua stessa logica, che lui sta a casa a far niente proprio a causa della globalizzazione che ha cancellato il suo posto di lavoro.

    Anche il discorso che fai a proposito delle economie basate sull’esportazione andrebbe precisato. Non può esiste un’economia che strutturalmente esporti più di quanto importi. Però quello che si esporta, è importante. E la differenza che c’è fra la Germania e l’Italia è tutta qui.

    Se ho nostalgia degli anni ’80 e delle magliette? Innanzitutto l’esempio che fai non è molto pertinente, perché è evidente che un operaio tessile produce più di una maglietta da 2 euro al giorno. L’errore del tuo ragionamento – perché è davvero di errore che si tratta – è pensare che i guadagni degli scambi commerciali siano enormi, ma non è così. Sono molto contenuti. L’eliminazione totale delle barriere tariffarie comporta un vantaggio in termini di Pil dovuto alla migliore allocazione delle risorse pari al 6% del Pil mondiale e due terzi di questi vantaggi deriverebbero dal settore dei servizi (Drusilla Brown, Alan Deardorff e Robert Stern, “CGE Modeling and Analysis of Multilateral and Regional Negotiating Options.”, University of Michigan 2001). Le politiche commerciali di questo tipo hanno infatti il grosso difetto che gli incrementi di benessere sono limtati, ma le redistribuzioni non lo sono: per ogni dollaro di incremento di Pil la redistribuzione può essere stimata intorno ai cinque dollari (D. Rodrik, The rush to free trade in the developing world. Why so late? Why now? It will last?, 1992).

    Il risultato di queste politiche neoliberali non è stato ottimale per noi. L’Italia oggi è un paese dove esiste la sindrome della quarta settimana, dove la povertà e l’emarginazione è aumentata in modo impressionante, tutti fenomeni che prima, negli orribili anni ’80 dove i poveri operai erano costretti a produrre magliette da certi economisti marxisti, non esistevano. Oggi gli stessi operai sono lì a girarsi i pollici, mentre gli economisti vanno in TV e delirano di nuove frontiere tecnologiche…

    Riguardo al protezionismo, evidentemente devi aver assorbito la peggiore propaganda della destra ultraliberale.
    Storicamente, tutti i paesi che oggi sono ricchi hanno utilizzato il protezionismo per mettersi alla pari con quelli che si trovavano in una posizione di vantaggio.
    In tutta la storia economica non esiste un’eccezione a questa legge.
    Per questo oggi l’intera architettura della globalizzazione ha il solo e unico scopo di impedire ai paesi oggi arretrati di mettersi al passo.
    Come disse molto bene un economista inglese: il liberismo è il protezionismo dei ricchi.
    E purtroppo il liberismo si nutre di luoghi comuni completamente falsi, fra cui quello che ogni regola è protezionismo, che le barriere tariffarie sono un furto, eccetera eccetera, secondo la classica ricetta della destra per cui devi sempre accusare qualcuno di fare qualcosa di scorretto. Così non solo conquistati l’attenzione dell’uditorio, ma lo hai in pratica già convinto.

  5. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    @Marisa: ti parlo per esperienza personale: molte ditte del metalmeccanico hanno sondato negli scorsi anni se delocalizzare le fabbriche all’estero e spesso sono giunte alla conclusione che i vantaggi dei prezzi più bassi non sempre venivano compensati dai costi da sostenere a causa di livelli di qualità dei prodotti più bassi. Questa però non è affatto una buona notizia per i paesi in via di sviluppo, dato che impiantare ditte in paesi in via di sviluppo permette di esportare tecnologie (tipico il copia e incolla cinese) e consente formazione del personale. A meno di non credere alla teoria del selvaggio felice.
    Come ho scritto nell’articolo la creazione regole del gioco possono al contrario evitare lo sfruttamento della manodopera.

    @Armando: dato che io e te non ci conosciamo, ti prego di evitare commenti del tipo “propaganda della destra ultraliberale”. Dato che non conosci la mia biografia ti prego di risparmiarmi commenti di tipo lesivo e offensivo.
    Il mio pensiero non è affatto ultraliberale e infatti le soluzioni (sistema di regole, formazione, scuole…) le ho presentate nell’articolo/i stesso/i; basta leggerlo.
    Nel passato Mussolini era protezionista (autarchia) e faceva marciare i soldati con le scarpe di cartone, Hitler era protezionista e reggeva l’economia sui lavori forzati degli (schiavi) ebrei. La Cina è protezionista e i diritti umani sono calpestati ogni giorno. L’Iran è protezionista e non si rispetta la democrazia. I vari paradisi fiscali sono protezionistissimi e si arricchiscono con le ricchezze dei signori della guerra e delle mafie.
    Io baso tutte le mie argomentazioni sulle regole del gioco che non sono da confondere con il protezionismo. Quali sono invece le tue soluzioni?

  6. Armando ha detto:

    Vedo solo ora l’intervento di Marisa, con il quale concordo al 100%.
    Il problema, però, è nel come Marisa ha formulato il suo pensiero.
    Se in un dibattito fra economisti qualcuno dal pubblico facesse un intervento di questo genere verrebbe fatto letteralmente a pezzi.
    Il problema è che il pensiero economico moderno è una sofisticata macchina concettuale altamente matematizzata che, alla fine, chissà come mai, giustifica tutto ciò che accade nel mondo.
    Se vogliamo tradurre le sofisticate formule matematiche in un discorso terra terra, questo suonerebbe così: viviamo nel migliore dei mondi possibili. E qualunque intervento tu voglia fare per alleviare le sofferenze dei più poveri e diseredati, non faresti altro che peggiorare la loro condizione.
    Il classico argomento per i salari da fame delle multinazionali è: se le gente accetta di lavorare per quei salari, vuol dire che li considera migliori delle alternative effettive che hanno a disposizione.
    Questo ragionamento viene applicato anche al lavoro minorile, e a ogni altra condizione di abbietto sfruttamento.
    Se invece nei paesi avanzati c’è gente che non arriva alla quarta settimana, il problema semplicemente non esiste. Perché questa gente viene pagata in base al loro effetti contributo alla produzione e la disoccupazione, per l’economia neoclassica, non esiste (non c’è disoccupazione se non volontaria.)
    Il risutato lo abbiamo sotto gli occhi in Italia: un paese, rispetto a vent’anni fa, totalmente regredito sul piano economico, politico, morale e sociale, in mano a un proprietario di televisioni che lo governa usando gli spin doctor e con la complcità della totalità della stampa italiana (anche i giornali che fingono di essere antiberlusconiani, come ad esempio Repubblica o l’Espresso, aderiscono comunque all’agenda berlusconiana fatta di liberalizzazioni e privatizzazioni, per quanto – beninteso – ci si possa permettere di farle in Italia…).
    La storia non ha insegnato nulla: passare da un sistema con grossi difetti ma comunque abbastanza stabile al caos più totale non ha altro che risvegliare le pulsioni populiste e di destra.
    Una volta uscite dalla bottiglia, non è detto che si riesca poi a imbrigliarle.

  7. furlàn ha detto:

    Di grazia quale sarebbe il sistema con grossi difetti ma comunque abbastanza stabile?

  8. Julius Franzot ha detto:

    Non penso che esista un’alternativa positiva alla globalizzazione di per sè: ormai il treno è in corsa, abbiamo superato il “point of no return”, non si possono tirare i freni, che si rivolgerebbero immediatamente contro chi li aziona. Mettiamo che Obama introduca dazi, soprattutto alla Cina. Che farà la Cina? Ovviamente attuerà il ricatto di vendere i dollari che possiede, comperando con tutta probabilità Euro. Il risultato sarebbe un’iperinflazione USA ed un’Europa messa in ginocchio dai tassi di cambio. Conviene farlo?
    Finchè si butta giù qualche frase ad effetto (“buy american”) non succede nulla, ma attenti a passare ai fatti!
    Poi ho letto che gli asiatici “non hanno seguito le vie neoliberali”. Ma dove è scritto? A parte la Cina con il suo doppio standard dovuto alla discrepanza tra chi detiene il potere ufficialmente e chi detiene il capitale, mi è difficile pensare ad un Paese più neoliberale dell’India, che lo era già nel 1989, quando ci passai 3 settimane a lavorare. E Thailandia, Korea del Sud, Indonesia e Malaysia non sono forse ancora ferme al Thatcherismo?
    Altro punto che mi fa riflettere: se c’è stata meno crescita con il neoliberalismo, siamo tanto sicuri che crescere su un pianeta con risorse che non crescono sia un bene?
    Terzo Mondo: come immaginerete, non è mia abitudine citare Fini come maestro di economia, ma la soluzione che più mi piace viene proprio da lui, quella di investire in stabilimenti, produzione, alla fine posti di lavoro, in paesi in via di sviluppo. So benissimo che, come scriveva Stiglitz, il FMI ha imposto a questi paesi debiti colossali, i cui interessi cono stati divisi tra governi locali corrotti e certe combriccole americane, ma, almeno secondo me, la soluzione potrebbe essere innanzitutto condonare i debili, ma a patto che vengano fatti degli investimenti concreti, con mantenimento conseguente degli impianti, in settori che non distruggano l’ambiente e senza sfruttamento dei lavoratori. E chi controlla? Ho sentito la proposta di “neutral foreigners” e mi piace. Come mai gli impianti delle multinazionali nei buchi più sperduti dei tropici funzionano e producono merce di buona qualità? Perchè certi posti vitali, tipo direttore tecnico, financial director, direttore del controllo qualità sono in mano ad impiegati della casa madre, che devono frequentare corsi d’aggiornamento in sede e sono controllati da funzionari della casa madre che passano per di là per altre ragioni ufficiali, ma devono tenere gli occhi bene aperti e riferire.

  9. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    @Julius
    Grazie come sempre per il tuo sostegno con le tue argomentazioni. Probabilmente anche tu come me sei un destrorso ultraliberale e liberticida (scusate l’ironia ma non ce l’ho proprio fatta, è stata più forte di me, praticamente l’ho vomitata fuori).

    Aggiungo solo una precisazione. Come ho già detto nell’articolo la clausola “buy american” è mimetizzata in Michigan e in Indiana (non a caso gli stati in cui si accentra la produzione automobilistica americana) in sostegni a chi produce nei due stati (in questo caso addirittura a danno degli altri stati federali). I sostegni vengono però forniti in maniera piuttosto aleatoria (leggi lobby) dai singoli governatori. In questo modo la concorrenza diventa sleale e anche il miglior prodotto al mondo (se vuoi esportarlo negli USA) viene ammazzato prima ancora di atterrare oltreoceano.

    @Armando
    Anagraficamente non posso testimoniare in prima persona, ma parlando con i quarantenni tedeschi (adesso quadri e dirigenti) nessuno di loro si ricorda degli anni ’80 con estrema gioia; anche giovani ingegneri appena sbarcati sul mercato del lavoro non trovavano ditte disposte ad assumerli a causa della crisi. Negli stupendi anni ottanta la speculazione aveva già fatto tremare i mercati (alla faccia delle misure protezionistiche). Ritorna il discorso della mancanza di regole e non della globalizzazione.

    Su un unico e solo punto concordo con te (ma è come sparare sulla croce rossa). L’Italia si trova in questo stato per colpa di Berlusconi; ma non solo per colpa sua ma anche di tutto il resto della classe dirigente inclusa tutta ma proprio tutta la sinistra.
    Tuttavia Berlusconi non è nè liberale nè liberista (vedi due freschi esempi a caso: nel primo caso il caso Eluana, nel secondo Alitalia ma se ne potrebbero citare altre decine) dunque prenderlo come esempio del fallimento della globalizzazione non giova affatto alle tue argomentazioni. Al contrario rafforza proprio le mie argomentazioni che dicono che senza regole e senza principii, la globalizzazione è una parola vuota priva di contenuti.

  10. Julius Franzot ha detto:

    @ Giorgio

    Io ho passato tutti gli anni 80 in Germania e devo dire che è stata per me un’epoca d’oro, impressione condivisa anche dalla maggioranza dei miei amici e colleghi di allora, compresi quelli che vedo tuttora.
    Io trovai un posto da dirigente alla Hoechst AG ( + ) nel marzo 1980: su 5 lettere di richiesta di lavoro (Bewerbungsschreiben) giunsero 4 proposte di colloquio entro 2 settimane e, un mese dopo l’invio delle lettere avevo già 3 contratti a tempo indeterminato tra cui scegliere. Il mio primo stipendio lordo è stato di DM 3.900 mensili x 12 mesi + bonus. Quella volta pagavo DM 600 mensili d’affitto per 75 mq a Kelkheim/Taunus…
    A quei tempi si stava molto meglio che dopo il 1992-93, quando Kohl da un giorno all’altro si prese una cotta per la Thatcher e diventò ultraliberista.
    Comunque un liberista moderato, in confronto allo sfacelo prodotto da Schröder con l’Agenda 2010

  11. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    @Julius/Armando
    Julius, come al solito ti ringrazio e ti confermo che hai ragione tu: se la matematica non è un’opinione, gli attuali 40enni che ho citato hanno finito gli studi negli anni 90 e non negli anni 80, come ho erroneamente dichiarato io. Pertanto hanno esattamente subito la crisi del dopo unificazione 92/93, ossia ciò che Julius ha correttamente descritto come cotta ultraliberista di Kohl per la Thatcher. Faccio ammenda e ritiro l’ultimo appunto di cui sopra.

  12. Armando ha detto:

    Giorgio,
    vedo che te la sei presa perché ho sostenuto che hai utilizzato la parola “protezionismo” come vuole la vulgata ultraliberale.
    Poi evidentemente confermi quello che dico, perché usi la parola protezionismo accostandola alle più feroci dittature del passato e a paesi che, attualmente, non sono un modello di libertà e di democrazia.
    Comunque, la parola, il concetto di “protezionismo” usato come lo usi tu – al solo scopo di demonizzare il concetto in sé e chi lo sostiene – non ha molto senso, è al di là di ogni chiara specificazione.
    Ma si può fare di meglio.
    Vogliamo dire che Keynes è un nazista?
    Diciamolo allora: Keynes era un nazista.
    Qualcuno ha dei dubbi?
    Eppure la Germania nazista adottatò con largo anticipo esattamente le stesse politiche economiche che poi Keynes “inventò” e rese popolari.
    Qualcuno dirà che la “colpa” fu in realtà di Hjalmar Schacht, l’allora ministro delle Finanze.
    Pare proprio di no. Interrogato dagli alleati, Schacht disse che lui non approvò mai quelle politiche, che anzi gli ripugnavano profondamente, ma che Hitler non voleva sentire ragioni, e gli impose l’orrore del deficit spending.
    Quindi è un dato acquisito, Keynes è un nazista.
    Vedi bene che così è impossibile discutere.

  13. Julius Franzot ha detto:

    @ Armando

    Ovviamente non ha senso dire che Keynes è un nazista, semmai avrebbe un 5% più disenso dire che era un comunicta, visto che, applicate all’estremo, le sue politiche porterebbero all’abolizione del denaro.
    Siamo seri: Keynes non fu solamente usato da Schacht, beninteso sotto l’influenza di Hitler, che prevedeva di pagare i debiti contratti con la stampa di ettari cubici di denaro conquistando Polonia, Francia, Benelux, Norvegia, Russia (più tardi)… e quindi rapinando per poter pagare i debiti elettorali.
    Keynes fu anche usato da gente più onesta, ma anche più ingenua, come Eisenhower, Kennedy, Johnson, per rinforzare la domanda interna, nella buona fede che il mercato, a cui sempre tutti i merikani credevano, fosse capace di rigenerazioni spontanee. Sappiamo tutti, ora, che non è così e che Keynes può servire a superare un momento di crisi, ma servono misure strutturali per evitare che le crisi sfocino in avventure tipo Danzica, Korea, Vietnam…
    Quello che manca ai partiti, non solo in Italia, è il coraggio di dire ai propri elettori: “il libero mercato – che tutto libero non lo è stato mai – ha finito la sua funzione ed ora bisogna cambiare sistema”. Purtroppo queste frasi, che ho sentito decine di volte nelle mie 2 settimane berlinesi, soprattutto all’inizio, sono impopolari. La gente ha paura del nuovo, soprattutto se il nuovo, oggo come oggi, non si può più impacchettare in un corsetto ideologico semplicistico, tipo “aboliamo il capitale, tutto il potere ai Soviet!”. Oggo è necessario spiegare al popolo che si tratta di deformare il mercato, sdoppiandolo, sotruendo un segmento non sensibile al mercato, non monetizzabile, che deve essere finanziato con un’accorta – ed innovativa – politica fiscale (per esempio minimo, le tasse all’80% di Obama sui bonus dei manager falliti). La gente non capisce, come diceva Schumpeter “l’elettore è ignorante”, ed è felice di restarlo. Se qualcuno oggi propina al pubblico, che non riesce ad arrivare alla fine del mese, ricette complesse, rischia forte la bocciatura elettorale.
    Chi non la rischia? Quelli che propinano al popolo bue la ricetta che il mercato regolerà tutto, che la natura è uguale al mercato, che non c’è morte senza garanzia di resurrezione. Ovvio, che si tratta di sirene, ma queste sirene sono tanto potenti da attrarre nella loro orbita anche partiti che, a livello intellettuale e macropolitico, avrebbero le idee giuste, ma non possono metterle sul programma, per non precludersi alleanze con i populisti che predicano le virtù degli struzzi.
    Chi sono questi populisti? In Germania l’FDP, in Austria l’ FPÖ, in Italia forse Casini.
    Io avevo sperato che fosse possibile arrivare al nuovo, ineluttabile, sistema per vie legali, democratiche, parlamentari, ma nutro sempre di più il dubbio che queste non basteranno…
    Anche la Thailandia era un paese democratico.

  14. Armando ha detto:

    Scusami Julius,

    ma la tua classificazione dei paesi, su chi è liberista e chi no, non mi sembra chiara e contiene delle affermazioni difficili da condividere (ad esempio, l’India come paese liberista già nel 1989, quando aveva delle barriere tariffarie notevoli, molto superiori a oggi, che continua ad avere riguardo alle importazioni un indice di restrizione al commercio del 22%, contro il 6% di Ue e Usa, il 4% della Turchia. Certo, il commercio non è l’unico parametro sul quale si giudica se un paese è o non è liberista, ma visto che il free trade è uno dei pilastri della globalizzazione neoliberale può essere considerato un buon indicatore).

    Il concetto di “liberismo” non deve essere preso astrattamente. Nessun paese è liberista o protezionista. Ogni paese ha attraversato diverse di queste fasi.

    La storia, ad sempio, ha registrato il semplice fatto che il paese che in quel momento ha la leadership tecnologica tende a promuovere il libero scambio.

    Il punto, quindi, è se un paese è o no libero di adottare la politica commerciale che ritiene più adeguata. Se ritiene che aprirsi indiscriminatamente alle importazioni dei paesi più avanzati sia per lui un bene, perché non farlo?

    Però la storia di questi ultimi anni ha visto da un lato l’America Latina e l’Africa adottare politiche di integrazione nell’economia mondiale di tipo coatto, mentre i paesi asiatici hanno manutenuto le loro economie decisamente protette, facendo ampio uso di sussidi e di interventi statali, aprendosi poi gradualmente secondo tempi e modi decisi con relativa autonomia.

    Comunque, da questo punto di vista, credo che ancora oggi la Korea del Sud, l’India, la Cina o il Vietnam non siano proprio i primo paesi che vengono in mente quando si parla di liberismo.

    Il mio riferimento alla crescita economica – e ti ringrazio dell’osservazione molto pertinente – non era per lodare la crescita in sé, quanto per contestare il dato secondo cui la globalizzazione riduce la povertà (+ crescita – povertà, è questa l’equazione che ci hanno venduto). E’ un’affermazione già di per sé priva di senso visto che non si appoggia ad alcuno scenario controfattuale, ma che è ancora meno accettabile visto che è falsa alla radice.

    Infatti, molti paesi con il neo-liberismo si sono bloccati o sono andati indietro. Un fatto che appare quasi senza precedenti nella storia, ma che sembra non interessare nessuno, tanto che i responsabili di questo sfacelo sono ancora lì, insegnano nelle stesse Università e continuano a girare il mondo riveriti e spesati.

    Comunque, come dicevo in un altro intervento, la globalizzazione è il caos sistemico.

    Fino a ieri non era neppure pensabile che gli Stati potessero trovarsi di fronte a problemi di tale portata che potessero mancare le risorse necessarie per fronteggiarli.

    Riguardo a Fini, scusa, ma non si tratta di una banalità?
    Non era esattamente il sistema vigente in precedenza prima che venisse smantellato?

    Volevi vendere nel paese X? Sorry, non è possibile. E se metto una fabbrica da voi? Prego, si accomodi. Così funzionavano le cose.
    Ma neppure questo sistema è esente da problemi. Si raggiunge rapidamente la saturazione e ti ritrovi in un paese con un’economia duale. Con il rischio che non riesci più a tenerlo insieme. (Da questo punto di vista, Cina e India rischiano grosso.)

  15. Armando ha detto:

    Caro Julius,

    quello che scrivi è musica per le mie orecchie.

    Hai detto due cose che condivido al 100%.

    La prima è che il mercato col piffero che si autoregola.

    La seconda è che la gente ha paura dei cambiamenti.

    Però il secondo punto non mi sembra un problema.

    Si tratta solo di spiegare alla gente che non vive più nel sistema degli anni ’80. Perché la gente non lo sa, nessuno glielo ha detto.

    Ai problemi che aveva negli anni ’80 (perché ce ne erano anche allora) se ne sono aggiunti di nuovi dovuti alla distruzione del sistema che era stato creato proprio per limitarli.

    Non mi sembra una cosa così difficile da spiegare.

    Anche perché così si spiega come mai si sono trovati in una situazione di relativo diffuso benessere a una di incertezza (per moltissimi) e di peggioramento grave (per molti).

    Certo, se non si comincia mai…

  16. Armando ha detto:

    @ Furlàn

    Il sistema a cui mi riferisco viene chiamato “l’età d’oro” del capitalismo.

    Va dalla fine della II° guerra mondiale al 1973.

    The world economy grew very much faster from 1950 to 1973 than it had ever done before. It was a golden age of unparalleled prosperity. World per capita GDP rose nearly 3 per cent a year (a rate which implies a doubling every 25 years). World GDP rose by nearly 5 per cent a year and world trade by nearly 8 per cent a year. This dynamism affected all regions. The acceleration was greatest in
    Europe and Asia. There was also a degree of convergence between regions, though a good part of this was a narrowing of the gap between the United States and the other advanced capitalist countries (Western Europe and Japan).
    (…)
    The second new element of strength was the character of domestic policies which were self–consciously devoted to promotion of high levels of demand and employment in the advanced countries.
    Growth was not only faster than ever before, but the business cycle virtually disappeared. Investment rose to unprecedented levels and expectations became euphoric. Until the 1970s, there was also much milder inflationary pressure than could have been expected in conditions of secular boom.

    Angus Maddison, The World Economy, OECD, 2001, p. 22.

  17. Julius Franzot ha detto:

    @ Armando

    Ruguardo all’India io non mi riferivo tanto alla politica estera (restrizioni al commercio), quanto all’impostazione di individuo, politica interna e società. Quando c’ero io in India, la globalizzazione non apparteneva alle cose da parametrare per giudicare il grado di liberalismo di un Paese; basti dire che l’India e l’ Unione Sovietica ricorrevano ancora alla compensazione in natura (gas o altre materie prime contro prodotti tecnologici) pur di non esporre le loro valute al mercato. Lo facevano per ragioni opposte: UdSSR per chiudersi al capitalismo, con il fine ultimo di abolire il denaro e India per prepararsi ad invadere il mondo con i suoi prodotti, senza rischiare di indebitarsi troppo nella fase preparatoria. Pensa che allora in India per gli stranieri era proibito introdurre rupie e quindi dovevano pagare tutto il USD, cambiati negli alberghi al doppio esatto del cambio ufficiale. E’ vero, quello non era mercato.

    Però avevo capito come ragionava l’indiano nella fase preparatoria: meglio assumere molte persone e pagarle poco, così a loro volta queste potranno assumere altri a salari di fame ed è meglio che molta gente abbia poco da mangiare che che ci siano morti di fame. C’erano comunque, a pochi metri da ville lussuosissime dei ricchi “imprenditori”, cirdondate dalle “case” della loro servitù, che consistevano in un ombrello ed un altro palo che tendevano un lenzuolo, dal quale svettava un’antenna televisiva.
    Allo Stato non veniva neppure lontanamente in testa che ci potesse essere un sistema sociale che garantisse a tutti il minimo. Era la cultura della disuguaglianza elevata a sistema e, quando non c’erano più argomenti, difesa a colpu di caste e di karma. Negli ospedali (in genere americani) per ricchi non mancava niente, erano meglio che in Europa, mentre in quelli statali, comunque a pagamento, i pazienti dormivano su materassi posti su 3 lati di uno stanzone. Perchè solo su 3? Perchè il quarto lato era il gabinetto!

    Partita da questa base di “homo faber fortunae suae” portata all’esasperazione, ora l’ India ha sviluppato un’industria informatica, chimica, ecc. di tutto rispetto, ma sempre basata sul “pagare poco per dare lavoro a molti”, ovviamente con le dovute eccezioni.

    Se questo non è turbocapitalismo, cos’è?

  18. Armando ha detto:

    Caro Julius,

    effettivamente una società ultraclassista come è quella indiana può finire con l’assomigliare parecchio alla società americana guidata dagli (ex?) padroni del mondo.

    Però nel caso dell’India la disuguaglianza è un punto di partenza, in quella americana, semmai, un punto di arrivo.

    Il concetto di assumere molti e pagarli poco non mi sembra particolarmente turbo-capitalista.

    Semplicemente dipende dal fatto che là effettivamente le gente costa poco perché c’è abbondante offerta di manodopera scarsamente qualificata.

    Comunque l’India è meno diseguale degli Usa, se ci rifacciamo all’Indice di Gini, che è 36,8, molto più vicino a quello dell’Italia (36) che a quello, appunto, degli Usa (40,8).

    Davvero molto basso, ti farà piacere saperlo, è quello della Germania: solo 28,3.

  19. Julius Franzot ha detto:

    Capisco cosa intendi, ma a me sembra che sia la sociatà americana (dai tempi di Reagan) che quella indiana (da sempre o quasi) tendano asintoticamente al mantenimento di una scarsa mobilità verticale dal basso all’alto.
    Per me questa grandezza, in fondo la cementazione della disuguaglianza e dell’oligarchia, è il nucleo del turbocapitalismo.
    Certo è, che tante sono le teste, tanti sono i pareri su di una definizione di capitalismo vs. socialismo, con tutte le vie di mezzo.

  20. Armando ha detto:

    Mah, non ho dati molto attendibili, ma negli Stati Uniti un certo ascensore sociale ha funzionato in passato. Forse non come si vuol far credere, ma una certa mobilità c’è stata, penso superiore a quella europea.

    Adesso l’ascensore è rotto da un po’ di tempo, ma si continua a fingere che funzioni, sia là che qua.

    Comunque, il punto non è mantenere l’ascensore, se il costo è un forte aumento delle disuguaglianze. Ma la mobilità sociale è una delle grandi idee di marketing usate per vendere il prodotto-Usa e non la si vuole mollare tanto facilmente, a dispetto dei dati reali.

  21. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    Rimango ogni momento più basito dalle interpretazioni della realtà fornite da Armando. A tal punto che l’India con un PIL pro capite oscilla (a seconda del metodo di calcolo) tra il 122 e il 141 posto (ma dici tu ben distribuito) diventi meno disuguale degli USA dove il PIL pro capite è di circa 46,000 USD. Tradotto in altri termini: meglio morire di fame in maniera uguale che stare bene in maniera disuguale. Ma attenzione! Considerando che il Gini non serve affatto a misurare l’uguaglianza di una nazione (in India probabilmente hai lo stesso numero di straricchi che hai negli USA, ma sono “più marginali” essendo calcolati su di 1MLD di persone rispetto ai 300K degli USA) anche l’uso che fai tu del parametro è errato.
    La società Indiana è disuguale sia come punto di partenza, sia come punto di arrivo, per via delle caste (problema millenario) ma anche per via dei vari veri turbocapitalisti che stanno mettendo alla fame la propria nazione (vedi il signor Tata con il progetto Nano).

    Anche il discorso dell’ascensore sociale (la cui interpretazione di Julius è più che sensata) “mobilità superiore all’europa” fatto da Armando non ha alcun senso, visto che l’accesso agli studi superiori (college), il quale è l’unica chance di riscatto sociale duraturo, è completamente preclusa negli USA agli studenti senza un solido background familiare. Basta farsi un giro nelle varie imprese con un buon livello di R&D e osservcare il colore della pelle dei colletti bianchi e di chi sta alla catena di produzione. Qui in Europa gli studi non sono preclusi a nessuno e le tasse sono (con sacrifici, ovvio) accessibili per tutti.

    Ultimo punto riguarda l’età d’oro. Sarò breve: si chiama ricostruzione postbellica, da cui i tassi di crescita. Spero che adesso non cominciamo a inneggiare alla ricostruzione postbellica.

  22. Julius Franzot ha detto:

    @ Giorgio

    Mi ha fatto sorridere l’ultima frase, quella sulla ricostruzione postbellica. Al primo momento. Poi ho riflettuto e mi somo reso conto della natura del “bellum”. Oggi, è vero, non trattiamo più in Europa certi argomenti a cannonate, ma ci stiamo distruggendo con inquinamento da energie fossili, masturbazione sulla crescita infinita, masse immense di denaro virtuale, dogmatizzazione dell’ineluttabilità di un certo numero di disoccupati (Sockelarbeitslosigkeit). Perchè una volta la temperatura saliva di 1 grado ogni 1.000 anni ed oggo lo fa ogni 120 anni? Perchè una volta in Europa c’era lavoro per chiunque volesse accontentarsi di “rimanere”, senza voler “crescere” ad ogni costo?
    Qui forse siamo in piena guerra, ma nessuno se ne rende conto. La guerra non è il “civilisation clash” dell’ 11 settembre, non sono i cattivi musulmani che vogliono conquistare i buoni cristiani (o viceversa). La guerra siamo noi contro la Terra e le sue risorse, è l’avidità degli oligarchi, è il voler imporre una generazione nuova di prodotti mentre quella “vecchia” è ancora perfettamente in grado di fare il suo lavoro. La guerra è anche credere che esista gente che valga 1.000 volte più di altra, non perdere questa fede nemmeno di fronte all’evidenza che si tratta di palloni gonfiati, da Ackermann a Zumwinkel a Cimoli.
    Mentre la massa, consapevolmente considerata come tale dalle oligarchie di propria nomina, non rischia di mettere al mondo figli in un mondo in cui si sa quanto si guadagna oggi, ma non si sa quanto e, soprattutto se, si guadagnerà domani.
    Tirnano all’età dell’oro: se, dati ed esperienze alla mano, possiamo concordare che si trattava degli anni 1975-1991, mi sembra che il sapore di ricostruzione postbellica era un po’svanito e le Trümmerfrauen erano più attente ad allattare i futuri disoccupati del turbocapitalismo che ad organizzare la cena…

  23. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    Julius, le tue osservazioni sono argutissime e le condivido in gran parte. La mia precisazione si riferiva al fatto che bisogna contestualizzare il “World GDP rose by nearly 5 per cent a year and world trade by nearly 8 per cent a year” con un “per forza: il mondo (in particolare dall’articolo Europa e Asia) si stava tirando su da uno scatafascio (le due guerre mondiali)”. Il periodo è stato definito da Armando con un “Va dalla fine della II° guerra mondiale al 1973” e mi sono limitato a fare osservazioni su questo periodo.

    Avrei una sola osservazione, che forse scatenerà altre polemiche. La crescita di un’industria sana, basata su prodotti sani che favoriscano progresso e benessere (mi collego al tuo discorso, ad es.: ambiente, salute, conoscenza…) ha il diritto e anzi il dovere di aspirare al profitto; senza profitto non c’è impresa. Certo, il profitto truccato e truffaldino della finanza degli scorsi anni non ha nulla a che vedere con tutto ciò. E gli imprenditori che puntano su prodotti sani, innovativi vanno premiati col profitto e non puniti con sleali sbarramenti protezionistici mirati a salvaguardare industrie vecchie e malandate (qui il senso del mio articolo); altrimenti nessuno avrà più interesse a investire. E credimi questo lo vivo di persona ogni giorno col mio lavoro.
    Come già discusso con Enrico, approfondirò l’argomento “prodotti sani in industria sana” nel prossimo articolo.

    Aggiungerei che personalmente e onestamente ho una visione del mondo un poco più positiva e meno apocalittica, per la quale la guerra è il male assoluto, e per cui la lotta per un mondo migliore si ottiene per molteplici vie. Anche facendo impresa in modo onesto ed esemplare (“vorbildlich”).

  24. Julius Franzot ha detto:

    Dein Wort in Gottes Ohr, Giorgio, soprattutto l’ottima impostazione pacifista e la convinzione che si possa fare impresa in modo onesto ed esemplare. Io sono sempre più convinto che “fare impresa”, a parte imprese artigianali o agricole di piccole dimensioni, sia o pericoloso (guarda le chiusure dei negozi classici, sia in Germania che in Italia, parallela all’indiscriminata apertura di centri commerciali o di negozi che vendono o sottocosto o merce di dubbia provenienza), o implichi l’adesione a certe potenti lobbies, che esistono sia qui che lì (non so se ti sia stato già fatto un certo discorso che comprende la parola “Wahrheit” e prosegue con “Loyalität” e con “Unsereiner weiß doch, dass…”, ma prima o poi, al piu tardi quando avrai un contratto da dirigente da qualche anno te lo faranno).
    Purtroppo stiamo nella cacca mondiale, crediamo di essere liberi, giudicati solo in base ai risultati, alla nostra preparazione, alla nostra rettitudine, ma io almeno ho maturato la convinzione che generalmente viviamo da illusi, ci lasciano credere, cullarci nelle nostre illusioni, affinche non ci accorgiamo che BIG BROTHER IS WATCHING US. E colpisce quando meno ce lo aspettiamo. In Germania la cosa e´particolarmente “tückisch”, dato che devi saper leggere molto bene tra le righe PRIMA e poi accettare certe proposte, anche se non ti piacciono (non pensare troppo male, nessuno ti chiedera´ di vendere droga, uccidere, rapinare… ma si potrebbe trattare di danneggiare consapevolmente gli interessi della Ditta in cui lavori…).
    Per questo dico che in fondo siamo in guerra, divisi tra un impulso positivo a fare il bene ed una sensazione sempre piu´determinata, che ci stiamo trasformando in Don Quichotte, destinati a fare la sua fine se non ci svegliamo. Purtroppo nessuno, in nessun Paese, ti dice quando devi fare cosa: si tratta sempre e comunque di indovinare e di buttarsi in conseguenza su di una determinata strada.

  25. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    Grazie Julius per il tuo commento critico.
    E probabilmente hai ragione tu.
    Tuttavia da qualche anno in qua seguo la mia via pragmatica del tirare dritto nel mio “puritanesimo etico d’impresa” (questa sì che è una definizione heiheihei) e ho avuto più volte l’opportunità di incontrare persone che lavorano nello stesso modo. Purtroppo la maggioranza provenivano più dal R&D che dall’ambito della gestione d’azienda e (l’ammetto) nel metalmeccanico oggigiorno è molto più facile pensarla eticamente… ma anche questo è un buon inizio.
    Mi sono reso conto nel frattempo che buona parte dei “potenti cattivoni” sono una massa di furbetti del quartiere (Tanzi, Berlusconi, Bush…) che sfruttano l’aura di potenti per esercitare il potere. Sono gente mediocre con obiettivi mediocri e visioni mediocri che portano a risultati mediocri. Non è certo abbandonandosi al destino che si evita che tali persone esercitino il potere in modo sbagliato.
    Certo gli errori di un fesso come Bush hanno ripercussioni (globali) ben più larghe di uno gnomo come Berlusconi (nazionali).
    A mio parere tra l’altro una sana democrazia ha tutti i mezzi per disattivare i mediocri (dall’opposizione, alle elezioni, alla magistratura – nel caso in cui i mediocri siamo oltre che mediocri anche colpevoli di reati).
    Forse aiuterebbe in tal caso di più sostenere incentivare l’opinione pubblica alla partecipazione critica alla democrazia (come propongono alcuni partiti) più che sostenere il “tanto non serve a niente”.
    Se io e tu pensassimo veramente che non serve a niente, ti assicuro che – col bel tempo che c’è – non perderemmo tempo a scrivere su questo giornale.

  26. Armando ha detto:

    Senti Giorgio,

    ti ho già fatto rilevare in precedenza che il tuo modo di intervenire è veramente scorretto. Ma evidentemente ci hai preso gusto.

    Sull’India e sull’ascensore sociale non ho scritto le cose che dici tu e non mi devi certo insegnare l’uso corretto dell’Indice di Gini.

    Riguardo all’età d’oro del capitalismo, forse in quegli anni si è andati un po’ oltre la semplice ricostruzione di ciò era stato distrutto durante la guerra.

    Almeno così la pensano gli studiosi di economia. Glielo dici tu che si sono presi un abbaglio? Che hanno scritto centinaia di volumi su qualcosa che non è mai esistito quando in realtà l’economia della metà degli anni ’70 era uguale a quella degli anni ’30?

    Comunque continuare a discutere qui, in questo modo, per farsi prendere in giro non mi interessa.

    Sono intervenuto per gli altri lettori, i quali possono avere qualche interesse per questi temi e vogliono saperne di più.

    Infatti non fai mai riferimento a un dato, non citi mai una ricerca, anche se pretendi che lo faccia io, quasi come su tu fossi un luminare della materia mentre invece quello che scrivi sono solo idee raccogliticce prese dai giornali, e male per giunta.

  27. Giorgio Ciaravolo ha detto:

    Caro Armando,

    Se per via dei miei commenti ti senti offeso, me ne dispiaccio. Nel caso in cui i miei commenti siano stati veramente offensivi per la tua sensibilità, me ne scuso. Dal momento in cui ho cominciato a scrivere su questo giornale, mi sono prefisso di non rispondere con offese personali nei confronti dei miei interlocutori. Allo stesso modo non risponderò neanche alle tue.
    Ti faccio notare che nei miei articoli non ho fornito dati (a meno che non ne fossi a conoscenza diretta – per esempio sull’articolo del “Kurzarbeit”) ma pareri ed esperienze personali riguardanti il mondo lavorativo in cui mi muovo. I miei articoli non sono quindi cattedratici né hanno tantomeno lo scopo di erudire qualcuno. Pertanto come ho già ripetuto un paio di volte non pretendo di fornire la verità assoluta, e il lettore accorto può fornire critiche (costruttive). Come fa per altro Julius (so macht es Spaß!). Ovviamente se nei tuoi commenti scrivi frasi tipo “centinaia di volumi” e simili, il lettore accorto (ed anche io), parte dal presupposto che i centinaia di volumi tu li abbia letti tutti veramente e te ne chiede le fonti. Se i tuoi commenti contengono note stonate ed ho il potere di verificarle (come ho fatto sia per il discorso India/USA, sia per il discorso PIL/Gini), mi riservo comunque il diritto di critica, che ti piaccia o meno. Come per altro ognuno è libero di fare nei confronti dei miei articoli/osservazioni.
    Per quanto riguarda il confronto tra economia degli anni ’30 e ’70 non mi è chiaro cosa intendi dire e onestamente non ci vedo molti parallelismi.

    Cordialmente,
    Giorgio

  28. Julius Franzot ha detto:

    @ Giorgio

    Io perdo tempo a scrivere su questo – e su altri – giornali nella speranza che qualcuna delle mie idee, che non saranno approvate da tutti e nemmeno sono sempre originali, passi sotto gli occhi di qualche politico o “moltiplicatore” che dica “Hey, ma forse è veramente così!”. Oppure: “Scheisse, qualcuno si è accorto che stiamo prendendo la gente per i fondelli!”

    LOL

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