25 Marzo 2009

Non solo ammortizzatori sociali: far uscire il modello Nord-Est dalla crisi

La crisi c’è e colpisce anche il ricco Nordest. Sembra un’affermazione tanto scontata quanto banale, eppure è interessante leggere i diversi articoli che in questo periodo presentano in maniera anche molto discordante tra loro il quadro della crisi per il Nordest italiano. Le reazioni alle Cassandre sono state molto energiche e ci sono state forti critiche a chi presentava a tinte fosche la situazione delle piccole e medie imprese della nostra area. Tanto che anche il Vice Ministro Sacconi si è spinto a dire che sarà proprio il modello Nordest la chiave di volta del superamento della crisi e dello sviluppo del XXI secolo, come quello del Nordovest lo è stato nel secolo scorso.

Al di là del valore mediatico e della volontà di spingere l’ottimismo, tale affermazione rispecchia una visione che possiamo utilizzare come interessante chiave di lettura per guardare a cosa sta succedendo.

Se il Nordest è quindi un modello bisogna capire come questo modello possa essere ancora locomotiva. Molto spesso c’è chi gioca con i numeri per i propri interessi, sarebbe però assurdo non leggere i dati della crisi, che, appunto, c’è. In un contesto territoriale di micro-imprese e di distretti pesano anche le difficoltà delle grandi industrie, che vedono calare ordini e slittare commesse (come ad esempio per Fincantieri) che, oltre al conseguente problema occupazionale, non potranno non avere conseguenze anche sull’indotto delle piccole e piccolissime imprese; ma non ci possiamo nascondere la crisi di alcuni settori trainanti del Nordest, come quello del legno-arredo, del tessile e abbigliamento, l’orafo etc. (la concia vicentina ad esempio è uno dei comparti più colpiti dalla crisi). Di conseguenza vengono colpiti i distretti ad essi legati (come quello della sedia ad esempio) che devono far riflettere quindi sulla tenuta e sulla prospettiva del nostro modello di cluster e di sviluppo socio-economico.

Credo che non si tratti di essere per principio delle Cassandre oppure degli ottimisti di facciata. Il modello del Nordest sicuramente non è fallito e il protagonismo imprenditoriale e la coesione sociale dei nostri territori può essere un buon deterrente per superare la crisi in modo non drammatico. “Quell’orgoglio del Nordest che regge alla crisi” ha scritto Aldo Bonomi in un recente intervento su Il Sole24 Ore, e “Teniamo botta” titolava il numero di gennaio/febbraio di NordestEuropa.it, nel quale Roberto Morelli affermava che la fiducia è anticiclica.

Il nodo cruciale però, secondo me, è che bisogna evitare il rischio di affrontare questa crisi senza cambiare i punti di riferimento socio-economici che ormai sono superati dai fatti. Da un lato il trittico famiglia-impresa-campanile (sempre usando l’immagine di Bonomi) non è più sufficiente, e serve spostare un po’ più in alto il baricentro del “fare territorio”, includendo gli enti locali e le sinergie sovra-locali necessarie. Dall’altro bisogna arrivare ad una diversificazione degli strumenti che colga le trasformazioni sociali e le diverse necessità dei territori. Quindi parlare di ammortizzatori sociali tradizionali non può essere fatto senza pensare ad aree dove è meglio detassare gli investimenti piuttosto che sostenere la cassa integrazione  e senza prevedere anche nuovi strumenti finanziari che possano sostenere imprese e famiglie. Salvare le banche può essere necessario se però alle banche viene chiesto di poter dare nuovo respiro al credito nel quale il rischio non può essere solo a carico dei risparmiatori (soprattutto quando poi le banche cedono a tentazioni speculative). Per non parlare dei salvataggi nazionali “di bandiera”, delle questioni logistiche (Malpensa serve o no al Nordest?) o dei grandi investimenti infrastrutturali nazionali le cui priorità sono poco chiare rispetto alle necessità delle nostre aree (il passante di Mestre è un fatto molto positivo, ma non ha risolto il problema dei collegamenti di quest’area). In quest’ottica forse il famoso “piano casa” che punta lo sviluppo sul settore immobiliare, non è proprio lo strumento migliore per sostenere il Nordest, come in fondo ci diceva anche Stella in un recente articolo. Se il Nordest vorrà essere davvero locomotiva, allora sarebbe meglio sfruttare questa crisi per un riposizionamento strategico, nel quale il “locale” deve giocare con le armi della competizione globale: meglio puntare risorse sull’innovazione, e, quindi, sui nuovi strumenti e sulle nuove sinergie più adatte allo sviluppo e all’innovazione, sempre in un’ottica internazionale. Questi fattori sono più dinamici e forse saranno più utili quando la corsa economica ripartirà.

Occorre però riflettere anche sui nostri territori, sulle aggregazioni, sulla concorrenza interna, per capire quali nuove regole dare al sistema. La frammentazione non è l’arma migliore di fronte alle sfide globali. Serve uno slancio nuovo, di sistema, nel quale tutti i soggetti coinvolti sentano la responsabilità del futuro. Dal mio punto di vista ritengo che l’abbandono di una pratica aggregativa sostenuta in questi anni e il ritorno alla completa concorrenza tra le più piccole specificità o realtà locali non porti a grandi risultati sostenibili e duraturi. Non si tratta quindi di essere Cassandre o facili ottimisti, si tratta di riconoscere gli aspetti positivi di un sistema come quello del Nordest (con tutte le sue sfaccettature) calandolo però nella realtà attuale. Possiamo anche ripensare le alleanze regionali, le aggregazioni sovra-regionali, i partenariati internazionali così come immaginati fino ad ora, ma non possiamo pensare che si possa cambiare tutto senza cambiare nulla.

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4 commenti a Non solo ammortizzatori sociali: far uscire il modello Nord-Est dalla crisi

  1. furlàn ha detto:

    Non illudiamoci. Noi FVG del Nordest siamo la palla al piede. Il modelli triangolo della sedia e dell’occhialeria sono falliti, i poli chimici lagunari sono sulla stessa strada. Unica realtà solida sembrano quelle di Stato (Fincantieri) e finanziarie triestine (che strano no?).
    Il Nordest non abita più qui, forse non c’è mai stato.
    Il Nordest che supererà le crisi del XXI secolo dovete cercarlo altrove, in provincia di Bolzano.

  2. Lina ha detto:

    .. disoccupati..
    trovatevi qualcosa da fare !!

  3. Nicola Cernigoi ha detto:

    Il livello di istruzione formale dei lavoratori impiegati nelle imprese del Nord-Est è tra i più bassi del paese, così come gli investimenti privati in attività di ricerca e sviluppo. Senza capitale intellettuale e ricerca non si può fare innovazione. E’ dunque strategico investire nella formazione di nuovo capitale intellettuale e relazionale, rigenerando le conoscenze e le relazioni che il sistema dell’impresa diffusa ha ereditato gratuitamente dalla dissoluzione del modello fordista. Occorre fare presto perché la generazione che ha creato il Nord Est è terribilmente invecchiata e non ha avuto il tempo o la volontà di formare adeguatamente figli e nipoti.

  4. Armando ha detto:

    Articolo interessante e condivisibile, ma anche molto generico.
    Sono già diversi anni che si scrivono queste cose.
    Se si va a fare una storia del processo di globalizzazione dal punto di vista mediatico, si nota che una decina di anni fa veniva presentato come l’Eldorado. Da anni di crescita stagnante si sarebbe tornati ad alzare il Pil con dei tassi da miracolo economico.
    Tutti i problemi che comunque sono connessi ad un processo di integrazione economica riuscito venivano minimizzati o negati.
    Ma soprattutto, il nocciolo della questione è che la classe dirigente era convinta che il processo di adattamento sarebe stato automatico.
    Quindi: nessuna analisi su cosa fare, nessuna politica da mettere in campo e nessuna risorsa da reperire. Non sto esagerando, non sto facendo alcuna caricatura. Mi ricordo che nel 2000 D’Alema disse al congresso dei Verdi queste parole, e le disse proprio così, in questa esatta sequenza: “La globalizzazione porterà vantaggi per tutti. I posti di lavoro sono su Internet.” E non cito D’Alema per una particolare forma di risentimento, era più o meno quello che scrivevano e dicevano tutti in quel periodo.

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