Aldo Rossi ruba un articolo di David Zanirato al Gazzettino di ieri e noi lo ri-rubiamo:
«Il computer ed internet dentro casa, l’orto con le galline fuori casa». La metafora è molto esemplificativa ma con essa Dipak R. Pant, l’economista intervenuto ieri presso l’Agemont di Amaro, racchiude bene il concetto di economia sostenibile sulla quale dovranno incominciare a poggiare il proprio domani le comunità marginali come la montagna friulana.
Lo studioso, tra l’altro professore presso l’Università Carlo Cattaneo di Castellanza, in provincia di Varese ha presentato davanti alla platea di autorità, rappresentanti di categorie e semplici cittadini (in videoconferenza c’erano anche gli studenti del liceo “Leopardi Maiorana” di Pordenone) il proprio modello di sviluppo, chiamato “Bussola eco-tech”, fondato proprio sull’importanza delle aree marginali e basato su tre concetti cardine: il piccolo centro come elemento di continuità, il riordino ambientale e la connettività.«Esplose le bolle finanziarie a livello planetario frutto acerbo della New economy, accertata l’avvenuta saturazione dei consumi che ora ci ha lasciato “carcasse industriali” – ha chiosato Pant – da questa difficile ma salutare crisi possiamo uscirne proprio valorizzando questi luoghi marginali di montagna e di collina dove lo svantaggio strutturale può trasformarsi in vantaggio di nicchia, dove le pere qui, e non nella pianura padana, diventano curiose e diverse proprio per il sistema-luogo in cui vengono coltivate».
Quali allora le strade da poter percorrere? «Su ogni territorio va calibrata specificatamente la strategia più opportuna ma ci sono delle linee guida da cui non si può prescindere – ha proseguito l’economista catalizzando forte apprezzamento dai presenti – occorre una mobilità multiforme fatta di integrazione tra i diversi mezzi di trasporto e non certo una mera viabilità che esaspera il traffico; l’agricoltura va riconosciuta come asset fondamentale sia per lo sviluppo economico sia per la difesa di un ambiente fragile; ci deve essere un indebolimento di quella memoria storica fatta di futili anniversari ideologici a favore di un recupero delle risorse culturali di base, dalle sagre enogastronomiche alle tradizioni popolari; e poi ancora occorre promuovere degli incubatori di piccole imprese, partecipate da amici o da famiglie, capaci di rovesciare verso l’alto un business che diventi competitivo e non comparativo; le “botteghe” di paese devono ritornare a svolgere una funzione urbanistica, di socialità e non solo commerciale».
Tutto ciò però per trovare attuazione non può prescindere dalla connettività, ha ammonito Pant ossia “la capacità dei piccoli centri di rimanere appetibili dal punto di vista delle relazioni con il resto del pianeta, grazie a un salto di qualità nell’investimento tecnologico”. La nota dolente per la Carnia, dove come ha ricordato il sindaco di Amaro Tomaciello, «per stendere le fibre ottiche e portare la banda larga ci si è affidati a tre enti diversi che non si parlano».
Sul tema “sustainable retail”, interessante il reportage radio di Monocle.com su Gipsstrasse a Berlino, ma vi potrei anche parlare di Akazienstrasse nel nostro quartiere e di decine di altre viette dove e’ bello prendere un cappuccino, comprare le patate per il pure’ e andar dal calzolaio, facendo 4 chiacchere ad ogni stop, i berlinesi xe’ ciacoloni.
Negozi piccoli, affitti ancora abbordabili, proprietari che abitano nel quartiere e che in alcuni casi hanno il laboratorio dietro il negozio. Tirare fuori lo stipendio, piu’ che creare il nuovo Starbucks e fare i capitalisti. Evitare la desertificazione sociale dei quartieri, portata dalle grandi catene.
Da questo punto di vista il magazine Berlin-Maximal fa molta informazione e incoraggia al “Made in Berlin” serio (insomma vogliono lasciarsi dietro le spalle la fama di creativi neo-hippy e il solito negozietto di roba indiana a Kreuzberg). Parliamo di produttori di chiavi, di lampade, di dolcetti, di birre locali, di cappelli.
http://www.berlin-maximal.de/magazin/
Un corso di “business model” insegna ai neo-imprenditori come metter su bottega. http://www.b-p-w.de/2009/index.php
Non ho statistiche alla mano, ma a qualcosa servira’ se lo fanno da 14 anni.
La citta’ ha costi bassi ma anche prezzi bassi e abitudini frugali, quindi la riuscita non e’ scontata.
Non siamo a Notting Hill e non e’ la Cool Britannia che fu.
Ma se la clientela riconosce la qualita’ ed i prezzi sono ragionevoli, torna. Se guardo il grado di diversificazione del micro-retail e la presenza nei quartieri, cosi’ male non dev’essere.
I trasporti facili ovviamente aiutano, come anche il fatto che la citta’ abbia mantenuto la sua struttura di micro-villaggi o Kiez, che ha anche favorito la sopravvivenza dei cinemini di quartiere, accanto ai CineMax e CineStar, e anche questi ultimi restano dignitosi e accoglienti e mai squallidi a’ la Blade Runner.
La cittadinanza e’ sensibile al tema, e, interpellata, vota contro i centri commerciali se gia’ ce ne sono a sufficienza. Vedi il caso gazometro Schoeneberg, che diventera’ l’accademia dell’energia anziche’ l’ennesimo mall, visto che a una fermata di metro gia’ c’e’ l’IKEA con Bauhaus und es reicht.
Qui a Roma invece ci stiamo desertificando. Non tanto quanto Londra, e forse rimane ancora qualche traccia di bottega a differenza di Parigi al 100% boutiquizzata al top.
Ma in periferia c’e’ l’overkill di centri commerciali ideali per far passare i caldi pomeriggi ad anziani asmatici e bambini dei casermoni disumani dirimpettai, mentre in centro la pizza al taglio sembra l’unico business model premiante, clonato all’infinito, dalla zona Stazione al Centro Storico, dagli stradoni del Quartiere Appio a Prati.
C’e’ qualcuno che ha perfino scritto un libro su quanto alte siano finanziariamente e non solo le barriere all’entrata per aprire un negozio di pizza al taglio!
Il negozio di cartucce per stampanti e di cibo per cani e gatti sono gli altri 2 esempi che fanno furore in citta’. Tutto qua.
Quindi ogni mese cerco una ragione per andare nell’ultima merceria del mio quartiere.
E’ bellissimo comprare dei bottoni, fettuccia al metro o i collants (da quanti denari?) in un posto che non sia un supermercato. O un franchising con ragazzine ahime’ co-co-co ma TROPPO insistenti sul “se ne compra 51 paia ne ha 17 in omaggio”.
Dove c’e’ ancora un bancone e posso comprare una quantita’ “arbitrariamente piccola” di merceria…senza blisters e packaging.
(peca’ che non so piu’ cusir come una volta, ma ghe xe’ una siora ssai cocola sul mio stesso pergolo…)
Sarebbe bello poter tornare alle cose semplici e trovare negozi con il profumo antico, sogno ma mi piacerebbe
liliana