24 Aprile 2008

Quella linea che ci attraversa

Boris Pahor ancora alla ribalta. L’energia letteraria a 95 anni… un libro di successo e la memoria trascurata comincia ad esserlo meno. Il Sole 24 Ore gli ha dedicato un’intervista martedì 22 Aprile. Proseguite per leggerla.

Intanto, Osservatorio Balcani pubblicava lo stesso giorno un puntuale articolo riguardante la “Commissione mista italo-slovena“, tassello fondamentale per capire il mosaico della memoria trascurata.

Emozionante, infine, oserei definire uno scritto del 1987 trovato girovagando sul web. Sono trascorsi più di 20 anni, ma quelle parole sono attualissime.

A colloquio con lo scrittore triestino
Boris Pahor, il dovere di ricordare
IL LIBRO Necropoli è in testa alle classifiche da settimane e ripercorre l’esperienza dell’autore in campo di concentramento

di Cristina Battocletti

l suo libro, Necropoli, è in classifica da settimane tra i best seller
della letteratura straniera. Buffo, visto che Boris Pahor è nato e
vissuto in Italia. Non tanto se si legge dove: Trieste, città non solo
di confine, ma dalle anime culturali molteplici e dal passato
controverso e travagliato.

Lo scrittore 95enne è sì triestino, ma la
sua lingua e la sua formazione sono slovene. «Il mio libro ha impiegato
quarant’anni a farsi conoscere in Italia», spiega senza un’ombra di
polemica e con una sola frase riesce a dare voce a quasi un secolo di
storia del Friuli-Venezia Giulia. Dal 1913, quando nacque, a oggi. Un
periodo lungo, tormentato e sanguinoso, di divisioni, di guerre e
nefandezze, di cui lui porta un ricordo lucido ma senza rancori. Ha
bene in mente la Casa della cultura slovena bruciata nel 1920, quando
aveva sette anni, l’uso della lingua materna negato dal Fascismo,
l’esperienza del campo di concentramento, l’ostilità fra sloveni e
italiani. Ma parla ugualmente con speranza del crollo delle frontiere e
della rinascita di una cultura di fratellanza e di pacificazione tra le
nuove generazioni.
«Oggi viviamo una vita europea in comune e i ragazzi
non sanno nemmeno di cosa parliamo quando ricordiamo la guerra e i suoi
strascichi. A noi piacerebbe non rivangare il passato, ma abbiamo il
dovere di ricordare. Lo scempio delle foibe da parte jugoslava e
l’esodo forzato dall’Istria, ma anche le nefandezze italiane: la
pulizia etnica, la cancellazione di una cultura».
Vuole guardare avanti
Boris Pahor, con un ottimismo che stupisce chi ha letto le pagine dure
di Necropoli, in cui racconta autobiograficamente il periodo della
deportazione nel campo di Natzweiler-Struthof sui Vosgi. «Gli sloveni
abitano in Friuli-Venezia Giulia da dodici secoli. Viviamo in maniera
molto stretta la vita politica, economica e sociale italiana. C’è stato
un periodo in cui venivamo visti come degli intrusi, ma ora questa
ostilità sta decadendo. Abbiamo le nostre scuole, il nostro teatro, la
nostra radio, la televisione e la possibilità di esprimere la nostra
cultura». Conquiste di cui gli sloveni si sono riappropriati subito
dopo la guerra e che si sono consolidate, secondo l’intellettuale,
soprattutto in questi ultimi anni.
«L’amministrazione comunale e regionale degli ultimi tempi ci ha garantito un’autonomia e un clima di distensione fino a prima inimmaginabili. Italiani e sloveni sono due identità separate solo dalla lingua, ma con una vita comune largamente condivisa».
E prosegue: «Ora Trieste si sta aprendo al retroterra, abitato tradizionalmente dai
contadini sloveni».
Un’operazione che risulta molto più facile adesso che è caduta anche l’ultima barriera tra l’Italia e l’Est, che il Trattato di Schenghen non è più in vigore e non ci si ferma al confine.
«In realtà la frontiera noi non la sentivamo nemmeno prima. Con il lasciapassare attraversavamo le Dogane con facilità, ma oggi questa specie di distacco cade definitivamente. Ci apriamo al Centro Europa, e Trieste tornerà a essere quello che era e per cui era nata, il porto del Centro Europa».
Questa è la dimensione mitteleuropea che auspica Pahor. Anni luce dal 26 ottobre del 1954, quando la sua città divenne nuovamente italiana dopo la firma del Trattato di Londra che spartiva il territorio libero. Lui ascoltava chiuso in casa la gente cantare
fuori con la paura nel cuore.

«Ci furono brutti attacchi di italiani contro negozi e uffici sloveni e chi aveva vissuto i tempi del Fascismo e gli anni anche anteriori a Mussolini temeva di poter perdere ancora
ciò che il governo militare ci aveva restituito. Fu un timore soltanto,
ma noi eravamo scottati».
Passarono anni in cui Pahor si rassicurò, ma
non smise mai di lottare per i suoi diritti, istituendo un legame
speciale con il Friuli. «Ci siamo battuti a lungo con chi reclamava la
dignità di lingua al friulano. Fianco a fianco siamo riusciti a vincere
questa battaglia. E ora è una soddisfazione sentire tradurre
simultaneamente gli atti del Consiglio regionale anche in queste due
lingue e sapere che trentamila ragazzi chiedono di poter parlare nelle
scuole proprio il friulano, che il Governo voleva relegare al ruolo di
dialetto. Io mi attivai già negli anni Sessanta, si parla di più di
quarant’anni di istanze e mozioni».
Conquiste raggiunte con il
contagocce, tanto che, quando la Slovenia divenne membro dell’Unione
Europea nel 2004, gli intellettuali sloveni salutarono l’evento con
scetticismo. «La Slovenia è un piccolo Stato, se paragonato a colossi
come la Germania, la Francia, la Spagna che sono in grado di dettare le
proprie condizioni, che possono imporsi a livello economico. Temevamo
per l’autonomia del nostro idioma e della nostra nazione, così giovane
anche se ben solida sotto gli altri punti di vista».
Un timore che
sembra lontano ora che la Slovenia, tra l’altro, è presidente di turno
fino a giugno del Consiglio dell’Unione, che Trieste non ha più paura
di guardare a Est e riprenderà ad avere un ruolo fondamentale, come
quello che si era guadagnato sotto l’Impero asburgico. Ora che nel
giardino pubblico del capoluogo giuliano c’è posto anche per un busto
di Srecko Kosovel, uno dei padri della letteratura slovena.
«Bisogna
ringraziare Riccardo Illy, uno dei massimi fautori di quest’opera di
riconciliazione. Questo è un passo di statura europea. E grazie a
queste aperture che io e il poeta Alois Rebula e molti altri scrittori
anche giovani, che si esprimono in sloveno, sono chiamati a scrivere
nelle pagine dei giornali regionali, in un’ottica di vero dialogo».
Ed
è un passo europeo poter finalmente trovare sugli scaffali di tutta
Italia un libro dal respiro universale come Necropoli fino a poco tempo
fa disponibile solo in poche librerie triestine. Ci sono voluti
quarant’anni, come racconta l’autore, per capire che un’esperienza di
dolore non ha confini, ma ci si è arrivati. E lui lo racconta con un
sorriso sulle labbra. Fermo sui suoi 95 anni viaggia per l’Italia e si
prepara con emozione ad andare al suo primo Salone del libro di Torino,
stavolta come ospite d’onore.
Cristina Battocletti

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9 commenti a Quella linea che ci attraversa

  1. Julius Franzot ha detto:

    Ottimi pensieri, quelli di Boris Pahor. Peccato che l’autore abbia un po’ sminuito la sua integrità prestandosi a specchietto elettorale per allodole, alla sua veneranda età.
    La sua concezione di minoranze linguistiche è molto diversa dalla mia, però simile a quella di altri intellettuali sloveni di chiara fama, come Kosuta e Jelincic, che, lingua a parte, in fondo si considerano “Primorci” con cultura e mentalità italiana, fondalmentamente diversi dagli Sloveni di Lubiana ed oltre.
    Si tratta di un fenomeno atipico nelle minoranze autoctone: un Valdostano di madrelingua francese (o “patois”) si sente più vicino alla Francia che alla sua valle, un Sudtirolese più vicino all’ Austria che a Trento. Io stesso, tedesco e friulano, ho sentimenti controversi in me, ma non potrei mai pensare di rinnegare nè la Germania nè il Friuli per San Giusto, i Topolini o il 4 novembre.
    Pahor si è guadagnato da vivere paradossalmente come insegnante di italiano in scuole italiane, Kosuta nella sua Slovenica dichiara la sua profonda diversità da quelli che sono cresciuti a Lubiana, senza conoscere le navi del porto di Trieste, la Bora e, in fondo, tutti gli stereotipi della triestinità.
    Mi chiedo come sia possibile.
    Vorrei chiedere un giorno a Pahor che emozioni prova a passare la frontiera, oggi quasi invisibile, tra Slovenia ed Italia: secondo me quella è la vera cartina di tornasole dell’ appartenenza etnica ad un Popolo, la reazione alla prima divisa oltre il confine, il sentimento di essere uno che va o uno che torna, l’attribuzione spontanea dellla parola “libertà” all’una od all’ altra parte della linea di confine. Io so benissimo cosa per me significhino queste cose, non ho idea di cosa significhino per Pahor. Ho la spiacevole sensazione che non capirebbe la mia domanda.
    E’ ben vero che il passato di Pahor nel Lager lo abbia portato ad una distinzione manichea tra chi è democratico (secondo lui Tito non lo era) e chi no, creando nella sua mente una fratellanza unioversale basata sull’ idea e non sull’ etnia. Però, se così è stato (credo di sì), è stato un genio finora incompreso dagli italiani. Chi si affratella volontariamente con gente di etnie diverse, ma di comuni idee politiche non può essere intelligentemente messo al bando dalla letteratura ufficiale italiana. Per di più, se ha dedicato una vita lavorativa all’ insegnamento della lingua maggioritaria nella città dove è nato e vive.
    Secondo me questo dimostra come l’ indole umana sia ancor’ oggi soggetta a stereotipi, a considerare l’apparenza e non la forma, l’espressione e non il sentimento di un autore.
    Con i risultati delle ultime elezioni temo veramente il peggio, riguardo alla concessione di pari opportunità a chi si esprime in lingue diverse dal toscano.

  2. carlo visintini ha detto:

    “Chi si affratella volontariamente con gente di etnie diverse, ma di comuni idee politiche non può essere intelligentemente messo al bando dalla letteratura ufficiale italiana”, però è proprio ciò che è successo, no? e questo è dipeso dalla politica, proprio dal fatto che lui è andato oltre le appartenenze etniche che sono sempre spurie cmq, di confine; cioè a Trieste, chi è che si può definire italiano o sloveno puro? nessuno, o quasi, se escludiamo chi arrivò dal sud dopo il 18 e con il fascismo. ma su cosa esattamente si fonda la divisione in etnie (parola che a me da i brividi…) o nazioni? non siamo forse sempre figli di tante culture che si fondono, si scontrano e si mescolano? il solo uso della lingua è indicativo di un’appartenenza comune? o non sono forse mistificazioni quelle che ci vogliono divisi in un territorio che più che multietnico è meticcio? in fondo se pensiamo a quello che è successo durante la guerra troviamo anche la partecipazione diffusissima dei militari italiani alla resistenza yugoslava, o pensiamo alla divisione Garibaldi-Natisoneo i cantierini: non erano quelli uomini che si affratellevano con altri uomini di etnia differente ma di uguali idee politiche?

  3. Julius Franzot ha detto:

    @carlo visintini: Pahor ha fatto due scelte di campo: una con la politica ed una con la lingua. Puntualmente l’ignoranza dei media locali ha guardato alla lingua, lo ha considerato uno s’ciavo e non si è curata di sapere cosa aveva scritto. Purtroppo il provincialismo della stampa e del cosiddetto mondo letterario triestino è ancora inguaribile: si parla tanto di Trieste cosmopolita ed europea, ma in fondo la cultura la fanno solo quelli che, da destra o da sinistra, “rivendicano l’ impero” (quello delle aquile e dei littori).
    A Klagenfurt, Kitab aveva tradotto e pubblicato Nekropolis già 5 anni fa. OK, sempre troppo tardi anche loro, ma comunque…

  4. enrico maria milic ha detto:

    quello che è più grave di questo articolo è l’attacco della giornalista:

    “Lo scrittore 95enne è sì triestino, ma la sua lingua e la sua formazione sono slovene”

    come se essere triestini non potesse voler dire essere anche sloveni.

    annamose ad ammazzà, va

  5. alessandro ha detto:

    A me sembra che l’attacco della giornalista serva a sottolineare l’opposto: cioè che esistono anche triestina di lingua slovena. forse la mia è un’impressione sbagliata.

  6. enrico maria milic ha detto:

    l’autrice sottolinea come avere una formazione slovena sia anormale per un triestino. avere “una formazione slovena” per un triestino anormale non è, al limite è poco diffuso.

  7. arlon ha detto:

    ho avuto la stessa impressione di EMM, una caduta di stile non da poco.

  8. lucio gruden ha detto:

    Non sono cadute di stile.
    Sono “lo stile”, quello che lungamente conosciamo dal 1946.

    Trieste, come Gorizia, ha avuto una storia millenaria intrisa da idiomi e tradizioni etnico-culturali assai diverse tra loro, ma comunque strettamente collegate dalla condivisione naturale di uno stesso territorio, un tetto comune che “accomunava”.

    4 secoli di cultura imperialregia austro-ungarica, poi, hanno rappresentato un alto grado di civiltà anche amministrativa fondata sul riconoscimento reciproco, imparzialmente ligio alle tradizioni territoriali.

    Poi, dopo la prima, il ventennio e la seconda guerra. Quindi Tito, i deportati, gli infoibati e gli sfollati dall’Istria e la Dalmazia, il triste e sordido collaborazionismo del PCI giuliano e italiano che voleva un territorio disegnato all’insegna della Stella Rossa e la reazione neo-nazionalistica dei tanti Farinacci, Tremaglia, Almirante, Pascoli, Pedroni, ecc..
    Ma soprattutto l’opportunismo pragmatico della DC italiana, molto lontana dai nostri problemi – auspice comunque l’intera Alleanza atlantica – nel tacere le ciniche e revancshistiche gesta titine, in nome di una linea politica che mirava a corroborare in tutti i modi il non-allineamento della politica intrapresa dal celebre Maresciallo jugoslavo.

    Pahor, oggi alle cronache, incarna un esempio nitido di sapienza di vita. Esempio di semplice convivenza non teorica dell’essere umano che si connota e identifica con il proprio territorio, rappresentandone egli – singola sfaccettatura di luce in un composito reticolo diamanteo – l’ineguagliabile prestigiosa complessità.

    Io oggi leggo Pahor, comprendo, rifletto e rivedo. Comprendo cos’è spirito di adattamento naturale. Rifletto sulla buona, ma perduta per sempre, educazione al rispetto del prossimo (di un qualunque “prossimo”, in quanto vicino a noi). Rivedo quello che a noi è stato sottratto forse per sempre: la naturale capacità di “convivenza a prescindere”, senza spingere e strattonare ma semplicemente nascendo accostati. Una sorta di pax vivendi sotto quell’unico stesso tetto dato, che è tetto di tutti, che i miei nonni mi hanno lasciato in eredità e che sento profondamente come parte costituente il mio essere, ma che oggi fatico a vedere riconosciuta come ‘valore’ sentito e condiviso.

    Oggi il nuovo ‘valore’ è la capacità di accettare l’integrazione dell’altro da sé che viene nel tuo territorio. E va fatto. Ma è un passo indietro per chi, come noi, non aveva bisogno di conoscere quello che già eravamo, in quanto figli di una stessa terra e perciò fratelli di sangue (anche se di lingua e tradizione diverse).

    Vedete, io ho un cognome di matrice slovena ma non parlo quella lingua. I miei nonni paterni, triestini da generazioni, parlavano bene e naturalmente l’italiano, il tedesco e lo sloveno.

  9. nemes ha detto:

    Boris Pahor ha una pazienza ed una bonarietà ammirevoli, derivate dall’età, dall’esperienza e forse anche da una certa stanchezza e dalla speranza di vedere avviato un cambiamento epocale.
    Sono tutte belle cose, la fratellanza, l’apertura geografica e politica, la nuova armonia in salsa austro-ungarica.
    Personalmente io non accetterò mai tutta questa bella insalata per il semplice motivo che certi figuri della politica locale e non solo non hanno MAI chiesto sinceramente scusa agli sloveni o agli jugoslavi per quanto fatto dal fascismo.
    Basti vedere la loro supponenza, la loro convinzione di appartenere ad una cultura superiore, il loro razzismo velato e magari mascherato da battute simpatiche…
    Non raccontiamoci frottole, a Trieste el s’ciavo resta s’ciavo ed io mai avrò tolleranza per questa cultura diffusa e per questi personaggi che comunque vanno a braccetto con i centrosinistri quando si tratta di piangere sulle foibe o di equiparare ed umanizzare i cari ragazzi di Salò.
    Ma quale concordia, ma quale apertura…

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