18 Gennaio 2008

“Il confine e il peso di un passato insegnato male”

Sta per uscire un articolo di Patrick Karlsen sul mensile “Help!” che tratta il rapporto tra memoria, storia e i luoghi da dove spesso scriviamo, luoghi a cui vi sono appiccicati tanti confini. Ci sembra interessante ri-pubblicare l’articolo…:

Ho trent’anni e ho girato il Friuli molto più dell’Istria. E così la maggior parte dei miei amici.
Basterebbe questo per raccontare quanto i confini, anche per quelli nati come me nell’ultimo quarto del Novecento, siano stati nel corso della nostra vita una presenza incombente e ingombrante. Sul piano materiale, fisico, geografico, ma anche su quello psicologico e politico.
Ricordo bene come a scuola, fin dalle elementari, fosse meglio pensarci due volte prima di dire davanti a qualcuno che la propria madre, o il padre, o entrambi i genitori erano sloveni. Ricordo bene quell’esitazione, quel timore. La diffidenza, il senso di inferiorità instillato in una parte e il senso di superiorità spesso ostentato dall’altra.
Ricordo quando intorno ai vent’anni io e un mio amico ci siamo stupiti – e quanto spaventati, e quanto indignati – al pensiero improvviso di non conoscere nessun ragazzo o ragazza della “minoranza”. È stata una illuminazione. Di colpo ci siamo resi conto che non sapevamo nulla dei ventenni sloveni nostri concittadini, quali abitudini avevano, che locali frequentavano, dove si ubriacavano, dove si innamoravano. Magari nei nostri stessi luoghi, gomito a gomito con noi, ma allora era peggio perché evidentemente non lo facevano nella loro lingua. Era così raro sentire parlare lo sloveno, non accadeva quasi mai.

Di colpo, a me e al mio amico in quel momento sembrò di abitare nel Sudafrica dell’apartheid. Fu allora che aprimmo gli occhi e vedemmo per la prima volta il confine. Non stava sul Carso. Tagliava ogni strada della città.

Così era Trieste negli anni Ottanta e ancora negli anni Novanta, quando per fortuna il ricambio cominciò a diventare visibile anche politicamente. Oggi, io e molti altri miei coetanei proviamo repulsione per il clima di chiusura in cui spesso ci siamo trovati a crescere. Dirlo è doloroso, ma anche molto liberatorio. Per una certa Trieste velenosa e insofferente di venti, quindici anni fa noi proviamo vergogna. Semplicemente, la rifiutiamo.

Malgrado quello che i vecchi amano dire di noi, non siamo affatto ignoranti riguardo alla storia che abbiamo alle spalle. La conosciamo, ci hanno obbligati a conoscerla. Anche se non avessimo voluto ascoltarla, era dappertutto. Nei ricordi in famiglia ripetuti alla nausea, nei pregiudizi e nell’ostilità che tagliavi col coltello, negli sguardi di sottecchi, nelle malignità a bassa voce. Ma soprattutto nelle omissioni, nella parzialità e nella cattiva coscienza dei racconti che ci venivano propinati in continuazione. Chiunque ti parlava, era una vittima. La violenza e il torto, tutti dall’altra parte. Il trucco era troppo palese per non essere fiutato. E per non insospettire anche i più ingenui.

Chi di noi ha avuto la voglia o la fortuna di approfondire, di leggere e studiare, ha poi un altro motivo per respingere in blocco quel passato. Il punto è che abbiamo capito piano piano che ci avevano raccontato la storia sbagliata, una storia parecchio monca e macabra, tutta di segno negativo. E non i nostri professori, i quali per una sorta di imbarazzato riserbo, a parte sempre lodevoli eccezioni, cercavano di non toccare nemmeno certi tasti.

Ma coloro che si sono eretti a nostri maestri “supplenti” fuori di scuola. Una selva di parenti, conoscenti, amici di parenti e conoscenti, giornalini e libretti, trasmissioni di tv e radio locali, che nella foga didattica e compensatoria del racconto, nell’ansia compulsiva di mostrare partecipazione alle sorti della città, hanno offerto in realtà un pessimo servizio a Trieste. Paradossale. Molto ironico. Ma vero.

Ci hanno descritto la Venezia Giulia del secolo scorso come un pentolone ribollente di persecuzioni, intolleranze, ideologie totalizzanti e opprimenti. Univocamente, senza scampo, la nostra era la terra dei nazionalismi e degli estremismi; la Risiera, le foibe e l’esodo i punti cardinali di questa patria-simbolo del crimine politico novecentesco. Non c’è qualcosa che spieghi in modo semplice un atteggiamento tanto controproducente, e cioè la vera e propria dissipazione culturale che ha avuto luogo su questi lidi nel lungo dopoguerra. Ma la verità è che nessuno, occupandosi della nostra educazione civile, ci ha mai illustrato a dovere le figure e le esperienze che smentiscono la statica effige giuliana del sopruso e del dolore.

Sono stato formato nelle scuole italiane di dieci-quindici anni fa, dunque è di questo mondo che sto parlando. Non una parola su quanti nella Venezia Giulia, né pochi né di scarso spessore intellettuale, hanno combattuto in vita e a volte sono morti in nome di valori antitetici, o sicuramente diversi rispetto alle idealità dei nazionalismi e dei totalitarismi. Non una parola sul loro retroterra di appartenenze politiche e culturali. Di contro, l’evidente incapacità di accostare quei profili uno di fianco all’altro, così da poter scorgere il filo di una tradizione, di un sostrato, di un contesto differenziato ma di comune impronta liberal-democratica. Contesto nutrito da una secolare abitudine alla tolleranza e alla convivenza, patrimonio a sua volta di estesi settori della società giuliana, sebbene silenziosi e discreti. Orientati forse a esprimere quei valori nella pratica minuta della vita quotidiana. Di certo valorizzati raramente dalla politica, messi ai margini da ben più rumorose minoranze attive.

A tale discorso l’accademia obietta di solito che quelle correnti, che per comodità chiamo qui antitotalitarie, non sono state in grado di incidere nella realtà politica giuliana. Al contrario sono risultate perdenti, sconfitte nella dura battaglia della storia nel mentre quella battaglia si svolgeva. È un’obiezione che muove da misteriose pulsioni autolesioniste: forse dal risentimento di un ceto intellettuale che con qualche frequenza, per mancanze e difetti suoi, ha avuto difficoltà a conciliarsi con la società in cui operava. Essa mira ancora una volta a svalutare la storia complessiva della Venezia Giulia, ritraendola come imprigionata in un suo piccolo Sonderweg, essenzialmente “destinata” a partorire i mostri ideologici che l’hanno alla fine divorata. Quasi fosse lei stessa un territorio adatto a produrre – e non invece a subire – forme particolarmente aspre di fascismo e poi di comunismo.

Di questa obiezione ci si sbarazza con un paio di domande, che sorgono da un facile quanto sano esercizio di comparazione e contestualizzazione. In quale luogo le forze antitotalitarie hanno prevalso, dopo la Prima guerra mondiale? In quale luogo hanno potuto disporre della massa critica necessaria ad arrestare la marea montante del radicalismo politico? Non in molti posti, mi pare. Certo non in Italia o nell’ex Jugoslavia. Se la quasi totalità d’Europa si stava allora “ammalando” di totalitarismo, quel morbo per imporsi nella Venezia Giulia – una regione composita, etnicamente e nazionalmente plurale – ha dovuto aggredirla con speciale virulenza. Il fascismo italiano e il comunismo jugoslavo non sono nati qui. Qui si sono manifestati ed espansi con notevole crudezza, perché le condizioni di partenza di questa regione la rendevano più difficile da assimilare in un progetto totalitario.

Sicuramente, a parecchi tra i giovani della regione non dispiace il futuro europeo che si sta aprendo davanti a loro. Dispiace molto di più un passato nel quale non hanno mai saputo né voluto riconoscersi. Anche perché sanno, o intuiscono, che spesso glielo hanno insegnato davvero male.

Patrick Karlsen, gennaio ’08.

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12 commenti a “Il confine e il peso di un passato insegnato male”

  1. valerio fiandra ha detto:

    Credo non si possa dire meglio. E non vale solo nel caso raccontato.
    Un articolo così è un pregio per Help e bora.la che lo ospitano.

    Come sarebbe stato bene nelle pagine del PICCOLO, o del PRIMORSKY durante la sbornia celebrativa di pochi giorni fa…

    Grazie, Patrick.

  2. Julius Franzot ha detto:

    Ottimo articolo, che dovrebbe servire da punto di partenza, non solamente teorico, per veramente superare i confini che ragliano le strade di Trieste e del Carso. Però io penso, come avevo anche detto al Mittelcamp, che ci dovrebbe essere qualche facilitazione istituzionalizzata per i contatti transfrontalieri. Ha poco senso rimuovere frontiere tra Valmaura e Ricmanje per continuare a trovare una frontiera umana, intellettuale, comunicativa dove una volta bisognava mostrare la propùsniza.
    Piccole proposte: calendario transfrontaliero degli eventi, guida alle associazioni culturali e sportive tra TS e LJ, finanziamenti pubblici che includano attività da svolgere nel paese confinante in collaborazione con associazioni locali.

  3. asem ha detto:

    Pacato, coerente e onesto.
    Lo stesso si poterebbe scrivere nella lingua slovena, però anche in quel caso non sarebbe stato pubblicato , ma lo troveresti soltanto su internet.

  4. asem ha detto:

    X Valerio Fiandra, spero che non ti infastidisca la mia correzione . primorski e non primorsky (1. perchè la lettera y non è usata nella lingua slovena tranne per l’inglesismi, 2. perchè primoski evuol dire pri (vicino, da, a fianco) morski (del mare ), nel senso primorski dnevnik (giornale “del mare” o meglio del litorale in quanto primorska e la regione “vicina al mare ” tradotto in italiano litorale, se non sbaglio già duante l’Au).
    Cmq tanti saluti

  5. arlon ha detto:

    Hmm niente mal. Grazie.

  6. ASEM, forse la traduzione più letterale è “presso il mare”.

  7. valerio fiandra ha detto:

    grazie Asem, le correzioni sono utili e certi sbagli…rivelatori.

  8. asem ha detto:

    Federico Dedni Carando, hai ragione , è meglio “presso il mare”.

  9. djn ha detto:

    Non vorrei fare il pignolo, ma la traduzione letterale in ‘presso il mare’ è scorretta. Il nome della testata andrebbe inteso come ‘Quotidiano del litorale’, riferendosi appunto alla regione della Primorska, che storicamente si considera comprendere il territorio tra (indicativamente) Portorose, Pivka e Tolmino, Trieste e Gorizia incluse.

  10. DARJA ha detto:

    …grazie per questo articolo..sarebbe molto piacevole se i due paesi potessero finalmente superare il passato guardando verso il futuro comune..

  11. vasco vacon ha detto:

    chi sostiene che giuseppe cobolli gigli era figlio di un maestro sloveno, Nikolaus, è responsabile di diffamazionhe aggravata tramite internet nei confronti delle famiglie Cobolli di Capodistria; I Cobol, poi Cobolli, sono da sempre capodistriani come si legge anche nei reperi angrafici degli esuli custoditi dalla Curia di Trieste. Giuseppe cobolli non ha mai indossato la camicia nera, non ha mai appartenuto a gruppi di picchitori fascisti, e come ingegnere è diventato, per i suoi meriti ministro dei lavori pubblici. sotto la sua direzione è stata costruita la rete stradale etiopica come commissario del Genio Eritreo; di questo,nonotante l’occopazioe di Mussolini, gli etiopici danno un merito agli italiani. sarà bene che la vicenda di Nicolaus, che non è mai esistito e del presunto figlio Josef, smetta di apparire in internet come vicenda vera, e se qualquno vuol spere di più delle famiglie Cobolli può rivolgersi alle varie associazioni degi esuli, tutti presenti in internat, in primis l’A.N.V.G., e sentiranno le risposte. L’inventore della storia di Giuseppe Cobolli offende la dignità dei profughi istriani, e dimostra un’ignoranza e imbecillità metafisiche. V.V., capoditriano

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