Pubblichiamo, a proposito della prossima ventura allegra defunzione del noioso decrepito e tutto sommato sclerotico confine italo-sloveno, quest’articolo di Davide Lessi, del periodico “Sconfinare” degli studenti universitari di Gorizia
Oggi, ormai coperto dal telo europeo, il confine rivive nella piazza simbolo di questi ultimi anni, la Transalpina, nel museo allestito dal Goriški Muzej su una piccola stanza di quella che fu la stazione austro-ungarica.
A raccontare le immagini, i manifesti, i documenti, le divise di quei tempi è Marinika, signora dell’ufficio informazioni, che ripercorre insieme agli interessati, “tanto gli italiani, tanto gli sloveni”, la storia del confine. Una storia che è poi anche la sua e di quelli che, come lei, portano ancora i segni, cicatrici esterne e interne, della frontiera spinata. Una storia già condivisa da 6000 persone, tanti quanti coloro che hanno visitato il museo nei quasi tre anni trascorsi dall’apertura.
E il racconto di Marinika inizia proprio da sessant’anni fa, da Parigi e ancor prima da un’immagine risalente al marzo del ’46, quando italiani e sloveni scesero in piazza al grido di “Gorizia è nostra”- “Gorizia nasa”; da una parte e dall’altra s’era capito che il confine era ormai una necessità, imposta da un ordine superiore e proprio per questo incapace d’accontentare tutti. Poco importava l’ideologia per chi era alle prese con la sopravvivenza quotidiana. Meno ancora la diplomazia se non toccava da vicino i propri beni, le proprie case, i propri affetti.
Non è un caso se le conseguenze di quegli accordi di Parigi del febbraio ’47 arrivarono in ritardo: fu “quella notte” tra il 15 e il 16 settembre a cambiare tutto, a dividere, a piantare l’erbaccia artificiale della divisione umana che va sotto il nome, sconosciuto ai giardinieri ma noto ai gendarmi, di filo spinato.
Già i gendarmi, i primi soldati ad arrivare sulla nuova frontiera furono proprio i Knoj, Korpus narodne obrambe Jugoslavije, il Corpo della difesa nazionale iugoslava, o della Jugoslovanska ljudska armada (l’Armata popolare iugoslava), di cui il museo conserva alcune divise. Erano loro a controllare che, nella parte iugoslava, si mantenesse una distanza dal confine-recinto di almeno 10 metri. Nella parte italiana era permesso di stare alla rete, quella rete poggiata sul muretto di base che sarebbe dopo tanti anni divenuta il simbolo del “confine più aperto d’Europa”.
Ma in quegli anni, l’unica via per varcare legittimamente la frontiera rimaneva quella istituzionale: “Solo a chi aveva una ragione precisa, e solo per quella, veniva consegnato un lasciapassare” ricorda Marinika, mostrando gli originali dei documenti rilasciati dai due governi. Ai contadini, soprattutto, che al termine delle ore di lavoro facevano ritorno al di là di quel confine che li aveva divisi dai loro campi. Ma anche a chi, come a lei, all’età di tre anni e accompagnata dalla madre, veniva all’ospedale italiano a donare sangue.
La burocrazia non accontentava tutti. In molti si ritrovavano a guardarsi: famiglie prima unite e ora divise dal confine, che se ne stavano a quei dieci metri di distanza senza poter gesticolare, parlare, gridare. “Ero piccola e non capivo perché quella gente si ritrovava a piangere” dice Marinika commentando le foto scattate a quei tempi dal goriziano Altam. Del resto il confine valeva per tutti gli essere viventi. “Neanche le vacche sapevano dove stare” continua con sarcasmo Marinika indicando la foto di un mucca posta a cavalcioni sulla frontiera tracciata sulla terra. Anzi, valeva anche per i non viventi: come nel caso del cimitero del villaggio di Merna, letteralmente tagliato in due dal reticolo spinoso, oltre ogni rispetto per chi se n’è andato e, più ancora, per chi è rimasto.
Percorso d’immagini, di documenti e indumenti che passa anche per i vari momenti della contrapposizione ideologica, costruita sul confine. Tra tutti la stella rossa, quella stella che fu posta nel ’47 in cima alla stazione transalpina con la scritta “Noi facciamo fraternità per i popoli”, sostituita poi nel ’48, anno della rottura Tito-Stalin, da “Noi facciamo socialismo”, per essere infine pitturata di giallo e trasformata in stella-cometa dai ferrovieri sloveni per il natale del 1990.
Perché se è vero che vi fu chi varcò il confine per ragioni ideologiche (un numero non ancora chiaro di bosniaci, croati, serbi e sloveni nonché, in senso contrario, circa 5000 italiani che volevano partecipare alla costruzione del socialismo), c’era già chi, 40 anni prima dei ferrovieri sloveni, aveva trasceso l’ideologia.
In un articolo di “Oggi” dell’agosto del 1950, riproposto dal museo, la corrispondente Miranda Rotteri, scomparsa quasi un anno fa, scrisse sulla rottura spontanea e pacifica della cortina di ferro.
“Hanno invaso Gorizia in cerca di pane e scope” intitolava l’articolo. Gli “invasori” dell’italiana Gorizia avevano creduto all’annuncio radiofonico sull’apertura delle frontierie del giorno prima, e trovandoli chiusi li avevano oltrepassati alla ricerca d’alimenti e di beni di prima necessità. Tra questi, scrisse Miranda, c’era anche un cane, che, fattasi sera, a differenza degli altri “invasori”, non capiva la necessità di ritornare al di là del confine.
Forse era senza famiglia o forse aveva ritrovato la vecchia cuccia, fatto sta che: “Il cane non voleva saperne di tornare a casa. Quel cane saggio e ringhioso è stata la sola nota allegra della giornata”.
Che bello. Mi è piaciuto questo articolo. I limiti dell’uomo sono soprattutto interiori, ma quando sono esteriori e così tremendamente presenti creano maggiore distanza tra le persone. Quanti, soprattutto tra i più vecchietti, hanno ancora il confine dentro di loro? Fortunatamente chi è giovane potrà crescere senza questi limiti e allora uno sloveno e un italiano saranno solo persone e non nomi da odiare. Viva l’Europa!!!!!!!!!!!
Mi permetto di dissentire col tono dell’articolo. Avendo vissuto anch’io a Gorizia trovo che la situazione sia profondamente differente e purtroppo le dispute non fanno che esacerbare reciproche, direi ataviche posizioni. Insomma trovo stupido sostenere la necessità dell’autore come d’altro canto fa l’ottimo Lessi.Ho apprezzato tuttavia lo stile perfetto del suddetto, quasi un’imprecazione cesellata nel diamante.