2 Luglio 2007

L’Italia e il confine orientale, o il suo ritratto di Dorian Gray

Dopo un oblio di decenni è aumentata nel dibattito politico e culturale italiano l’attenzione per la storia del confine orientale. Grossomodo una tendenza in crescendo dal 1989 in poi.

Allora la Repubblica entrava in una fase che avrebbe rivoluzionato il suo assetto politico e incoraggiato una revisione della sua identità nazionale. Insieme con la prima Repubblica andava in crisi la narrazione egemonica e “ufficiale” della storia sulla quale si era sorretta e legittimata. Quella antifascista che vedeva nella Resistenza il mito rigenerante della nuova Italia uscita dal fascismo e dalla guerra.

Questa narrazione rispondeva in parte a una necessità politica. Era funzionale alle forze uscite vittoriose dalla guerra civile del 1943-45 per rinforzarne la pretesa di essere maggioranza nella società italiana. Per sostenerne la legittimità del potere.
Cara alle loro culture politiche, soprattutto a quella comunista, era l’immagine di una Resistenza unitaria e integralmente buona. Attraverso la quale un popolo intero era riuscito alla fine a liberarsi, espiare vent’anni di regime fascista, guadagnare la riabilitazione politico-morale.

Che il quadro del canone antifascista andasse corretto in più punti, la storiografia l’ha riconosciuto solo con fatica e molto ritardo. E per giunta è un riconoscimento ancora minoritario, nient’affatto serenamente accettato.

Oltre a produrre una serie piuttosto nutrita di interpretazioni distorte e a senso unico – ciecamente demonizzanti per un versante, gratuitamente apologetiche per l’altro – lo schema tradizionale lasciava in ombra o espungeva tutti gli elementi in contraddizione con la propria coerenza interna.

Si evitava cioè di approfondire una serie di episodi che possiamo suddividere in due gruppi.

Da un parte, quelli che minavano l’immagine della Resistenza come movimento concorde e tutto edificante. Per esempio l’eccidio di Porzûs, o le foibe, o le violenze su fascisti e presunti “nemici del popolo” nel Centro-Nord dopo il 25 aprile 1945. Avvenimenti che chiamano in causa l’atteggiamento tenuto dal comunismo italiano (e non solo italiano), i suoi obiettivi di allora e i mezzi impiegati per raggiungerli.
Dall’altra, non erano considerate quelle pagine di storia che contribuivano a ricordare la realtà della sconfitta epocale subita dall’Italia nella guerra. E qui, possiamo citare la significativa amputazione del territorio nazionale a oriente e l’esodo di 250-300mila connazionali dall’Istria, da Fiume, da Zara e altri centri minori.

Si trattava, per entrambi i gruppi, di fatti che sminuivano la valenza simbolica della Resistenza come cesura, riscatto collettivo e “secondo Risorgimento”, occasione per il Paese di nuova verginità politica e morale. Una lettura comoda tanto alla nuova classe politica forgiata da quell’esperienza; quanto alla cattiva coscienza di un Paese voglioso in massa di farla franca, voltare le spalle a un passato che l’aveva visto in gran maggioranza appoggiare una dittatura. Anche nelle sue decisioni più estreme.

Tutto ciò ha ostacolato una riflessione rigorosa sulle cause e sull’ampiezza delle responsabilità sollevate dalla catastrofe finale. Nonché sulle sue conseguenze. Si è cercato di circoscrivere le colpe dentro il “cerchio maledetto” del fascismo. Dimenticando che storia d’Italia e storia del fascismo per vent’anni erano coincise.
E proprio dal confine orientale provenivano un buon numero di avvenimenti a rischio di svegliare brutti ricordi. Questa, benché non la sola, è una delle ragioni del perché hanno atteso tanto per essere studiati dalla storiografia e conosciuti da una vasta porzione di opinione pubblica.

Aiuta a capirlo il libro della storica triestina Marina Cattaruzza L’Italia e il confIne orientale 1866-2007, Il Mulino, fresco di stampa. Con una capacità di analisi fuori del comune e con proposte di revisione su alcuni consolidati giudizi, il lavoro di Cattaruzza costituisce uno sguardo di lungo periodo sulla storia del confine orientale italiano. Sempre nell’ottica delle sue relazioni con il resto della nazione e dei reciproci condizionamenti tra centro e periferia.

Un secondo elemento a favore della rimozione del confine orientale dalla memoria e dalla coscienza nazionali, l’autrice lo individua nella peculiarità, propria a quel confine, di esemplificare con efficacia la debolezza strutturale dello Stato italiano. Ovvero l’incapacità dello Stato di saturare con la propria sovranità il territorio sotto giurisdizione. L’Italia, dice Cattaruzza, avrebbe in buona parte fallito il processo di nazionalizzazione. Ed era (è) un vuoto drammaticamente più visibile in una regione dalla conformazione storica, culturale, etnica particolare come la Venezia Giulia.

Ne esce alla fine un confine orientale come lente di ingrandimento di alcuni difetti genetici della struttura civile e istituzionale del Paese. Per tutto il dopoguerra in quella lente l’Italia ha preferito non guardare attraverso: avrebbe visto dilatati gli aspetti meno consolanti della sua storia.

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5 commenti a L’Italia e il confine orientale, o il suo ritratto di Dorian Gray

  1. enrico maria milic ha detto:

    wow, bela recension, davero.

    “non erano considerate quelle pagine di storia che contribuivano a ricordare la realtà della sconfitta epocale subita dall’Italia nella guerra. E qui, possiamo citare la significativa amputazione del territorio nazionale a oriente e l’esodo di 250-300mila connazionali dall’Istria, da Fiume, da Zara e altri centri minori”.

    “SCONFITTA EPOCALE”.

    zà.

    no i me la ga mai contada cussì. ma xè un punto de vista condivisibile. che condivido, anzi.

  2. x_ts ha detto:

    tanto clamore per un libro banale, un insieme non ben definito, teso ad avallare posizioni politiche tipicamente di destra. Inoltre, in linea con la non certo “professionale” tradizione italiana in materia, non vengono utilizzate fonti slovene e/o jugoslave. A riguardo segnalo all’autrice che gli archivi sono aperti da tempo, pertanto può andare a guardarseli tranquillamente, sempre che sappia la lingua, ovviamente…

  3. patrick karlsen ha detto:

    Caro Sig.(ra) x_ts,

    elencami quali sono le “posizioni tipicamente di destra”, per un po’ di maggiore chiarezza. Coraggio!

    Sulle fonti il tuo discorso mi suona curioso, dato che anche Nevenka Troha, che tu conoscerai quale esimia storica slovena, si era complimentata pubblicamente a Gorizia con l’autrice per l’uso ampio delle fonti.

    Saluti X_ts!

  4. enrico maria milic ha detto:

    ciapà su e porta casa

  5. x_ts ha detto:

    Il fatto che la Troha si sia complimentata non vuol dire assolutamente niente! Ma l’avete letto il libro? E avete letto le citazioni (quelle cose scritte in piccolo che si trovano a fondo pagina?). Ditemi voi a quali fonti si appoggia. Per uno spirito di carità fa qualche cenno ai soliti libri della Troha e della Kacin, ma permettetemi, mancano completamente le fonti d’archivio (cioè quelle cose cartacee, spesso giallastre, che si trovano racchiuse in grossi faldoni, conservati presso edifici chiamati Archivi!
    Per quanto riguarda le posizioni di destra leggetevi il libro e capirete perché. Se avete studiato un po’ di storiografia ci arrivate da soli!

    saluti

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