3 Novembre 2017

In ricordo di Assunta Signorelli

el sunto Battagliera, tagliente, scomoda. E allo stesso tempo attenta, generosa, idealista. La psichiatra femminista Assunta Signorelli si e' spenta ieri.

Battagliera, tagliente, scomoda. E allo stesso tempo attenta, generosa, idealista. La psichiatra femminista Assunta Signorelli, che si spenta ieri, è stata a fianco di Franco Basaglia nel superamento del manicomio a Trieste, e ha continuato a lottare per gli ultimi e le ultime senza risparmiarsi mai. Critica fino all’ultimo nei confronti dei modi in cui vengono gestiti il potere politico e in particolare l’eredità basagliana a Trieste, è difficile trovare parole adeguate per ricordare in breve la sua complessa e affascinante figura.
Lasciamo dunque che si lei stessa a parlare, riportando un passo dal suo libro 
Praticare la differenza. Donne, psichiatria e potere, pubblicato nel 2015 da Ediesse, in cui riflette sulla questione femminile ricordando l’esperienza del Centro Donna Salute Mentale da lei diretto, attivo a Trieste dal 1992 al 2000.

 

Le politiche dell’uguaglianza perseguite nel secolo appena trascorso, se da un lato hanno rafforzato la soggettività femminile, dall’altro hanno determinato processi di omologazione al maschile; e conseguente colpevolizzazione delle vittime di violenza come epigoni di una storia che si vorrebbe finita per sempre.

In questa contraddizione, nell’esplicitare l’ambiguità ed il doppio che l’essere donna oggi significa, si è declinata la pratica di Centro Donna allorquando, nell’assunzione della specificità di genere come categoria di riferimento, ha affrontato la questione della violenza sessuale dentro la storia e l’esistenza di ciascuna, mettendo in atto percorsi di autoriconoscimento e di liberazione, evitando processi di psichiatrizzazione e di psicologizzazione, e nello stesso tempo costringendo l’istituzione sanitaria a declinarsi e articolarsi secondo i bisogni e le necessità delle donne.

In molte occasioni il tentativo, in genere utopico, di rompere tutte le categorie è riuscito: quando qualcuna, non era importante quale fosse il suo ruolo, poteva «mettere in scena» la propria storia senza il timore di ricondurla all’astratta ripetitività dei modelli interpretativi, scoprendo il valore e il significato della propria unicità e intuendo la necessità di dare un nome al proprio dire e al proprio fare oltre ed al di là del linguaggio del padre.

Sulla necessità, per le donne, di «nominare» il proprio fare, le cose che faticosamente costruiscono e producono, ritengo necessario soffermarmi. Perché, a mio parere, intorno ad essa ruotano molte delle questioni che riguardano la possibilità di vivere, finalmente, fuori dalla tutela del padre, in una condizione di autonomia piena e di reciprocità con l’altro da sé non più mutuate da modelli che si pretendono «naturali» ma che di naturale hanno solo l’«inferiorità» femminile di aristotelica memoria.

Alle donne non è permesso nominare (dare il nome) nemmeno i propri figli. Il legame che li unisce, per quanto naturale, non ha diritto di esistenza nell’ordinamento legislativo di quasi tutti i paesi cosiddetti democratici e civili: è il padre che dà il nome, e con quest’atto sancisce il suo diritto sulla madre e sul figlio/la figlia, «naturalmente incapaci».

Forse come dicono molti e molte, la questione è del tutto secondaria se rapportata a discriminazioni e disequità più macroscopiche e con ricadute economiche significative. Eppure, a ben riflettere, le sue conseguenze sono state devastanti.

E infatti la vergogna e lo stigma che per anni ha segnato non solo le madri ma anche i figli e le figlie definiti illegittimi o naturali (paradosso di una società che pone fuori legge la natura!) è qualcosa dalla quale non è più possibile prescindere quando si affronta la questione dell’autonomia femminile. Quale autonomia riconoscersi, quale valore darsi, quando anche ciò che nel bene e nel male segnala da sempre la nostra specificità, per avere diritto di cittadinanza piena ha bisogno di porci ai margini, fuori dal diritto e dalla parola?

Qui sta il nocciolo del problema. Perché quest’impossibilità di «nominare» è stata assunta dalle donne come alienazione necessaria, da estendere a ogni proprio gesto o azione: fuori dall’approvazione e dalla tutela maschile nulla ha legittimità e riconoscimento.

Anche noi, operatrici di Centro Donna, non siamo riuscite a fare a meno della tutela e del riconoscimento maschile. E così siamo cadute nella trappola di riportare al nostro interno la contraddizione, preferendo la reciproca invalidazione piuttosto che assumere la radicalità di un percorso autonomo, comunque difficile e in continuo divenire perché fondato non su riferimenti consolidati ma sulla critica dell’esistente. E per questo la domanda che c’eravamo all’inizio poste, quella del rapporto donne e istituzioni, è ancora senza risposta: dall’ottobre del 2000 Centro Donna non esiste più. Non siamo state capaci di esplicitare i nessi e il legame fra l’antagonismo nei confronti delle istituzioni che la nostra pratica quotidiana produceva e il nostro essere comunque istituzione di potere. 

E che la questione irrisolta rimandi, comunque, al rapporto donne e potere nelle istituzioni, lo dimostra il fatto che «Luna e l’altra», l’associazione che fin dall’inizio aveva affiancato il Centro nella riflessione ed elaborazione teorica intorno alla pratica del Centro anche nell’intreccio di attività con donne provenienti da altre storie e percorsi, continua attivamente a operare sul terreno della salute e della cultura delle donne.

Forse questa non è stata la sola ragione che ha determinato la fine dell’esperienza. Forse sono possibili anche altre letture, tutte, come spesso accade, con pezzi di verità parziali, dal momento che la realtà, come la vita, non si lascia mai rinchiudere in definizioni o interpretazioni univoche e totali.

Ma quello che mi appare abbastanza convincente è il fatto che, al di là di polemiche o riduzionismi di piccolo cabotaggio, questa chiave di lettura rende possibile una riflessione laica non solo sulla nostra esperienza ma anche su quella più generale della diffusione del disagio femminile e dell’aumento del fenomeno della violenza contro le donne: entrambi, in quest’ottica, espressione di impossibilità per le donne di autodeterminarsi nel proprio esistere quotidiano.

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Un commento a In ricordo di Assunta Signorelli

  1. Kirsten Duesberg ha detto:

    Grazie per l’attenzione e il riconoscimento che va a questa grande donna, che ha combattuto una battaglia per tutte e tutti noi. Affrontare il conflitto “del genere”/dei generi” nell’ambito della psichiatria e della salute mentale era anche un tentativo per dare continuità e profondità alla “trasformazione basagliana”.
    L’attenzione al genere cosi praticata ha pareto un varco per ri-conoscere (di nuovo) tutte le differenze, che segnano le vite , oltre a quelle della “classe “.
    E ha permesso di riconoscere che la trasformazione è stata possibile, perchè un ambito tradizionalmente femminile come la cura dell’altro/ dell’altra ha potuto incrociare la storia con la S maiuscola, e la lotta di liberazione, almeno per un periodo.
    Kirsten da Udine

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